Storia di un’idea
Capitalismo di Stato sovietico?
di W. Jerome e A. Buick
(con postilla di R. Mondolfo)
La
differenza fra il sistema sovietico e il sistema sociale dell’Europa
occidentale e del Nord America sembra così marcata da giustificare una
etichetta distintiva; e l’etichetta che è stata adottata per un sistema di
proprietà statale dei principali mezzi di produzione è «socialismo». L’ampio
accordo, tuttavia, non nasconde divergenze radicali di svariate gradazioni
d’opinioni, che rifiutano di applicare la denominazione «socialismo» al sistema
sovietico. Ma fra gli stessi dissenzienti non c’è accordo riguardo alla
definizione che dovrebbe applicarsi. Il fine di questo saggio è considerare la
storia di quella definizione che descrive l’Unione Sovietica come una società
capitalista di Stato. Questa teoria è stata sostenuta da tre diversi gruppi ben
distinti ideologicamente: 1) i marxisti ortodossi; 2) i «comunisti dei consigli»;
3) i leninisti dissidenti.
I Marxisti ortodossi
Riuscirà
probabilmente una sorpresa per la maggior parte dei lettori apprendere che è la
scuola di lingua inglese del marxismo tradizionale, derivante dalla Federazione
socialdemocratica di Hyndman, e rappresentata dal piccolo Partito Socialista di
Gran Bretagna (SPGB) e dagli ancor minori partiti fratelli dei paesi di lingua
inglese (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda, Stati Uniti) quella che ha,
senza esitazione, affermato che la rivoluzione bolscevica ha portato ad una società
capitalista di Stato. Il SPGB si oppose alla guerra del 1914-18, e perciò approvò
decisamente l’azione anti-imperialista dei bolscevichi russi, pur condannando la
tattica leninista (che riteneva opportunista) sollecitante i lavoratori inglesi
a sostenere il Partito laburista. Il SPGB riteneva che il partito bolscevico
fosse formato da socialisti intenzionati ad introdurre un sistema di proprietà
sociale. Tuttavia il SPGB predisse che questo tentativo sarebbe fallito per la
mancanza di un requisito fondamentale per il socialismo, cioè l’esistenza di
un’industria moderna e di un proletariato con mentalità socialista. Lenin
stesso ammetteva che la proprietà sociale era fuori questione in Russia finché il
capitalismo non avesse portato ad un alto sviluppo della produzione sociale.
Egli si riferiva all’attività del settore nazionalizzato dell’economia (che era
solo un piccolo settore a quel tempo) come ad una forma di capitalismo di Stato.
Il SPGB citò Lenin su questo punto, ma ciò non bastava a definire il sistema sociale
della Russia sovietica come capitalismo di Stato. La maggior parte della società
russa, come Lenin ammetteva, consisteva in un classico sistema di rapporti
capitalistici, ben noto in occidente, che coesisteva con una produzione
contadina semifeudale e perfino con attività prefeudali di pastorizia e caccia.
Poiché il SPGB credeva che lo sviluppo del capitalismo fosse una premessa necessaria
al socialismo, esso non condannò Lenin e i bolscevichi. Tuttavia insistette
nell’affermare che la Unione Sovietica non era una società socialista, e,
inoltre, nel sostenere che il «dominio di una minoranza — sia pure minoranza
marxista — non è socialismo». Fu solo nel periodo 1929-30 che cominciò ad
applicare il termine capitalismo di Stato alla URSS, quando Stalin collettivizzò
l’agricoltura e organizzò una produzione pianificata di merci sotto il
controllo dello Stato. In Germania, diversamente dalla Gran Bretagna, i
socialisti marxisti avevano un largo seguito e favorevoli prospettive per
giungere a posizioni di governo. Dal 1918 il SPD era dunque partito di governo,
e l’atteggiamento del suoi dirigenti di fronte al governo bolscevico era
determinato più da considerazioni politiche immediate che da una analisi teorica.
Perfino Karl Kautsky, la guida ideologica della socialdemocrazia tedesca
(sebbene membro dell’opposizione formata dal Partito Socialista Indipendente
nel 1918), non tentò alcuna particolare analisi economica della società
sovietica. Tuttavia in vari suoi scritti di critica ai bolscevichi si riferì
all’Unione Sovietica come a una società di capitalismo di Stato. In Terrorismo e comunismo egli dice: «il
capitalismo industriale, lungi dall’essere un sistema privato, è diventato ora
un capitalismo di Stato» «Oggi (…) ambedue, stato e burocrazia capitalista,
sono fusi in un unico sistema». Tuttavia questo concetto non venne elaborato più
a lungo; evidentemente Kautsky considerava la Russia matura solo per
l’abolizione dei rapporti feudali della terra, ma non per l’abolizione del
capitalismo. Entrambi, Kautsky ed i bolscevichi, credevano che la proprietà
statale dei mezzi di produzione e un sistema di retribuzione mediante salario
fossero compatibili col socialismo. Essi concordavano altresì nel ritenere che
sebbene una società senza salariati e senza Stato possa essere possibile nel futuro,
gli sforzi immediati dovessero essere diretti a fini meno ambiziosi. Kautsky e
i bolscevichi non erano invece d’accordo sui mezzi adatti ad ottenere questo
obiettivo minore. Molte critiche kautskiane al regime instaurato dai bolscevichi
erano fondate sul fatto che la loro azione repressiva negava la democrazia
politica, e senza democrazia politica la classe lavoratrice non poteva
controllare la macchina economica a cui era soggetta, per cui era lasciata
nella stessa posizione in cui si trovava in qualsiasi paese capitalista. Di
fatto, i lavoratori russi erano in una situazione peggiore di quella del
lavoratori di quei paesi dove prevaleva qualche forma di democrazia politica. Più
tardi Kautsky parlò di Lenin «che usava il potere statale per la creazione del
suo capitalismo di Stato». Egli spiegava che la Russia potrebbe diventare
socialista «solo quando il popolo espropri gli espropriatori». «Un cambiamento nelle
relazioni formali di proprietà non basta per stabilire il socialismo, perché
occorre anche il controllo democratico dello Stato da parte del lavoratori.
Mancando questo, i lavoratori si trovano, rispetto al problema del controllo
del mezzi di produzione, nella stessa situazione che ha di fronte a sé il
lavoratore nei paesi capitalisti». Per Kautsky il controllo democratico del
mezzi di produzione attraverso il potere politico era la differenza essenziale
fra socialismo e capitalismo di Stato. In scritti ulteriori erano usati da lui
altri termini, ma la sua critica rimase sostanzialmente la stessa. Un altro
eminente teorico, l’austriaco Otto Bauer, in linea con la tradizione critica
marxista nei confronti della rivoluzione bolscevica, affermava che la mancanza
di forti e vitali istituzioni democratiche in Russia, così come la sua arretratezza
economica, impedivano il raggiungimento del socialismo. Ma a differenza di
Kautsky, Bauer prevedeva una graduale maturazione e democratizzazione del
regime sovietico. Egli riteneva che il programma di industrializzazione dei
bolscevichi avrebbe condotto a una «razionalizzazione economica». Questa a sua
volta avrebbe portato alla conseguenza che Bauer credeva derivante dallo
sviluppo economico: la democrazia politica. Così egli si aspettava che il
regime sovietico divenisse più democratico: «dal dittatoriale capitalismo di
Stato sorgerà un ordinamento socialista della società». In certo senso il capitalismo
di Stato russo stava costruendo il socialismo. Bauer credeva che la transizione
dal capitalismo di Stato al socialismo non avrebbe richiesto una rivoluzione
politica, e quindi si opponeva al veemente incitamento di Kautsky per una nuova
rivoluzione russa contro i bolscevichi. Al pari di Kautsky, Bauer non usò
sempre gli stessi termini nell’analisi dell’URSS come forma di capitalismo.
Occasionalmente egli usò il termine «socialismo dispotico». I socialdemocratici
tedeschi ed austriaci si opponevano ai bolscevichi a causa delle
caratteristiche dittatoriali del loro potere. Quando definivano il regime sovietico
«quale capitalismo di Stato», era più per motivi politici che economici. A
differenza del SPGB e degli altri partiti socialisti, i socialdemocratici
tedeschi non pensavano che il sistema della retribuzione mediante salario, la
moneta e lo Stato fossero incompatibili col socialismo. Per i socialdemocratici
tedeschi, socialismo significava il controllo democratico delle forze
produttive di una società altamente industrializzata. Inoltre la rivalutazione
del significato del sistema socio-economico sovietico negli anni ‘30 accentuava
la distinzione fra il capitalismo tradizionale e la società sovietica. Nel 1940
l’eminente teorico socialdemocratico Rudolf Hilferding pubblicò una critica
della teoria del capitalismo di Stato dell’URSS, nel periodico di lingua russa
di New York, Socialist Courier.
Hilferding indicava come segno distintivo del capitalismo un’economia di mercato,
nella quale i prezzi sono il risultato di un minimo di concorrenza fra i
diversi proprietari dei mezzi di produzione. Questa concorrenza «in ultima
analisi dà origine alla legge del valore», e determina che cosa e quanto è prodotto.
«Un’economia di Stato, tuttavia, elimina precisamente l’autonomia della legge
economica... Non è più il prezzo, ma una commissione statale pianificatrice che
determina la produzione». Hilferding definiva l’Unione Sovietica come una nuova
organizzazione economica né capitalista, né socialista, come una economia di
Stato totalitario. L’economia nazista tedesca e quella fascista italiana eran
specie meno sviluppate di questo genere.
I
marxisti russi, presenti soprattutto nella frazione menscevica dell’antico
partito socialdemocratico russo, seguivano la tradizionale posizione marxista,
secondo la quale il socialismo poteva succedere allo sviluppo del capitalismo
solo nei paesi che eran passati attraverso la rivoluzione borghese. Ora, dato
che la Russia non aveva sviluppato il capitalismo che in misura insufficiente e
che la rivoluzione borghese era avvenuta solo recentemente, la Russia non era
matura per il socialismo. Nello sviluppo economico, secondo la concezione
marxiana, il capitalismo precede II socialismo: così vi era fra i menscevichi
una tendenza a definire la società sovietica come capitalismo incipiente.
Nel
1919 uno dei capi menscevichi, Giulio Martov, scrisse Lo stato e la rivoluzione socialista in risposta a Stato e rivoluzione di Lenin. Nel
condannare la dittatura di una minoranza, Martov affermava che «la classe
proletaria considerata come un tutto (…) è la sola possibile costruttrice della
nuova società, e deve essere quindi il solo successore della classe che era
prima alla direzione dello Stato». Ciò esigeva piena democrazia ed una
situazione incompatibile con una dittatura di minoranza. Ne conseguiva che la Società
sovietica non era socialista; ma poteva essere definita come Capitalista?
Questo problema non aveva una chiara risposta neppure da parte di Martov.
Poiché i bolscevichi di questo periodo parlavano essi stessi di un capitalismo
di Stato russo, era naturale che numerosi menscevichi accogliessero questa
definizione.
Martov
morì nel 1922, e il suo compagno di partito Abramovich condivise la posizione
di Kautsky, cioè che quella russa era una nuova società di classe, basata sulla
dittatura terroristica. Teodoro Dan sviluppò una posizione alquanto simile a
quella trotskista, cioè che l’URSS era un tipo di stato operaio. Questa teoria
era combattuta da altri menscevichi, come Solomon Schwarz e Aron Yugow, che
adottarono una teoria secondo la quale la Russia sovietica era uno stato
diretto da «managers». Finalmente i menscevichi giunsero ad adottare la tipica
veduta socialdemocratica, che cioè l’URSS fosse un tipo di nuova società «totalitaria».
Tuttavia l’opinione di molti antichi socialdemocratici russi riguardo al regime
sovietico si manifestò con riferimenti occasionali al capitalismo di Stato
russo. Sebbene Yugow alla fine giungesse a ribadire, come altri socialdemocratici,
la sua teoria dell’Unione Sovietica come stato manageriale, per un certo
periodo egli diede della natura della società sovietica una valutazione di
capitalismo di Stato, argomentando che la mancanza di socialismo, che può
svilupparsi solo nei paesi altamente industrializzati, precludeva qualsiasi «salto»
russo dalla condizione precapitalista direttamente al socialismo. «Noi abbiamo
visto che la nazionalizzazione dell’industria in Russia non ha prodotto una
economia socialista, ma solo un capitalismo di Stato burocratico e mal
funzionante». Come Trotsky, Yugow credeva che i burocrati cercassero di
estendere il loro potere sino a giungere ad un ripristino della proprietà
privata dei mezzi di produzione.
II
ramo italiano del marxismo tradizionale, cioè di quei socialisti che accettano
Marx ma respingono Lenin, è del tutto scomparso con l’abbandono de facto dell’adesione al marxismo da
parte dei partiti affiliati alla Seconda Internazionale. I socialdemocratici
italiani, cioè il PSDI, che rappresentano gli eredi della tradizione
socialdemocratica, sostengono che l’URSS è una dittatura totalitaria in una
società capitalista di Stato. In generale il PSDI conserva una opinione simile
a quella del ramo germanico e dei menscevichi russi. Come gli altri
socialdemocratici, il PSDI non s’impegna neppure esso in alcuna profonda
analisi teorica della società sovietica. I socialdemocratici italiani di questa
convinzione, come i loro compagni tedeschi e russi, credono che nazionalizzazione
e pianificazione più democrazia politica sia uguale a socialismo, mentre nazionalizzazione
e pianificazione meno democrazia sia uguale a capitalismo di Stato.
I Comunisti dei consigli
Volgiamoci
ora alla seconda, maggiore categoria di teorici dell’ala sinistra, che
considerano l’economia sovietica come capitalismo di Stato, cioè ai «comunisti
dei Consigli». I comunisti dei consigli non si consideravano seguaci di Lenin, né
erano legati con alcuna fazione del partito bolscevico di Russia. Poiché essi
derivano le loro posizioni da Marx, pur non considerandosi seguaci di alcuni
degli eminenti suoi interpreti, come Kautsky, Lenin, Trotsky, etc., potrebbero
esser considerati marxisti tradizionali. Questo ravvicinamento non sarebbe del
tutto inesatto, tuttavia ci sono parecchie differenze fra i comunisti dei consigli
e gli altri marxisti tradizionali. La prima è il loro antico collegamento col
movimento anarchico e il successivo accordo con gli anarchici su molti punti di
tattica. La seconda sarebbe la loro temporanea adesione alla Terza
Internazionale ed ai partiti comunisti dei rispettivi paesi. Infine il loro
particolare entusiasmo per i Soviet o consigli dei lavoratori, come mezzo per
effettuare la rivoluzione sociale (mezzo preferibile allo stato, alle trade unions e ai partiti politici), li distingue
dai marxisti tradizionali che non condividono tale entusiasmo. L’origine dei
comunisti dei consigli è stata ricondotta al gruppo di Herman Gorter ed Anton Pannekoek
prima del 1914; questi marxisti olandesi erano stati originariamente membri del
partito social democratico del lavoro (SDAP), che aveva antichi legami col
movimento anarchico; infatti il fondatore della socialdemocrazia olandese, Domela
Nieuwenhuis, diventò poi definitivamente anarchico. Quando il SDAP procedette
in direzione riformista, un gruppo di sinistra, compresi Gorter e Pannekoek,
formò un’organizzazione separata, il Partito socialdemocratico, che, quando scoppiò
la guerra, denunciò i socialisti favorevoli alla guerra come traditori dei principii
socialisti. Essi salutarono la rivoluzione bolscevica come un movimento anti-imperialista
della classe lavoratrice e furono attratti verso i Soviet come spontanea
istituzione di lavoratori immune dalla degenerazione dei partiti politici e
delle trade unions. Questi marxisti
olandesi, con gruppi affini tedeschi e inglesi, si raccolsero nel partito
comunista. L’insoddisfazione per la tattica voluta dal Comintern e la
disapprovazione delle misure repressive dei bolscevichi, così come la
soffocazione della rivolta di Kronstadt, li indusse a lasciare il Comintern. In
Germania la maggioranza del Partito comunista concorse a formare il Partito
comunista dei lavoratori (KAPD). Dapprima Lenin tentò di guadagnare questi
dissenzienti alle sue vedute, ma quando questo tentativo fallì, egli pubblicò
il suo saggio «L’estremismo malattia infantile del comunismo» contro di loro. Herman
Gorter rispose con Lettera aperta al compagno
Lenin. Pannekoek poi criticò la filosofia di Lenin nel suo Lenin come filosofo. II movimento
comunista dei Consigli era composto di piccoli gruppi in Germania, Olanda, Gran
Bretagna, Francia, Belgio e Stati Uniti; Karl Korsch, eminente comunista tedesco,
si legò a questo movimento. Esso si opponeva alle Trade Unions come appendice della Stato che spinge i lavoratori
l’uno contro l’altro, condannavano l’attività parlamentare come un’impostura
che incoraggiava le illusioni riformiste, ritenevano che la rivoluzione dovesse
implicare la formazione di consigli di lavoratori che guadagnassero l’appoggio
della classe lavoratrice, ponessero fine alla dominazione capitalista e giungessero
ad amministrare l’industria sotto la guida di un’autorità centrale
pianificatrice. Movendo dall’ammissione di Lenin che si stava sviluppando in
Russia un capitalismo di Stato, i comunisti dei consigli venivano alla conclusione
che il capitalismo di Stato bolscevico era puramente e semplicemente un altro
tipo di capitalismo. Le relazioni del lavoro salariato col capitale rimanevano
le stesse: «il fine leninista, di un capitalismo di Stato sotto il controllo
del lavoratori, ha invece escluso interamente i lavoratori; ciò che è rimasto è
il capitalismo di Stato».
Herman
Gorter vedeva nella presa bolscevica del potere una tentata rivoluzione
socialista, ma fallita a causa della resistenza dei contadini. La necessità di
guadagnare l’appoggio contadino portò i bolscevichi a compromettere la loro
posizione fin dal principio: per esempio, con l’approvare la divisione della
terra in piccoli poderi tenuti dai contadini come proprietà private. Tuttavia
Gorter considerava misure quali la nazionalizzazione dell’industria, la distribuzione
di beni di consumo senza moneta, e la istituzione del consigli di lavoratori
come «proletarie e comuniste»; ma quando il malcontento contadino forzò i
bolscevichi ad abbandonare queste misure ed a introdurre la nuova politica
economica (NEP) «il comunismo svani come un fantasma e il capitalismo
riapparve». Gorter condannava la «dittatura di partito» e il«dispotismo
burocratico» bolscevico, e si riferiva al sistema che si andava sviluppando
come a un «capitalismo di Stato». Egli dissentiva dal consiglio di Lenin di
collaborare con i socialdemocratici in occidente in un fronte unico, tuttavia giustificò
il fallimento dei bolscevichi perché «voi dovevate battere in ritirata posto
che la rivoluzione europea non si è realizzata». La responsabilità reale dei bolscevichi
fu quella di introdurre un programma e una tattica controrivoluzionaria nel
movimento proletario mondiale. Il gruppo di gran lunga più numeroso dei
comunisti dei consigli fu il Partito Comunista dei Lavoratori di Germania. Il loro
Manifesto della Quarta Internazionale Comunista
dichiarava che la rivoluzione russa comprendeva in realtà due rivoluzioni.
Nelle grandi città rappresentava un cambiamento dal capitalismo al socialismo;
nelle campagne rappresentava un cambiamento dal feudalesimo al capitalismo.
Questa contraddizione si era da ultimo risolta in favore del capitalismo. I
bolscevichi erano costretti a riconoscere la proprietà privata, quindi la
tassazione, e infine la produzione capitalistica basata sul profitto. Lo Stato
e la macchina economica erano controllati dalla burocrazia, il cui personale consisteva
di commercianti, di ex ufficiali del vecchio regime, etc., perché costoro
possedevano i necessari requisiti di istruzione e di esperienza amministrativa.
Così cominciava un antagonismo fra il governo sovietico e il proletariato. La
fame e la disperata necessità di merci estere significava che i bolscevichi
dovevano arrivare a molti compromessi col capitalismo internazionale. Essi
erano costretti a compiere una rivoluzione borghese. Il capitalismo crea la
divisione di classi nella società, gli antagonismi di classe e la lotta di
classe fra borghesia e proletariato. «L’introduzione del capitalismo in Russia,
come è ora avviata dal governo sovietico, deve essere accompagnata dalla stessa
divisione di classi, dalla stessa lotta di classe». Anton Pannekoek rilevava
che la nuova classe dominante che sorgeva nell’URSS non era una nuova
borghesia, giacché i suoi membri non possedevano i mezzi di produzione
individualmente come la borghesia, ma collettivamente. Era più esatto definire
la nuova classe dominante una burocrazia, e il sistema «capitalismo di Stato anziché
privato».
Karl
Korsch credeva che il passaggio in tutto il mondo dal capitalismo privato della
concorrenza al capitalismo pianificato monopolistico o statale, fosse
inevitabile e irreversibile. I comunisti dei consigli oggi superstiti argomentano
che la destalinizzazione rappresenta un trasferimento del potere dai burocrati
del partito ai dirigenti del vertice politico, economico e militare.
I leninisti dissidenti
Volgiamoci
ora alla terza maggiore tendenza di coloro che applicano all’URSS la teoria del
capitalismo di Stato, cioè i leninisti dissidenti.
Nel
1918 una frazione che ebbe vita breve, i cui membri i definivano come «comunisti
proletari» e che comprendeva Bukharin, Radek, Ossinsky ed altri, pubblicava un
foglio d’opposizione, Kommunist, in cui dichiarava che la repubblica sovietica
minacciava di evolvere nella direzione del capitalismo di Stato. Questa
posizione provocò una replica decisa da parte di Lenin, il quale rispondeva che
il capitalismo di Stato sarebbe stato comunque un progresso rispetto alle
condizioni preesistenti.
La
frazione presto si sciolse, ma i suoi presagi restarono nella mente di molti
bolscevichi, e quando nel 1921 il partito fu di nuovo forzato dalle circostanze
a battere in ritirata e introdurre la Nuova Politica Economica (NEP), le vedute
della sinistra bolscevica riapparvero. Dei molti e diversi piccoli gruppi di
questo periodo, alcuni ritenevano che la Russia sovietica avesse cominciato a
muoversi nella direzione del capitalismo di Stato. Questi gruppi, uno del quali
era legato con la KAPD, furono soppressi e vari dei loro membri, compreso Anton
Ciliga, furono inviati in Siberia. Altri andarono in esilio. Per vari aspetti
questi bolscevichi di sinistra si avvicinavano agli anarchici e ai sindacalisti.
Boris Souvarine e Victor Serge possono essere considerati di questa tendenza.
Dopo
la morte di Lenin, la lotta per il potere fra i suoi successor implicò una
critica del cammino lungo il quale il partito stava conducendo il paese.
Zinoviev portò nella controversia il concetto di capitalismo di Stato. Egli
distingueva il «capitalismo di Stato in uno Stato proletario» dal capitalismo
di Stato in un paese borghese, dove il controllo statale resta nelle mani della
borghesia. Questa distinzione era stata adottata anche da Lenin.
Zinoviev
sosteneva che, in mancanza di un’espansione della rivoluzione mondiale, la
Russia si sarebbe spinta sempre più a svilupparsi in una direzione capitalista.
Il suo argomentare si imperniava sulle relazioni fra operai e direzione. L’industria
statale nell’Unione Sovietica non era socialista, ma capitalista di Stato. Il
socialismo significa, più che la nazionalizzazione dell’industria, un
cambiamento fondamentale nelle relazioni fra uomo ed uomo. L’industria di Stato
e sfruttatrice come l’industria privata. II socialismo implica un cambiamento
nelle relazioni fra lavoratori e direzione industriale; i lavoratori devono
avere il controllo della direzione. Nuove vie, diceva Zinoviev, devono trovarsi
per difendere i lavoratori russi contro lo sfruttamento dello Stato russo. Anche
Kamenev, si riferiva al capitalismo di Stato in Russia. Al quattordicesimo
Congresso del Partito la questione della definizione leninista del capitalismo
di Stato venne alla ribalta. La maggioranza accolse l’interpretazione che Lenin
pensasse che l’industria nazionalizzata dell’URSS fosse già di tipo socialista,
ma che, in quanto lo Stato incoraggiava l’esistenza di milioni di contadini
interessati alla produzione per il mercato, e in quanto lo Stato offriva concessioni
a capitalisti stranieri e locali, stava incoraggiando con ciò il capitalismo e quindi
poteva chiamarsi «capitalismo di Stato».
Ciò
era naturalmente in contrasto diretto con l’opinione di Zinoviev, che la stessa
industria nazionalizzata era un capitalismo di Stato, dato che i lavoratori non
potevano scegliere i dirigenti. Altro argomento riguardo al carattere di
capitalismo di Stato dell’Unione Sovietica era usato dai seguaci del comunista
italiano Amadeo Bordiga. Costoro negavano che, in una fase data dello sviluppo
economico, il socialismo potesse essere stabilito attraverso il progresso del
capitalismo di Stato. Il partito bolscevico conquistò il potere in una
rivoluzione proletaria, ma Lenin riconobbe che fino a quando la rivoluzione non
si fosse prodotta anche altrove, egli non aveva altra scelta che contare sul
capitalismo privato e il capitalismo di Stato per sviluppare la società russa.
Lo sviluppo capitalista portava al vertice una nuova classe di capitalisti che
erano in grado di liquidare lo Stato operaio stabilito da Lenin. I salari degli
amministratori implicavano una forma velata di plusvalore; un’altra forma era l’interesse
sulle obbligazioni di Stato. L’economia dello Stato russo era soggetta alle
stesse leggi di sviluppo di ogni altra società capitalistica. A differenza dai bolscevichi
di sinistra e dai trotskysti, i bordighiani rifiutavano di sostenere che lo «stato
operaio» stabilito da Lenin fosse una forma economica degenerata a causa
dell’avvento del capitalismo di Stato. Lo «Stato operaio» era per essi un
esperimento politico tendente a realizzare il socialismo in un paese arretrato,
nella speranza che i paesi avanzati volessero compiere una rivoluzione che
rendesse possibile quel tentativo. La Russia era passata da un capitalismo
semifeudale a un capitalismo di Stato, mentre la struttura politica rimaneva
nelle mani di un partito originariamente legato al socialismo, ma costretto
dalle circostanze a sostituire questo legame con un compromesso col capitalismo
di Stato.
Altro
comunista dissidente che sosteneva vedute analoghe era lo iugoslavo Anton
Ciliga. Egli scorgeva tre sistemi sociali in conflitto: capitalismo di Stato,
capitalismo privato e socialismo. Questi tre sistemi rappresentavano tre
classi: la burocrazia, la borghesia (comprendente i contadini agiati) e il proletariato.
Tanto Stalin quanto Trotsky «avevano bisogno di spacciare lo Stato come se
fosse uno Stato “operaio”, la dittatura burocratica sul proletariato come
dittatura proletaria, la vittoria del capitalismo di Stato tanto sul
capitalismo privato che sul socialismo come vittoria di quest’ultimo... Abbiamo
mostrato con abbondanti particolari che il sistema presente in Russia ha
conservato tutte le caratteristi che essenziali del capitalismo: produzione di
merci, salari, mercato di scambio, moneta, profitto e perfino ripartizione del profitti
fra i burocrati nella forma di alti stipendi, privilegi, e così via». Anche la
Lega comunista iugoslava applicò talvolta l’etichetta di «capitalismo di Stato»
all’URSS durante le sue dispute con Mosca. Tuttavia, dato che le analisi
titoiste della struttura sociale sovietica oscillarono grandemente a seconda
delle esigenze della politica estera di Belgrado, è impossibile considerare questa
definizione intellettualmente seria. È interessante notare che, nella presente
disputa cino-sovietica, la stessa Jugoslavia è stata denominata un capitalismo
di Stato, e che a volte i cinesi sembrano riferirsi anche all’URSS in questo
stesso modo. I seguaci di Leone Trotsky hanno dato luogo ad un gran numero di
gruppi distinti, molti dei quali adottarono la tesi del capitalismo di Stato
per quanto concerne la natura sociale dell’URSS. Benché Trotsky considerasse il
capitalismo di Stato (cioè la completa proprietà statale dei mezzi di
produzione nell’interesse del capitale) possibile teoricamente, egli rifiutava
di applicare questa formula all’Unione Sovietica. Egli credeva che la proprietà
nazionalizzata, conservata nella Russia di Stalin, rappresentasse un progresso
sopra la proprietà individuale e delle grandi imprese di altri paesi. L’URSS
era uno stato operaio degenerato, ma che doveva essere «difeso» contro aggressioni
esterne. Tuttavia le difficoltà di applicare queste vedute conducevano a una
riconsiderazione della «questione russa» ed alla graduale separazione di
diversi gruppi dai trotskisti ortodossi. Nel 1939 una frazione
dell’organizzazione trotskista, il Partito socialista dei lavoratori dell’USA,
guidata da Max Schachtman, formò il Partito dei lavoratori. La maggioranza di
questo partito sosteneva che l’URSS era una società collettivista burocratica,
mentre una frazione minoritaria, guidata da F. Forest (nome letterario di Raya Dunayevskaya
a da J. Johnson (nome letterario di C.L.R. James), la riteneva una società
capitalista di Stato. Nel 1947 questo gruppo si unì al SWP, ma lo lasciò di
nuovo nel 1951. Essi ora diffondono un periodico chiamato News and Letters (Notizie e lettere) edito da Raya Dunayevskaya,
che fu la prima a condurre un’analisi particolareggiata di una certa ampiezza
sul significato e la funzione del capitalismo di Stato nell’URSS.
In
Gran Bretagna si produsse uno sviluppo simile. Un trotskista inglese di nome
Worral espose una analisi della economia capitalista di Stato sovietica in Left nel 1939, ed un altro trotskista
inglese, Tony Cliff, pubblicò nel 1955 Stalinist
Russia (ripubblicato nel 1964 come: Russia:
a Marxist Analysis) in cui si faceva un’analisi particolareggiata dell’URSS
come capitalismo di Stato. Entrambi, Cliff e la Dunayevskaya, vedono l’URSS sottoposta
alle stesse leggi di sviluppo delle società occidentali. In questo sviluppo la
legge del valore, l’accumulazione del capitale, la mancanza di correlazione fra
produzione di beni strumentali e produzione di beni di consumo, la caduta del
saggio del profitto, la disoccupazione e tutte le altre contraddizioni del
capitalismo sono inesorabilmente collegati fra loro. Come la maggioranza dei
marxisti ortodossi, essi vedono l’assenza di democrazia politica come una differenza
essenziale fra socialismo e sistema sovietico. Tuttavia, a differenza dei
comunisti e dei bordighiani, i trotskisti sostengono che Lenin stabilì un
sistema distinto tanto dal capitalismo quanto dal socialismo, cioè uno Stato
operaio, che essi ritengono una forma di transizione sul cammino del socialismo,
ma che, disgraziatamente, non raggiunse mai la sua meta. Questa posizione causò
dissensi nelle file europee dei leninisti dissidenti. Il giornale Socialisme ou Barbarie insorse contro
l’idea che la Unione Sovietica sia uno Stato operaio. I redattori di Socialisme on Barbarie pur considerando
la rivoluzione bolscevica come una rivoluzione proletaria, attribuiscono a
Lenin ed alla introduzione di una direzione personale unica la responsabilità
di aver sparso il seme della degenerazione. È il potere dei lavoratori comuni
di scegliere i loro dirigenti, quello che è considerato specialmente significativo.
Senza questo potere, i lavoratori cadono sotto il dominio della classe dirigente.
All’infuori
dei tre principali punti d’arrivo della teoria del capitalismo di Stato
nell’Unione Sovietica, indicati più sopra, c’è tutto un vasto assortimento di
adesioni individuali a questo concetto da parte di commentatori che si
estendono largamente su tutto l’arco politico. Solo uno di essi, Henry Pachter,
ha recato un contributo originale alla teoria. Per lui la differenza fra una
economia socialista e qualsiasi altra è «il divorzio della produzione dalla classe
capitalistica o proprietaria». In una economia socialista i beni entrano nei
fondi di consumo della società e sono distribuiti ed usati a seconda dei
bisogni, senza altro fine, quale la massimizzazione del profitto, mentre sotto
un sistema di capitalismo di stato, quale si è imposto in URSS, le relazioni di
proprietà governano ancora i calcoli economici. Il sistema di equazioni
rappresentante i rapporti fra compratori e venditori deve essere ancora
bilanciato. Come afferma Pachter: «in un regime di scarsità, beni e servizi
hanno prezzi che sono determinati dai costi di produzione (...) quale che sia il
loro sistema di equazioni, esso deve comportare una soluzione simultanea, il
servizio dev’essere pagato; il capitale dev’essere ammortizzato e deve produrre
interesse; anche se la produzione può essere nazionalizzata, i rapporti di
proprietà governano ancora tutti i calcoli economici».
Conclusione
Nella
serie di interpretazioni del capitalismo di Stato nell’Unione Sovietica, vi
sono due punti d’arrivo fondamentali. Uno ritiene che esiste capitalismo dove i
lavoratori non possono controllare il meccanismo economico che governa le loro
vite. Quindi un sistema di proprietà statale senza democrazia pratica significa
capitalismo di Stato. L’altro punto d’arrivo ritiene che il capitalismo, cioè il
sistema sociale fondato sul capitale, significa società basata sul salario, sulla
moneta, sui prezzi e sulla proprietà privata sostenuta dal potere statale. La
differenza fra le due maniere di trattare la questione si riferisce al significato
fondamentale di capitalismo e socialismo nell’età moderna. Poiché la nostra
presentazione vuol essere principalmente una storia della teoria del
capitalismo di Stato sovietico, non abbiamo discusso il merito di questa teoria
nelle sue varie versioni. A questo punto è opportuno considerare il punto di vista
di Milovan Gilas. Dapprima egli accetta la teoria, ma poi avvertì che questa
definizione era causa di confusione, perché la nuova classe dirigente occupava
una posizione differente dall’antica.
Egli
ammette che sotto il regime sovietico «le relazioni sociali somigliano al
capitalismo di Stato» e che i governanti si comportano come se stessero
attuando un sistema di capitalismo di Stato; ma sottolinea che la classe
dominante nel regime sovietico è una nuova classe, «prima sconosciuta alla
storia». Nonostante la sua osservazione che la proprietà è nient’altro che il diritto
al profitto e al controllo, egli conclude: «se si definiscono i benefici di
classe con questo diritto, gli Stati comunisti hanno visto, in ultima analisi,
la nascita di una nuova forma di proprietà o di una nuova classe dominante e
sfruttatrice».
La sua conclusione non ha bisogno di
esplicitazione. Se proprietà è uguale a controllo, a se i burocrati controllano
la proprietà di stato, allora essi sono de
facto proprietari. Forse per «profitto» Gilas pensa ai «dividendi», nel
senso di una ripartizione formale del profitto. Tuttavia se il profitto è
considerato nel senso marxistico di plusvalore, e se i burocrati estraggono o
consumano il plusvalore attraverso il sistema di mercato, allora essi sono
capitalisti nel senso marxista tradizionale.
L’esitazione
di Gilas fa risaltare una difficoltà concernente le teorie del capitalismo di
Stato. Se le relazioni nell’Unione Sovietica sono le stesse di quelle delle
classiche società capitalistiche (lavoro salariato di fronte a capitale), in
cui i lavoratori sono costretti dalla necessità economica a vendere ai
proprietari dei mezzi di produzione la loro forza-lavoro in cambio di salario,
tuttavia la classe dominante sovietica ha una posizione legale differente da
quella dei capitalisti. Nei paesi comunisti tutti i burocrati hanno un reddito
costituito da retribuzione. Per acquistare questo reddito essi, come qualsiasi
lavoratore, vendono la loro forza lavoro. Quindi, a prima vista, i burocrati
sembrano essere soltanto lavoratori, non differenti sotto questo rispetto
fondamentale, dagli altri salariati. Dunque? Abbiamo forse un sistema
capitalista e relazioni sociali capitalistiche, ma non una classe capitalistica
legalmente distinta dalle altre classi?
I
sostenitori della teoria del capitalismo di Stato potrebbero dire che è vero
che, legalmente, i burocrati non posseggono individualmente tale posizione.
Tuttavia è la sostanza, non la forma, che è decisiva, e le forme legali non
sempre riflettono la sostanza. Nel medioevo la nobiltà non era proprietaria dei
mezzi di produzione (terra). Essa non aveva un titolo di proprietà basato sul
feudo, ma un usufrutto; cioè non poteva alienare la terra (mediante lascito,
vendita, etc.) ma solo usarla. Il diritto dei nobili a controllare la terra era
subordinato all’adempimento dei loro doveri verso i loro superiori feudali. Il clero
superiore era parte della classe dominante, e molti membri del clero avevano più
ricchezza e potenza che il nobile laico. Tuttavia papi, vescovi, abati, etc. non
erano proprietari secondo un loro diritto proprio. Piuttosto essi controllavano
le organizzazioni corporative — diocesi, abbazie, etc. — che disponevano del
titolo di proprietà. In maniera simile, si argomenta, i burocrati dell’URSS
formano una classe dominante. Col controllare il potere politico che possiede la
proprietà, essi, in effetti, controllano la proprietà: la burocrazia di Stato
possiede lo Stato come proprietà privata. Il concetto di una classe dominante che
non possiede titolo legale alla proprietà che controlla non è così
inconcepibile come può apparire a prima vista.
W. Jerome e A. Buick
Postilla
di Rodolfo Mondolfo
Gli
autori di questa rassegna storica delle vane correnti socialiste, che han
considerato il regime sorto dalla rivoluzione russa come un capitalismo di
Stato (ben diverso dalla vantata realizzazione del socialismo e delle sue
esigenze caratteristiche) han ricordato, fra gli altri, anche il ramo italiano
del marxismo tradizionale, rappresentato dalla Critica Sociale, affermante che la nazionalizzazione e pianificazione,
solo se associate alla democrazia politica, possono costituire il socialismo,
ma dissociate da essa costituiscono un capitalismo di Stato. Chiamati così in
causa personalmente da questo breve accenno alle discussioni critiche svolte in
questa rivista sul disputato argomento, sentiamo la necessità di un breve
commento all’interessante rassegna compiuta da Jerome e Buick, al fine di
mettere in maggior luce il punto che a noi pare essenziale a questo proposito.
Rileviamo
anzitutto che, pur nella diversità di orientamenti fra le tre correnti (dei
marxisti ortodossi, dei comunisti dei consigli e dei leninisti dissidenti), che
gli autori dello studio distinguono, l’interpretazione del regime sovietico
quale capitalismo di Stato è comunemente accolta — benché con motivazioni in
parte differenti, che tuttavia discendono essenzialmente da un riconoscimento
dello stesso Lenin, che gli autori giustamente segnalano. E non si tratta (come
pure taluno dei critici qui citati par credere) di una conseguenza dedotta
dalle concessioni che Lenin faceva al capitalismo privato con la NEP e con le
offerte al capitalismo straniero, ma della stessa funzione assunta dallo Stato
bolscevico, di compier esso quella accumulazione del capitale e quello sviluppo
industriale che in occidente era stato compiuto dalla borghesia, la cui
eliminazione operata dallo Stato sovietico, poneva questo nella necessità di
sostituirsi ad essa.
Ma
questa medesima considerazione portava la maggior parte degli assertori di un
capitalismo di Stato nella Russia sovietica ad una impostazione del problema
che riguardava l’economia in se stessa, nella sua realtà oggettiva per sé stante,
separata dalla considerazione degli uomini come soggetti umani, con i loro
problemi e le loro esigenze di umanità. Forse, fra tutti gli autori passati in
rassegna in questo studio storico di Jerome e Buick, quello che si è avvicinato
a questo aspetto umano del problema è stato il primo dei leninisti dissidenti,
Zinoviev, che dichiarava appunto di allacciarsi alle distinzioni leniniane
delle varie forme di capitalismo di Stato. Cito qui testualmente la sintesi del
pensiero di Zinoviev data dagli autori di questa rassegna storica.
«Il
suo argomentare (essi dicono) s’imperniava sulle relazioni fra operai e
direzione. L’industria di Stato nell’Unione Sovietica non era socialista, ma
capitalista di Stato. Il socialismo significa, più che la nazionalizzazione
dell’industria, un cambiamento fondamentale nelle relazioni fra uomo ed uomo.
L’industria di Stato e sfruttatrice come l’industria privata. Il socialismo
implica un cambiamento nelle relazioni fra lavoratori e direzione industriale;
lavoratori devono avere il controllo della direzione. Nuove vie, diceva Zinoviev,
devono trovarsi per difendere i lavoratori russi contro Io sfruttamento dello
Stato russo».
Dobbiamo
porre nella meritata evidenza lo stretto vincolo che lega questa impostazione
di Zinoviev col problema che gli scritti giovanili di Marx collocavano alle
radici di ogni aspirazione ed esigenza socialista: il problema dell’uomo e del
lavoro alienati, il problema del superamento dell’alienazione. II socialismo si
trova agli antipodi di ogni alienazione dell’uomo e del lavoro; dove esista
simile alienazione si deve parlare di capitalismo che è appunto la negazione
dell’uomo e della sua umanità (Unmenschlichkeit),
che il socialismo vuole superare (aufheben)
nella negazione della negazione.
Ora
da questo punto di vista, specialmente, deve esser guardato il problema della
classificazione dello stato sovietico in Russia e altrove. Non ci si deve porre
dall’angolo visuale dell’organizzazione economica considerata in se stessa e
nella formazione di una nuova classe (la classe dirigente dei burocrati) di cui
si è preoccupato specialmente Milovan Gilas. Impostando in questo senso la
questione, sorge il problema della differenza fra la classe dominante
burocratica nei paesi comunisti e la classe capitalistica in senso proprio. La
nuova classe ha il controllo dei mezzi di produzione nazionalizzati, ma non ne
ha la proprietà (con diritti di eredità, di vendita, etc.) che ne hanno i
capitalisti in regime di capitalismo privato; e per la sua sussistenza e per
tutti i privilegi e lussi di cui può usufruire dipende dal salario che ricevono
le sue prestazioni di opera. Sotto questo aspetto i burocrati sono anch’essi
lavoratori salariati (per quanto privilegiati) anziché capitalisti. Si può dire
bensì, con Gilas, che «la burocrazia di Stato possiede lo stato come proprietà
privata»; ma questo è vero della burocrazia come corpo collettivo, non dei
burocrati individualmente. Altrimenti si avrebbe il capitalismo privato, non il
capitalismo di Stato; il quale ultimo in certo senso potrebbe considerarsi un
capitalismo senza capitalisti.
Ma
se sotto questo aspetto la designazione di capitalismo di Stato può presentare
problemi e difficoltà, ciò dipende dall’aver impostato la questione da un punto
di vista che non è il vero ed essenziale. Non è il problema della classe
dominante, dei burocrati, quello che deve stabilire la differenza ed
opposizione tra socialismo e capitalismo, ma è invece il problema della classe
dominante, del proletariato, del lavoro alienato e dell’umanità allenata,
quello decisivo in proposito. Ora l’alienazione del lavoro e dell’uomo vige in
pieno nella Russia bolscevica dominata da una dittatura onnipotente e
inesorabile, alla cui organizzazione non è aliena neppure l’imposizione del
lavoro forzato, e dove i consigli operai non hanno funzioni di tutela del lavoratori
e di conquista progressiva dei loro diritti, come accade invece nei paesi del
capitalismo privato, ma solo di strumento del dominio dello Stato sui
lavoratori individualmente e collettivamente. Perciò il perdurare
dell’autoestraniazione del lavoratore — più dura anzi e inesorabile che sotto
il capitalismo privato, perché tutta l’organizzazione del potere politico e la
forza dei suoi strumenti sono usate per dominare materialmente e spiritualmente
gli individui e le masse — ci obbliga a riconoscere al regime sovietico il
carattere di capitalismo di Stato. Impostato il problema sulla questione
decisiva, della situazione del proletariato lavoratore, che soggiace tuttora in
pieno (ancor più che nel capitalismo privato) all’alienazione del lavoro e
dell’uomo, la caratterizzazione dello Stato sovietico come capitalismo di Stato
non ammette più dubbi o restrizioni; e contro questo perdurare
dell’alienazione, appunto, insorge l’esigenza di rivendicazione dell’uomo, che
caratterizza il socialismo.
Buenos Aires,
Marzo 1967
Rodolfo Mondolfo
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