Ogni giorno sentiamo di
uomini e donne diseredati che cercano di raggiungere l’Europa su barche di
fortuna puntualmente gestite da trafficanti senza scrupoli. Vi sono flussi,
anche più ingenti, via terra, ma la tragicità del naufragio ha senz’altro una maggiore
presa mediatica. Questi disperati arrivano un po’ da tutte le parti del mondo,
ma la grande maggioranza di loro, ossia quelli che arrivano dall’Africa
Sub-Sahariana, fa ancora una volta più presa sull’opinione pubblica. Scappano
da realtà di disoccupazione, di miseria, di oppressione, talvolta anche da
guerre vere e proprie, ma ovviamente (come ci ricordano sempre i media) tra
loro si possono nascondere anche dei pericolosi jihadisti... E poi
arrivano pure i “balcanici”, che spesso si distinguono nei notiziari per furti
e violenze, i sud-americani che ci hanno portato le loro tremende gang
giovanili. E i cinesi che stanno comprando l’intero paese pezzo a pezzo con
denaro sonante. Insomma ce n’è davvero per tutti.
Sì, siamo vittime di
questi inesorabili flussi migratori, ma al contempo dovremmo notare che nel
2018 ben 5.1 milioni di italiani (l’8% della popolazione!) erano registrati
come residenti all’estero e il tasso di emigrazione di italiani dall’Italia è
attualmente in continua crescita. Ma, per l’amor di Dio, noi siamo “brava
gente”. E mica emigriamo clandestinamente... No, quello non lo facciamo più (ma
talvolta lo facevamo nel XIX secolo per andare a lavorare in Francia e anche
nel XX secolo per portare la famiglia in Svizzera)!
Gente che va e gente che
viene, verrebbe da dire. Però non dopo aver cercato di spiegare il fenomeno,
senza farsi prendere dalla solita isteria mediatica.
Il modo di produzione
capitalista determina l’annientamento di ogni altro tipo di organizzazione
sociale. Vi sono ancora rarissimi esempi di società indipendenti dal
capitalismo, come gli Amish della Pennsylvania, gli Indios dell’Amazzonia e
pochi altri. Ma come indicano studi recenti, anche gli Amish sono vittime degli
effetti perturbanti del capitalismo e la loro esistenza è oggi a rischio. Gli
Indios della foresta amazzonica, isolati da centinaia di chilometri di giungla,
sono inesorabilmente minacciati dalla deforestazione che, guarda caso, è
determinata in primo luogo da evidenti interessi economici capitalisti nel
legname e nelle materie prime del sottosuolo. Il capitalismo è quindi,
inesorabilmente, un sistema di organizzazione della produzione e della
distribuzione al livello globale, che per sua stessa natura, fagocita tutto,
determinando squilibri economici e sociali dei quali le migrazioni sono solo
una delle molte conseguenze (insieme alle crisi economiche, alle guerre, e alle
devastazioni ambientali).
Il capitalismo dunque
s’insinua globalmente, ma in modo diseguale e non omogeneo. Colonizza con la
forza militare o, più spesso, con quella del denaro e depaupera in modo
spregiudicato realtà definite economicamente “sottosviluppate” proprio in
termini capitalistici. In questo modo il capitalismo impoverisce da secoli varie
parti del mondo delle loro risorse materiali e umane per arricchirne altre. Il
grado di sviluppo diseguale della produzione di merci e di servizi all’interno
del sistema capitalista determina in modo conseguente i gradi di occupazione
lavorativa (e i salari reali), similmente diseguali. Sotto il capitalismo però
il lavoro salariato diviene una necessità ineluttabile per il lavoratore e va
cercato a tutti i costi, per motivi di mera sopravvivenza; ma non sempre si
trova. Oppure si trova, ma a condizioni davvero miserrime. Così in molti
fuggono da tali realtà urbane o agricole di squallore e di degrado, quando
possono, verso un’esistenza migliore o, almeno, verso la speranza di trovarla.
A tutto questo vanno aggiunte anche le guerre che spesso hanno motivazioni
economiche, anche se sono frequentemente mascherate, per esempio, da ragioni
politiche, etniche o persino religiose.
Al sistema capitalista
mondiale questi flussi migratori fanno generalmente comodo perché servono ad
abbassare il costo della forza-lavoro. Oggigiorno non parliamo solo di lavori
nei settori a bassa tecnologia (braccianti, inservienti, operai non
specializzati, ecc.), ma anche di impieghi in settori tecnologici. Questo
perché i paesi in via di sviluppo (o già sviluppati ma con economie in grave
crisi) hanno comunque le capacità educative di formare tecnici, quadri e
professionisti specializzati che, o sono pronti a migrare, o possono eseguire
lavori costosi più economicamente nei loro paesi di origine. Ma i cittadini del
paese ricevente di solito percepiscono una minaccia negli immigrati senza
specializzazione, spesso con un basso livello d’istruzione, che possono
accettare lavori per un salario minimo (o addirittura a livelli di vera e
propria “schiavitù salariata”), o che sono facile preda della criminalità
organizzata. Molto meno spesso la minaccia è vista nell’immigrato con una o più
lauree o, addirittura, con dottorato. Insomma, si usano sovente due pesi e due
misure!
Ma tali flussi migratori
sono inesorabili. Non è dunque sensato battersi contro di essi. È però sensato
convincere i lavoratori di tutte le provenienze che la lotta non è tra di loro.
Ma in opposizione a chi li mette l’uno contro l’altro. Ovvero chi possiede i
mezzi di produzione o chi, comunque, fa gli interessi di questi capitalisti.
Quindi i pochi super-ricchi e la classe politica borghese che fa loro da
lacchè.
Ora, alcuni partiti
borghesi “progressisti” sono a favore e agevolano tali flussi migratori e
vogliono passare per autentici filantropi mentre sta loro a cuore solo
l’abbassamento dei costi salariali. Altri includono nel loro programma una vera
e propria “crociata” contro l’immigrazione, soprattutto per ciò che riguarda i
migranti economici, ma, in molti casi, anche i rifugiati e i profughi, tirando
in ballo ovviamente ragioni pratiche, in aggiunta, tuttavia, ad altre
culturali, religiose e di ordine pubblico, rispolverando magari perfino vecchi
slogan razzisti di quasi un secolo fa. Questo tipo di messaggio risuona meglio
tra i lavoratori dei paesi soggetti ad una forte de-industrializzazione dove,
effettivamente, la disoccupazione è molto alta e la manodopera straniera a
bassissimo costo non è certamente la benvenuta. Risuona soprattutto, ma non
solo, tra i lavoratori precari, i disoccupati o i semi-occupati e, in genere,
tra quelli a bassa o bassissima specializzazione. Ma intendiamoci: i partiti
borghesi “progressisti” o xenofobi, in ultima analisi, sono tutti dalla stessa
parte... Ossia la loro!
Come può un partito
davvero socialista, data la sua natura rigorosamente internazionalista, parlare
alla classe lavoratrice minacciata, spesso concretamente, da questi migranti
economici, che poi però fanno anche loro parte della stessa classe? Come può un
tale partito socialista sostenere di essere dalla parte dei lavoratori se poi
non si batte per condizioni di vita migliori per tutti i lavoratori?
Il Partito Socialista
dovrebbe simpatizzare con la lotta in campo sindacale a tutela
delle condizioni lavorative, che miri a rendere impossibile l’assunzione di
lavoratori stranieri a condizioni più svantaggiose di quelle che si
applicherebbero ai lavoratori del luogo. Tenendo sempre ben presente che
questa lotta sindacale è solo un’azione di aggregazione e propaganda politica
con l’unica funzione di unire i lavoratori indipendentemente dalla loro
provenienza, che non ha né l’ambizione né lo scopo di essere la via per il
socialismo, per almeno due motivi. In primo luogo perché una tale lotta è
destinata ad essere soverchiata dalla pressione capitalista che agisce su due
fronti, quello di portare il lavoro all’estero e quello di aumentare il costo
della vita se le rivendicazioni sindacali dovessero andare in porto
estesamente1. In secondo luogo perché il socialismo non può essere raggiunto
riformando il sistema capitalista tramite azioni sindacali che, per loro stessa
natura, guardano solo al brevissimo termine e si fermano lì. Esaurita la sua
funzione aggregante una tale azione deve essere abbandonata per abbracciare la
vera lotta di classe, quella rivoluzionaria. Ciò nonostante, in questo momento
storico, noi singoli lavoratori dobbiamo ricostruire l’unità di classe e
incanalare la spontaneità dei lavoratori in una lotta economica
internazionalista.
Inoltre, è necessario un
ritorno a centri di aggregazione, come furono in passato le “Camere del Lavoro”
e le “Case del Popolo”, dove si possa attuare la solidarietà di classe su basi
puramente volontarie. Il nostro partito ha già una struttura compatibile con
queste iniziative. Ma sarebbe opportuno ampliare tali gruppi e renderli
permanenti. Questi centri, per esempio, dovrebbero effettivamente funzionare
con un chiaro disegno politico di unificazione della classe.
Solo così i socialisti
potrebbero riunificare davvero la classe lavoratrice.
1 Vittoria sindacale in
campo salariale (ovvero o salari invariati per alloctoni e autoctoni o
addirittura più alti) in un sistema nazione, vorrebbe dire abbassamento di
competitività capitalistica che nel lungo/medio termine andrebbe a determinare
l’aumento del costo della vita, così da determinare una riduzione dei salari
reali, ovvero salari aggiustati per il costo della vita. Attenzione però! Non
mi sto rifacendo alla tesi sostenuta da John Weston, dove il capitalista
compensa l’aumento dei salari con prezzi più alti. Tesi giustamente criticata
da Marx in Salario prezzo e profitto. La causa, in un sistema
nazional-protezionista, è la fuga dei capitali nei settori primario e
secondario inducendo un aumento delle importazioni e della disoccupazione, e un
terziario molto costoso da mantenere con necessario aumento tributario quindi
un aumento del costo della vita e di conseguenza un abbassamento del potere
d’acquisto (inflazione).