Tra
il 25 e il 30 settembre del 1920, esattamente un secolo fa, terminava il
cosiddetto movimento di “Occupazione delle Fabbriche”, con gli
operai che sgomberavano pacificamente gli stabilimenti riconsegnandoli agli
industriali. Quasi contemporaneamente, il 2 ottobre, quando l'occupazione era
da poco conclusa, il settimanale socialista torinese L’Ordine
Nuovo pubblicava un
editoriale [1] in cui, oltre ad ammettere la sconfitta dei lavoratori
industriali, si accusavano i dirigenti sindacali e i burocrati di partito di
esserne i responsabili. Finiva la cronaca ed iniziava già il mito, quello della
mancata
rivoluzione socialista in Italia. Una leggenda ancora largamente diffusa nella
sinistra “radicale” italiana: dai leninisti agli anarchici, dai trotzkisti [2]
ai bordighisti, dagli “operaisti” fino, addirittura, ad alcune frange più intransigenti
della socialdemocrazia. Più in generale, tutto il periodo degli anni 1919 e
1920, noto in Italia con il nome pittoresco di “Biennio Rosso”, verrà visto da
molti come un susseguirsi di possibili occasioni pre-rivoluzionarie nelle quali
i lavoratori, potenzialmente e obiettivamente in grado di conquistare il potere
politico ed economico, furono sistematicamente illusi e ingannati dai loro
dirigenti partitici e/o sindacali. Traditi dai socialisti del PSI secondo gli
anarchici, traditi dalla potente minoranza riformista della Confederazione Generale del Lavoro
(CGdL) secondo i socialisti massimalisti, traditi sia, direttamente, dai riformisti
sia, indirettamente, dai massimalisti secondo la cosiddetta “frazione
astensionista” del PSI, che avrebbe di lì a poco formato il Partito Comunista d’Italia (PCdI) sotto
la pressione della potente componente bolscevica russa del Komintern (Internazionale Comunista).
Personalmente non siamo affatto d’accordo con questo
ridicolo scaricabarile. La nostra tesi è radicalmente diversa: nel Biennio
Rosso non sarebbe stata possibile alcuna rivoluzione socialista in Italia e nel
resto dell’articolo cercheremo di spiegarne chiaramente le ragioni. Tuttavia, prima
di cominciare, è necessaria una brevissima ma cruciale precisazione: anche se
alcune delle nostre analisi di questo fenomeno storico sembreranno
esteriormente simili a quelle apparse in quegli anni sulle colonne della
rivista teorica riformista del PSI, la Critica
Sociale di Filippo Turati, noi non siamo assolutamente dei riformisti.
Anzi, all’opposto, pensiamo che il sistema capitalista non possa esser
trasformato gradualmente nel suo successore storico, il Socialismo. In questo
senso, pur riconoscendo che su alcuni singoli punti (la critica alla Rivoluzione
d’Ottobre, il rifiuto dei moti insurrezionali violenti ecc. [3]) Turati e i
suoi compagni interpretarono l’insegnamento di Marx ed Engels meglio dei loro
avversari massimalisti e leninisti, non ne possiamo in alcun modo condividere
scelta strategica di fondo: faticosi progetti parlamentari di leggi per la
riforma sociale, lenta conquista politica dei comuni urbani con la conseguente
creazione di cooperative e di aziende municipalizzate ecc., fino all’illusione
finale di potersi alleare nel 1924 con la parte più “democratica” della
borghesia in vista di un ipotetico fronte antifascista che salvasse il paese
dalla dittatura mussoliniana. Come sono lontani i tempi (26 gennaio 1894) in
cui Friedrich Engels in persona istruiva [4] il giovane avvocato Turati sui
gravissimi rischi di un governo di coalizione tra partiti socialisti e forze
politiche borghesi! Ma questa è proprio la parabola storica (1892-1925) del “primo
riformismo italiano” che meriterebbe un approfondimento a parte e che esula,
ovviamente, dal tema del presente articolo.