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lunedì 8 febbraio 2016

Stato Islamico: una creatura del capitalismo petrolifero

Il fondamentalismo islamico ha colpito nuovamente il cuore del mondo occidentale. Per la loro vicinanza e imprevedibilità questi eventi hanno lasciato un profondo senso di urgenza e insicurezza. I mezzi d’informazione di massa intanto buttano benzina sul fuoco gridando alla guerra tra culture, “guerra santa” ecc. I nazionalismi vecchio stile alla “Fratelli d’Italia” e “Lega Nord” in Italia; Front National della Le Pen in Francia, Partij voor de Vrijheid di Geert Wilders nei Paesi Bassi e, in chiave più moderna, moderata ed europeista, dei partiti maggiori (dei vari Renzi, Hollande, Cameron ecc.) vengono venduti come la risposta a questi attacchi. E allora si aumenta la presenza delle forze dell’ordine nelle strade, si approvano raid aerei. E nel caso dell’Italia, si firmano un paio di espulsioni di elementi “pericolosi”, anche se contro il giudizio della magistratura. Insomma, di tutto, basta che si ristabilisca la sicurezza. E ci si stringe tutti attorno alla bandiera, a prescindere dai problemi contrattuali, di disoccupazione e del caro vita perché in fondo non ci sono classi sociali di fronte al terrorismo. O ci sono?                   
Beh sì, a guardar bene le classi sociali ci sono anche in questo caso. Così come gli interessi delle grandi compagnie petrolifere in Medio Oriente e la politica coloniale degli ultimi 200 anni. Ma allora non è che rischiamo di saltare in aria, sempre per la solita ragione, che 75 anni fa vedeva i nostri nonni andare a morire al fronte? E un secolo fa i loro padri?
Sì, la ragione è sempre la stessa, il profitto. E la cosa che dovrebbe far imbestialire noi lavoratori è che il sistema del profitto, ovvero il capitalismo, ha una classe di pochissimi privilegiati che detengono il potere economico e politico e una classe più eterogenea di gente, (che è la stragrande maggioranza della popolazione mondiale) che deve ringraziare la fortuna, o qualche dio, per chi ci crede, se ha un lavoro retribuito. Ora, sì, c’è ancora la fortunata élite di lavoratori dei paesi economicamente avanzati che hanno più opulenza degli altri. Ma non facciamoci illusioni; solo un stolto sarebbe così ottuso da non essersi accorto della caduta del potere contrattuale sofferto da questa élite negli ultimi 45 anni.
Il fondamentalismo islamico odierno altro non è che una risposta indipendentista alla politica coloniale dei paesi occidentali nel mondo islamico. Già nel ‘300, l’elemento religioso era stato usato in quella che è l’odierna Siria per giustificare il rovesciamento dell’invasore Mongolo, Ghāzān Khān, miscredente. Di fondamentalismo, ma non solo, islamico fu ed è caratterizzata la partizione artificiosa dell’India Britannica in Pakistan mussulmano e India induista e buddhista, proprio da parte dei britannici. Questa partizione fu un processo molto tormentato e conflittuale iniziato formalmente nel 1947 che in pratica dura tutt’oggi. Vi furono interminabili guerre tra Pakistan e India per il possesso del Kashmir e del Bangladesh. Di punto in bianco intere popolazioni dovettero emigrare perché si trovarono dalla parte “sbagliata” del confine. Ed ecco che il gruppo pakistano fondamentalista islamico Jamaat-e-Islami divenne un ottimo esempio, di come, la legge coranica, Sharia, e il concetto di guerra santa, Jihād, siano stati (e sono) usati a fini indipendentistici.
Se da un lato i gruppi fondamentalisti pretendono di preservare gli usi e i costumi islamici e per far ciò devono combattere l’Occidente “cristiano” ed ebreo corrotto, oppure gli infedeli induisti, buddhisti o chi che sia; non si faccia l’errore di pensare che gli stessi islamici fondamentalisti siano immuni dal dio denaro. La loro non è una lotta contro il capitalismo, ma la politica coloniale capitalista fatta a loro danno. Il fatto che siamo qui a commentare tragici attacchi terroristici è proprio riconducibile direttamente al dio denaro.
Senza fare un giro troppo lungo. Si consideri come fosse diviso il Nord Africa e il Medio Oriente ai primi del Novecento. L’Impero Ottomano era ridotto ormai all’odierna Turchia, parte della Bulgaria meridionale, parte della Grecia e dei Balcani, la provincia di Beirut (Libano e Siria), il distretto di Zor (Siria), la provincia di Siria, il distretto di Gerusalemme, la provincia di Mosul (Iraq), la provincia di Bagdad (Iraq), la provincia di Basra (Iraq e Kuwait, Qatar, Arabia Saudita), la provincia di Hejaz (Arabia Saudita), il sultanato d’Egitto e lo Stato di Tripolitania (Libia). Questo colosso moribondo era sotto continue pressioni coloniali di vari paesi europei. E se l’Impero Ottomano era in completo disfacimento, l’Impero Persiano (oggi chiamato Iran) aveva perso da secoli ogni prestigio ed era sotto il protettorato di Russia e Gran Bretagna. La presenza Britannica si allargò quindi non solo in India (e Pakistan), ma ormai a diverse province perse dall’Impero Ottomano, quali Iraq, Kuwait, Oman, Palestina, Qatar, ed Egitto soprattutto dopo la fine della prima guerra mondiale. L’attività coloniale francese in Nord Africa non fu da meno, presente in Marocco, Algeria, e Tunisia. Senza citare la breve parentesi italiana e quindi britannica in Tripolitania. Aggiungiamo a tutto questo l’inizio del progetto Stato di Israele quando la Palestina era ancora sotto controllo britannico e diventa abbastanza evidente quanto fosse artificiosamente divisa e sfruttata la gente delle terre da dove oggi pullulano questi fanatismi. Unica azione contro tendenza in rifermento al dominio e all’influenza occidentale sulla regione mediorientale, fu la conquista da parte di Ibn Sa‛ud nel 1932 di quella che oggi è l’Arabia Saudita. Ibn Sa‛ud riuscì nel giro di 30 anni a unire un vastissimo territorio sotto il suo dominio. Per spiegarci, attorno agli anni ‘20 la Gran Bretagna si trovava a contrattare con Ibn Sa‛ud i confini di quello che diventerà poi l’Iraq.
A quell’epoca a nessuno sarebbe venuto in mente di pensare che tale divisione di terre fosse legata a una particolare religione, si trattava di puro e semplice imperialismo, ovvero colonizzazione di nuove terre per sfruttarne le risorse. Possiamo immaginare la gioia degli inglesi nello scoprire che nelle loro colonie e zone di influenza medio-orientali vi fosse il petrolio. In Persia il petrolio venne scoperto nel 1908 da parte di quella che oggi è la British Petroleum (BP), in Iraq nel 1925 da parte della Turkish Petroleum Company (TPC) controllata da Germania, Gran Bretagna e Turchia, e in Arabia Saudita nel 1938 da parte statunitense. Le cose dal punto di vista degli interessi economici non si potevano fare più interessanti. Eccezion fatta per l’Arabia Saudita, che avendo una dinastia forte e radici religiose (wahhabita) rigorose non ebbe grandi problemi a mantenere il controllo sulle sue tribù e quindi sui suoi giacimenti, per l’Iraq, l’Iran, e l’Egitto l’influenza (o sfruttamento) europea era ancora pesante. Tutti e tre questi paesi, per non menzionare la Siria, la Libia, e l’Algeria, hanno pensato a un certo punto d’iniziare a utilizzare le proprie risorse “in proprio”.
Nel 1928 viene fondata l’organizzazione dei Fratelli Musulmani in Egitto che ben presto divenne reazionaria fino a quando il regime di re Faruk nel 1949 assassinò il suo fondatore al-Banna. Sayyid Qutb, anch’egli egiziano, dopo l’assassinio di al-Banna, prendendo spunto dagli insegnamenti di Mawdudi, fondatore in Pakistan della Jamaat-e-Islami, scrisse dei testi basilari per i movimenti fondamentalisti a seguire, in quanto criticava i governi islamici filo-occidentali. Tra tutti in testa si possono immaginare l’Iran e l’Iraq dell’epoca. Altro elemento importante è il putsch di Nasser nel 1952, appoggiato inizialmente per il suo nazionalismo dalla Fratellanza Mussulmana, per poi rivolgervisi contro pochi anni dopo. A questo fa seguito la Guerra dei Sei Giorni del 1967, di espansione di Israele, che dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale, si mise chiaramente in testa di fondare una nazione israeliana ai danni di Egitto, Siria e Giordania. Lo smacco fu così grave da indurre Nasser alle dimissioni. La migrazione di massa di palestinesi e l’occupazione israeliana dei territori in Libano catalizzò la nascita della resistenza fondamentalista islamica degli Hezbollah (anni ‘80), che faceva uso di attacchi suicidi e atti di guerriglia.   
Il regime al contempo repressivo e filo-occidentale dello Scià di Persia venne destituito nel  1979 con la rivoluzione dell’Ayatollah Khomeini. Questo fu un momento molto importante perché Khomeini parlò di movimento pan-islamico, quindi giustificava la cacciata degli occidentali dal punto di vista religioso, mentre questo implicava in pratica prendere il controllo delle risorse nazionali. Questo modello verrà seguito in futuro da altri movimenti fondamentalisti tra i quali oggi lo Stato Islamico d’Iraq e Siria (ISIS).
Tornando alla prima metà del secolo scorso, gli interessi britannici nelle risorse petrolifere in Iraq furono preservati, con il solito governo fantoccio, fino all’inasprirsi delle condizioni causate dalla Seconda Guerra Mondiale, precipitando in un colpo di stato nel 1958. L’Iraq uscì man mano dalla sfera di influenza britannico-statunitense propendendo negli anni ‘70 più per quella sovietica. Intanto, negli anni settanta, l’Arabia Saudita ebbe una prova concreta del suo peso geopolitico con la crisi del 1973, accrescendo l’influenza dell’islam wahhabita sul mondo mussulmano. Negli anni settanta quindi i tre stati più grandi del Medio Oriente, Iran, Iraq e Arabia Saudita, avevano già mostrato all’Occidente di voler far valere la propria voce quando si parlava del loro petrolio.
E quindi, la Guerra degli 8 anni (1980-88) tra Iraq e Iran fu una guerra per il petrolio e per uno sbocco importante sul Golfo Persico. L’Iraq di Saddam venne appoggiato dagli Stati Uniti così come dall’Arabia Saudita, contro i persiani. Poco importa se Khomeini inneggiava al movimento pan-islamico. La dinastia saudita non considerava e considera i persiani come arabi e sicuramente non come wahabiti. La guerra non la vinse nessuno e vi furono centinaia di migliaia di morti, pochi dei quali petrolieri possiamo dire con certezza. Le cose però si misero male per Saddam quando ebbe la felice idea di rifarsi dei costi di guerra occupando il Kuwait. Le ragioni di questa invasione furono le stesse di prima: petrolio e uno sbocco importante sul Golfo Persico. A differenza che con l’Iran, dove a causa di Khomeini, gli interessi statunitensi erano compromessi, per il Kuwait gli Stati Uniti e alleati organizzarono la Guerra del Golfo (1991), alla quale fece seguito l’invasione anglo-statunitense del 2003. Quest’ultima giustificata dal fatto che il gruppo fondamentalista islamico Al-Qaeda aveva attaccato gli Stati Uniti con sanguinosi ed eclatanti attentati su suolo statunitense. Al-Qaeda era attiva già dalla guerra di liberazione dell’Afghanistan dai sovietici, con appoggio statunitense negli anni ‘80. Questo gruppo si era differenziato per l’uso degli attacchi terroristici di massa. A questi attacchi seguì l’invasione degli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq. Anche se per fare i pignoli Saddam e Al-Qaeda c’entravano davvero poco tra loro.     
L’eliminazione del regime di Saddam, che è ovviamente giustificabile dal punto di vista dei diritti umani e della morale borghese, ha però avuto l’effetto collaterale di lasciare un vuoto di potere in Iraq. A questo vuoto si è aggiunta la cosiddetta Primavera Araba che a voler di popolo ha eliminato diversi regimi, paradossalmente stabilizzatori, ovvero quello di Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia, quello di Hosni Mubarak in Egitto e quello di Muhammar Gheddafi in Libia. Questo ha determinato altrettanti vuoti di potere che i pan-islamici non si vogliono far scappare. In Siria le cose non sono andate così linearmente e la Primavera Siriana per eliminare il tiranno di turno Bashar al-Assad, si è trasformata in una feroce guerra civile. Ovviamente i fondamentalisti pan-islamici di tutto questo traballamento ai vertici hanno approfittato. Non è un caso che l’ISIS sia costituito da ufficiali e mercenari che servivano i regimi dei tiranni di Iraq, Tunisia, e Libia, ora destituiti.  
Paradossalmente le grandi potenze, ovvero Iran, Arabia Saudita e simili, Stati Uniti e alleati, e Israele hanno tutti interessi economici e quindi politici sugli esiti della lotta al potere che sta avvenendo in Siria e Iraq. L’Iran promotrice del pan-islamismo vede in un effettivo califfato islamico un vicino scomodo, molto meglio avere un Iraq fiacco. L’Arabia Saudita ha foraggiato l’ISIS perché potrebbe essere un vicino scomodo per Iran e Israele, a patto che non si allarghi troppo, s’intende. Infatti ora che gli attacchi estremisti diventano un problema di politica interna non ci pensa due volte a giustiziare i terroristi. A Israele, che è alla costante ricerca di terra per poter consolidare lo Stato, il caos creato dall’ISIS potrebbe giocare a favore a patto che le mire espansionistiche del califfato si limitino all’Iraq e alla Siria. Per Israele in fondo fondamentalisti palestinesi, libanesi o dell’ISIS son nemici a cui sanno rispondere a tono quando necessario. Per gli Stati Uniti, primo produttore di greggio al mondo, e per i suoi alleati, l’ISIS è un effetto collaterale dell’invasione dell’Iraq che sta diventando alquanto spiacevole, se si considerano gli investimenti nel ricreare un governo fantoccio in Iraq e gli attacchi imprevedibili di cellule impazzite nel vivo dell’Occidente.     
E quindi lo Stato Islamico altro non è che una creatura del capitalismo petrolifero. È un’espressione del potere che, come ogni fascismo o mafia che si rispetti, deve incutere timore e controllare i mezzi di produzione. La matrice culturale fa parte del gioco; così come i fascisti, i nazisti, gli stalinisti avevano bisogno della loro ideologia e della propaganda per radicalizzare i propri seguaci, anche questo cosiddetto Stato Islamico ha bisogno della sua dottrina del terrore. Ma sempre di soldi si tratta!
E allora, grave sarebbe l’errore dei lavoratori nel farsi confondere dal senso di urgenza completamente comprensibile quando la propria incolumità potrebbe essere in pericolo, e cadere nella xenofobia, nel nazionalismo. Noi lavoratori oggi più che mai dobbiamo cercare l’unità internazionale.
Per chi legge l’inglese due link di approfondimento su cosa sia lo “Stato Islamico” e il mondo islamico:
Fonte:
“Fondamentalismo islamico” di Luca Ozzano

domenica 7 febbraio 2016

La trasformazione dei valori nei prezzi in Marx e il problema delle crisi


Henryk Grossmann

La trasformazione dei valori nei prezzi in Marx e
il problema delle crisi
 

da Zeitschrift für Sozialforschung, 1 (1/2), 1932, pagg. 55-84.
Ringraziamenti a Rick Kuhn.
Transcrizione e versione html di Einde O’Callaghan per Marxists’ Internet Archive.



I. La realtà concreta come oggetto e obiettivo della conoscenza marxiana


Lo scopo di tutta la scienza sta nell’esplorazione e nella comprensione della totalità dei fenomeni concretamente dati, del loro collegamento e delle loro variazioni. La difficoltà di questo compito è sita nel fatto che i fenomeni non coincidono immediatamente con l'essenza delle cose. La ricerca dell’essenza costituisce quindi il prerequisito per la conoscenza del mondo fenomenico. Ma se Marx vuole conoscere, in opposizione all’economia volgare, “la natura nascosta” e “l’interdipendenza” della realtà economica (Marx, Il Capitale, III 2, pag. 352 [1]), questo non significa che i fenomeni concreti non gli interessino. Al contrario! Alla coscienza sono dati immediatamente solo i fenomeni, con il risultato (già pienamente metodologico) che si può giungere al loro “nocciolo” essenziale nascosto solo mediante un’analisi di tali fenomeni (cfr. Marx, Il Capitale, III 1, pagg. 17-22).

Ma i fenomeni concreti non sono importanti per Marx solo perché rappresentano il punto di partenza e il mezzo per la comprensione del “movimento reale”, ma anche perché questi stessi sono ciò che Marx in definitiva conoscerà e comprenderà nel loro contesto. Dunque egli non vuole in nessun modo, escludendo i fenomeni, limitarsi alla sola ricerca dell'essenza. Piuttosto, l’essenza conosciuta ha la funzione di renderci capaci di capire i fenomeni concreti. Quindi Marx si sforza proprio di trovare la “legge dei fenomeni” che domini “la legge dei loro cambiamenti” (Postfazione alla 2a edizione de “Il Capitale”). 

Incomprensibili e a prima vista assurdi sono, per Marx, solo i fenomeni per se stessi, sconnessi dalla “essenza nascosta” delle cose. Ma sarebbe un errore madornale della scienza economica se a questo punto la questione (cadendo nello sbaglio opposto a quello dell’economia volgare) restasse ferma all’analisi dell’“essenza nascosta” appena scoperta, senza trovare una via di ritorno ai fenomeni concreti, di cui comunque si discute la spiegazione, ossia senza ricostruire le molte mediazioni tra l’essenza e la forma fenomenica! Perciò anche Marx vede in questo cammino dall’astratto al concreto “il metodo scientifico ovviamente corretto”. Qui “le regole astratte conducono alla riproduzione del concreto secondo il modo di procedere del pensare” perché “il metodo di risalire dall’astratto al concreto è, solo lui, il modo del pensare per appropriarsi del concreto, per riprodurlo come un concreto dello spirito” (Introduzione alla Critica dell’Economia Politica, pag. XXXVI).

Marx fornisce qui un esempio pratico: non è sufficiente dire che nella produzione industriale il valore viene creato secondo la legge generale per cui “i valori delle merci sono determinati dal lavoro in esse contenuto”, poiché i processi empirici nella sfera della circolazione (p. e. l’influenza praticamente verificabile del capitale commerciale sui prezzi delle merci) mostrano “fenomeni che, senza un’analisi completa dei nessi intermedi, sembrano semplicemente presupporre una determinazione arbitraria dei prezzi”, cosicché nasce l’idea che “sia il processo di circolazione in quanto tale a determinare i prezzi delle merci, indipendentemente (entro certi limiti) dal processo produttivo”, ovvero dalle ore di lavoro necessarie alla produzione. Così provare il carattere illusorio di questa idea e stabilire la “connessione profonda” tra il fenomeno e “l’azione reale”, cosa “molto intricata e lavoro alquanto minuzioso”, “è un’opera della scienza che sa ricondurre il movimento visibile, ma solo apparente, al movimento reale interno” (Il Capitale, III 1, pag. 297), “proprio come il moto apparente dei corpi celesti viene ricondotto al loro moto reale ma impercettibile ai sensi” (Il Capitale, I 1, pag. 314).

Dunque “l’opera della scienza” d’importanza critica consiste nell’impegno a cercare “legami intermedi” che ci guidino dall’essenza ai fenomeni concreti, poiché senza questi legami intermedi la teoria, cioè l’ “essenza” delle cose, sarebbe contraria alla realtà concreta. Giustamente Marx ironizzava su quei “teorici” che si perdono in costruzioni irreali. Ma solo “il volgo ha quindi concluso che le verità teoriche sono astrazioni che contraddicono le condizioni reali” (Plusvalore, II 1, pag. 166).

Anche la struttura de “Il Capitale” di Marx, come ho già mostrato [2], corrisponde a questo principio metodologico marxiano e il “metodo delle approssimazioni” lì applicato ha trovato la sua espressione più pregnante nella costruzione degli schemi di riproduzione marxiani. Utilizzando numerose assunzioni semplificanti, viene in primo luogo effettuato il “viaggio” dal concreto all’astratto. Ciò è distinto dal mondo fenomenico, dalle forme parziali concrete, dove il plusvalore entra nella sfera dalla circolazione (utili d’impresa, interessi, profitti commerciali ecc.) e tutta l’analisi dei libri I e III de “Il Capitale” si concentra sul valore e sul plusvalore complessivi, sulla loro creazione e variazione nel corso dei processi di produzione e di accumulazione. Qui “la questione connessa al processo di circolazione” (“Il Capitale”, I 1, pag. 600) viene eliminata. L’oggetto dell’analisi del I e del III libro de “Il Capitale” è esplorare la creazione di plusvalore come essenza generale del processo economico e, successivamente (ciò forma, come ha enfatizzato Marx, precisamente lo scopo e il contenuto del III libro), la connessione interna tra l’essenza scoperta e le sue manifestazioni: stabilire le forme empiricamente date di plusvalore ossia “rintracciare e mostrare le forme concrete che emergono dal processo di movimento del capitale che abbiamo finora considerato nella sua totalità. Nel loro movimento effettivo i capitali si scontrano con tali forme concrete” (“Il Capitale”, III 1, pag. 1).

Qui, nel terzo libro, le assunzioni semplificanti prima effettuate (p. e. la vendita delle merci al loro valore, l’eliminazione della sfera della circolazione e della concorrenza, la trattazione del plusvalore nella sua globalità e l’esclusione delle parti in cui esso si suddivide ecc.) vengono abbandonate e, di conseguenza, in questo secondo livello del metodo approssimato sono gradualmente presi in considerazione i fattori intermedi, precedentemente ignorati, e vengono trattate le forme concrete di profitto nel modo in cui esse si rendono visibili nella realtà empirica. Solo in questo modo si chiude il cerchio dell’analisi di Marx e si verifica che la teoria del valore lavoro non è uno schema irrealistico, ma piuttosto una “legge fenomenica”, ossia forma la base che ci permette di spiegare il mondo reale dei fenomeni. Questa idea è formulata con chiarezza inequivocabile quando Marx dice: “Lo abbiamo dovuto fare nei libri I e II solo con i valori delle merci”…”Ora”, ossia nel libro III, “il prezzo di produzione emerge come una forma di valore modificata” (“Il Capitale”, III 1, pag. 142). E ancora:
“Gli aspetti del capitale, come noi li svolgiamo nel presente (terzo) libro, si avvicinano quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione” (“Il Capitale”, III 1, pagg. 33-34).