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mercoledì 29 gennaio 2020

1920 - 2020 L’Occupazione delle Fabbriche e il mito della mancata rivoluzione socialista in Italia

Introduzione

Tra il 25 e il 30 settembre del 1920, esattamente un secolo fa, terminava il cosiddetto movimento di “Occupazione delle Fabbriche”, con gli operai che sgomberavano pacificamente gli stabilimenti riconsegnandoli agli industriali. Quasi contemporaneamente, il 2 ottobre, quando l'occupazione era da poco conclusa, il settimanale socialista torinese L’Ordine Nuovo pubblicava un editoriale [1] in cui, oltre ad ammettere la sconfitta dei lavoratori industriali, si accusavano i dirigenti sindacali e i burocrati di partito di esserne i responsabili. Finiva la cronaca ed iniziava già il mito, quello della mancata rivoluzione socialista in Italia. Una leggenda ancora largamente diffusa nella sinistra “radicale” italiana: dai leninisti agli anarchici, dai trotzkisti [2] ai bordighisti, dagli “operaisti” fino, addirittura, ad alcune frange più intransigenti della socialdemocrazia. Più in generale, tutto il periodo degli anni 1919 e 1920, noto in Italia con il nome pittoresco di “Biennio Rosso”, verrà visto da molti come un susseguirsi di possibili occasioni pre-rivoluzionarie nelle quali i lavoratori, potenzialmente e obiettivamente in grado di conquistare il potere politico ed economico, furono sistematicamente illusi e ingannati dai loro dirigenti partitici e/o sindacali. Traditi dai socialisti del PSI secondo gli anarchici, traditi dalla potente minoranza riformista della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) secondo i socialisti massimalisti, traditi sia, direttamente, dai riformisti sia, indirettamente, dai massimalisti secondo la cosiddetta “frazione astensionista” del PSI, che avrebbe di lì a poco formato il Partito Comunista d’Italia (PCdI) sotto la pressione della potente componente bolscevica russa del Komintern (Internazionale Comunista).    
Personalmente non siamo affatto d’accordo con questo ridicolo scaricabarile. La nostra tesi è radicalmente diversa: nel Biennio Rosso non sarebbe stata possibile alcuna rivoluzione socialista in Italia e nel resto dell’articolo cercheremo di spiegarne chiaramente le ragioni. Tuttavia, prima di cominciare, è necessaria una brevissima ma cruciale precisazione: anche se alcune delle nostre analisi di questo fenomeno storico sembreranno esteriormente simili a quelle apparse in quegli anni sulle colonne della rivista teorica riformista del PSI, la Critica Sociale di Filippo Turati, noi non siamo assolutamente dei riformisti. Anzi, all’opposto, pensiamo che il sistema capitalista non possa esser trasformato gradualmente nel suo successore storico, il Socialismo. In questo senso, pur riconoscendo che su alcuni singoli punti (la critica alla Rivoluzione d’Ottobre, il rifiuto dei moti insurrezionali violenti ecc. [3]) Turati e i suoi compagni interpretarono l’insegnamento di Marx ed Engels meglio dei loro avversari massimalisti e leninisti, non ne possiamo in alcun modo condividere scelta strategica di fondo: faticosi progetti parlamentari di leggi per la riforma sociale, lenta conquista politica dei comuni urbani con la conseguente creazione di cooperative e di aziende municipalizzate ecc., fino all’illusione finale di potersi alleare nel 1924 con la parte più “democratica” della borghesia in vista di un ipotetico fronte antifascista che salvasse il paese dalla dittatura mussoliniana. Come sono lontani i tempi (26 gennaio 1894) in cui Friedrich Engels in persona istruiva [4] il giovane avvocato Turati sui gravissimi rischi di un governo di coalizione tra partiti socialisti e forze politiche borghesi! Ma questa è proprio la parabola storica (1892-1925) del “primo riformismo italiano” che meriterebbe un approfondimento a parte e che esula, ovviamente, dal tema del presente articolo.