Errico
Malatesta (1853-1932) fu senz’altro il più celebre militante anarchico italiano
del cinquantennio che va dalla morte di Michail A. Bakunin (1876) al
consolidamento della dittatura fascista (1926) e, probabilmente, uno dei più
rilevanti al livello mondiale insieme a Pëtr A. Kropotkin, Gustav Landauer, James
Guillaume, Ricardo Mella, Alexander Berkman, Emma Goldman e Rudolf Rocker. Nel
resto di questo breve articolo non proveremo neppure a riassumere l’avventurosa
esistenza di Malatesta [1], tutta intessuta di progetti rivoluzionari, fallite
insurrezioni, fughe precipitose, lunghi esili e non trascurabili periodi di
detenzione carceraria. Una vita scomoda ma coerente dove, glissando su certe
ingenuità giovanili (ad esempio, i fatti della banda del Matese del 1877),
emerge l’elevata statura morale della persona che è eguagliata soltanto dalla fede
salda nell’avvenire comunista libertario del genere umano. Al livello
biografico c’interessa solo riassumere l’attività di Malatesta dalla fine della
Grande Guerra (novembre 1918) alla Marcia su Roma (ottobre 1922), perché è
proprio in questo quadriennio che si situano i due articoli ai quali intendiamo
fornire adeguate risposte. Soltanto nel 1919, dopo diversi tentativi
infruttuosi, Malatesta, esule nel Regno Unito dal 1914, riesce a ottenere un
passaporto dal console italiano a Londra e a imbarcarsi a Cardiff per Taranto
con l’aiuto di un influente sindacalista dei portuali italiani. In Italia gode
subito di un’enorme popolarità, acclamato dalla folla (ma con sua grande
irritazione!) come il “Lenin italiano”, e se ne avvantaggia durante un’intensa
attività propagandistica che lo rende uno dei protagonisti più radicali del
cosiddetto “Biennio Rosso” (1919-1920). I suoi intenti sono infatti
sintetizzabili in quattro semplici linee d’azione: necessità
di armarsi, necessità di un fronte unico dei sovversivi, necessità di far
funzionare campi e officine in modo nuovo, necessità di passare dagli scioperi
alle occupazioni. Punti che, almeno per qualche settimana durante l’Occupazione
delle Fabbriche (settembre 1920), sembrano divenire finalmente attuabili.
Nel
febbraio del 1920 fonda e dirige a Milano il quotidiano anarchico Umanità Nova, mentre nel luglio dello
stesso anno è tra i protagonisti del congresso di Bologna dove si riorganizza
l'Unione Anarchica Italiana e viene
approvato il famoso “Programma Anarchico” [2], già abbozzato da Malatesta nel
1919. Viene però arrestato e recluso nel carcere di San Vittore dove, insieme
ad altri detenuti, inizia uno sciopero della fame che mina le sue condizioni
fisiche, riducendolo quasi in fin di vita. Tale sciopero viene sospeso solo dopo
la famigerata “Strage del teatro Kursaal Diana”, avvenuta il 23 marzo 1921 e
costata 21 morti e 80 feriti, per la quale vengono condannati Giuseppe Mariani,
Ettore Aguggini, Giuseppe Boldrini e altri sedici anarchici individualisti che sostengono
di aver agito proprio per protesta contro l’arresto immotivato di Malatesta e
dei suoi compagni. Poco dopo Malatesta viene liberato ma, fortemente
impressionato dalle conseguenze umane e politiche della strage, pubblica un
articolo sull’Umanità Nova nel quale,
pur mostrando una certa comprensione per gli esecutori materiali
dell’attentato, critica gli atti di violenza indiscriminati. Continua a
dirigere l’Umanità Nova (nel
frattempo ridottasi a settimanale e trasferitasi a Roma dopo le devastazioni
fasciste della redazione) fino alla fine del 1922, anno in cui Mussolini prende
il potere e chiude d’autorità il giornale (22 novembre) che termina con il n. 196.
Riprenderà le pubblicazioni soltanto nel secondo dopoguerra.