Errico
Malatesta (1853-1932) fu senz’altro il più celebre militante anarchico italiano
del cinquantennio che va dalla morte di Michail A. Bakunin (1876) al
consolidamento della dittatura fascista (1926) e, probabilmente, uno dei più
rilevanti al livello mondiale insieme a Pëtr A. Kropotkin, Gustav Landauer, James
Guillaume, Ricardo Mella, Alexander Berkman, Emma Goldman e Rudolf Rocker. Nel
resto di questo breve articolo non proveremo neppure a riassumere l’avventurosa
esistenza di Malatesta [1], tutta intessuta di progetti rivoluzionari, fallite
insurrezioni, fughe precipitose, lunghi esili e non trascurabili periodi di
detenzione carceraria. Una vita scomoda ma coerente dove, glissando su certe
ingenuità giovanili (ad esempio, i fatti della banda del Matese del 1877),
emerge l’elevata statura morale della persona che è eguagliata soltanto dalla fede
salda nell’avvenire comunista libertario del genere umano. Al livello
biografico c’interessa solo riassumere l’attività di Malatesta dalla fine della
Grande Guerra (novembre 1918) alla Marcia su Roma (ottobre 1922), perché è
proprio in questo quadriennio che si situano i due articoli ai quali intendiamo
fornire adeguate risposte. Soltanto nel 1919, dopo diversi tentativi
infruttuosi, Malatesta, esule nel Regno Unito dal 1914, riesce a ottenere un
passaporto dal console italiano a Londra e a imbarcarsi a Cardiff per Taranto
con l’aiuto di un influente sindacalista dei portuali italiani. In Italia gode
subito di un’enorme popolarità, acclamato dalla folla (ma con sua grande
irritazione!) come il “Lenin italiano”, e se ne avvantaggia durante un’intensa
attività propagandistica che lo rende uno dei protagonisti più radicali del
cosiddetto “Biennio Rosso” (1919-1920). I suoi intenti sono infatti
sintetizzabili in quattro semplici linee d’azione: necessità
di armarsi, necessità di un fronte unico dei sovversivi, necessità di far
funzionare campi e officine in modo nuovo, necessità di passare dagli scioperi
alle occupazioni. Punti che, almeno per qualche settimana durante l’Occupazione
delle Fabbriche (settembre 1920), sembrano divenire finalmente attuabili.
Nel
febbraio del 1920 fonda e dirige a Milano il quotidiano anarchico Umanità Nova, mentre nel luglio dello
stesso anno è tra i protagonisti del congresso di Bologna dove si riorganizza
l'Unione Anarchica Italiana e viene
approvato il famoso “Programma Anarchico” [2], già abbozzato da Malatesta nel
1919. Viene però arrestato e recluso nel carcere di San Vittore dove, insieme
ad altri detenuti, inizia uno sciopero della fame che mina le sue condizioni
fisiche, riducendolo quasi in fin di vita. Tale sciopero viene sospeso solo dopo
la famigerata “Strage del teatro Kursaal Diana”, avvenuta il 23 marzo 1921 e
costata 21 morti e 80 feriti, per la quale vengono condannati Giuseppe Mariani,
Ettore Aguggini, Giuseppe Boldrini e altri sedici anarchici individualisti che sostengono
di aver agito proprio per protesta contro l’arresto immotivato di Malatesta e
dei suoi compagni. Poco dopo Malatesta viene liberato ma, fortemente
impressionato dalle conseguenze umane e politiche della strage, pubblica un
articolo sull’Umanità Nova nel quale,
pur mostrando una certa comprensione per gli esecutori materiali
dell’attentato, critica gli atti di violenza indiscriminati. Continua a
dirigere l’Umanità Nova (nel
frattempo ridottasi a settimanale e trasferitasi a Roma dopo le devastazioni
fasciste della redazione) fino alla fine del 1922, anno in cui Mussolini prende
il potere e chiude d’autorità il giornale (22 novembre) che termina con il n. 196.
Riprenderà le pubblicazioni soltanto nel secondo dopoguerra.
Gli
articoli di Malatesta su Umanità Nova
(1920-1922)
Gli
scritti di Malatesta apparsi sull’Umanità
Nova nei tre anni di vita della prima serie del giornale sono molto
numerosi, in quanto il nostro autore fu sia il direttore che l’articolista di
punta per i problemi politici, economici e sindacali del comunismo libertario;
tutti trattati sempre in maniera chiara, semplice e comprensibile,
completamente all’opposto del modo di scrivere forbito e ricercato degli
intellettuali politici del tempo, quali, per esempio, Gabriele D’Annunzio,
Francesco Saverio Nitti e Benedetto Croce. Luigi Fabbri, assiduo collaboratore
dell’Umanità Nova, raccolse tali
articoli con cura (includendo anche quelli comparsi sotto pseudonimi o in forma
anonima) per un’edizione svizzera del 1935, mentre successivamente furono ristampati
in Italia in due ponderosi volumi intitolati “Pagine di lotta quotidiana” [3]. Gli argomenti discussi sono molto
vari, anche se l’aspetto polemico domina di gran lunga, orientato uniformemente
in tutte le direzioni: contro il governo, contro la Russia bolscevica [4],
contro il sindacato socialista riformista, contro i repubblicani, contro il
neonato partito comunista, ma, soprattutto, contro l’ala massimalista (Serrati in primis) del partito socialista, che
Malatesta crede d’individuare come la principale responsabile del fallimento
della tanto vagheggiata “Rivoluzione Italiana”. Siccome abbiamo già discusso
abbondantemente di questa questione nei mesi scorsi, sorvoleremo sul mito
anarchico (e bolscevico...) della “rivoluzione mancata” [5], concentrandoci
invece su due articoli di Malatesta dove, sempre in modo critico, sono
affrontati alcuni problemi teorici importantissimi la cui attualità rimane
pressoché immutata a distanza di un secolo: La
“fretta” rivoluzionaria (U.N., n.
125 del 6 settembre 1921) e Socialisti e
anarchici (U.N., n. 129 del 10 settembre 1921).
Il
primo tratta, in polemica con La
Giustizia (giornale socialista turatiano di Reggio Emilia), del ruolo della
propaganda anti-capitalista tra i lavoratori, ma anche dell’importanza delle
minoranze coscienti nello svolgersi dei processi d’insorgenza rivoluzionaria.
Il
secondo, sempre in polemica con La
Giustizia, riporta brani della risposta di quest’ultima all’articolo
malatestiano appena citato e poi si concentra sulla supposta incompatibilità
tra i metodi democratici rappresentativi e il comunismo, specificando come gli
anarchici non polemizzino con i socialisti democratici dal punto di vista
bolscevico (auspicante cioè la ferrea dittatura del partito rivoluzionario) ma,
all’opposto, da una posizione libertaria che aspira all’eliminazione immediata
di ogni apparato coercitivo statale, sia esso democratico oppure dittatoriale.
Una risposta marxista a «La “fretta” rivoluzionaria»
Tralasciando
le battute iniziali di Malatesta in cui si commenta in modo alquanto ironico un
articolo di G. Valenti apparso su La
Giustizia, ma si ammette la necessità della propaganda tra i lavoratori
statunitensi [6] per conquistare le masse di quel Paese alle idee di
emancipazione, il nostro autore entra nel vivo del problema quando afferma
testualmente che:
“È
una verità assiomatica, ‘lapalissiana’, la rivoluzione non si può fare se non
quando vi sono forze sufficienti per farla. Ma è una verità storica che le
forze che determinano l’evoluzione e le rivoluzioni sociali non si calcolano
coi bollettini del censimento.
I
cattolici [7] degli Stati
Uniti e d’altrove resteranno numerosi come sono, e magari aumenteranno, fino a
quando vi sarà una classe, potente di ricchezza e scienza, interessata a tenere
la massa nella schiavitù intellettuale per poter meglio dominarla. Gli operai
non saranno mai tutti organizzati e le loro organizzazioni saranno sempre
soggette a disfarsi o a degenerare fino a quando la miseria, la disoccupazione,
la paura di perdere il posto, il desiderio di migliorare le condizioni
alimenteranno la rivalità tra operai e daranno modo ai padroni di profittare di
tutte le circostanze, di tutte le crisi per mettere in concorrenza gli operai
gli uni contro gli altri. E gli elettori resteranno sempre monotoni per
definizione anche se qualche volta accade loro di tirar delle cornate.”
Notiamo
subito che la visione di Malatesta sembra apparentemente semplice e spontanea,
ma in realtà è costruita con sapiente retorica: partendo da una proposizione
che suona più che ovvia (“lapalissiana”, scrive infatti l’autore), ovvero che
la rivoluzione socialista potrà avvenire solo quando esisteranno forze sociali
sufficienti a promuoverla, viene subito indebolita l’idea di un’evoluzione
pacifica e spontanea della società dal capitalismo al socialismo (ipotesi tanto
cara a certi ambienti positivisti vicini alla frazione riformista del PSI che,
conseguentemente, attribuivano al partito un mero ruolo di “levatrice” del
socialismo). Ma poi, in meno di un rigo, si passa a un’affermazione assai meno lapalissiana, ossia che queste forze che determinano l’evoluzione
e le rivoluzioni sociali non si calcolano coi “bollettini del censimento”.
Ovvero non sono misurabili in modo puramente numerico quantitativo, come per
esempio le forze della fisica, ma vanno invece comprese in modo prettamente
qualitativo.
Il
nostro consenso a quest’affermazione potrà però essere solo parziale: se
l’autore intende dire che la numerosità relativa del proletariato, il suo tasso
di sindacalizzazione, d’iscrizione a partiti e movimenti socialisti (tutte
caratteristiche che possono esser indicate da numeri o da percentuali) non
bastano a poter prevedere uno sbocco rivoluzionario della lotta di classe,
allora saremo senz’altro a favore; ma se invece il ricorso al supposto
carattere qualitativo del proletariato rivoluzionario travalica il chiaro
concetto materialista di “sviluppo della coscienza di classe” per entrare nel
reame fumoso e irrazionalista della “volontà rivoluzionaria”, dello “sciopero come tirocinio rivoluzionario”, del
“mito politico e sociale capacitante” e via discorrendo (tutti cari a Georges Sorel
e ai suoi ammiratori tra i sindacalisti rivoluzionari italiani) allora non
potremo che esprimere il nostro inequivocabile dissenso.
Ma
seguitiamo con la disamina di quanto scrive Malatesta quando,
pessimisticamente, si dichiara convinto che, a causa della potenza della classe
dominante e dei suoi ovvi interessi a lasciare languire il proletariato in uno
stato di schiavitù intellettuale, le religioni più oscurantiste avranno sempre ampia
presa, larghe fette di lavoratori resteranno non organizzati, oppure le loro
organizzazioni degenereranno e si decomporranno rapidamente. Tutto viene
imputato alla paura dei licenziamenti generata dalle crisi cicliche, alla
concorrenza tra i lavoratori salariati stessi, nonché alla tendenza di molti
proletari ad attenuare i propri disagi individualmente piuttosto che in modo
classista collettivo o, magari, coltivando le monotone illusioni di un
elettoralismo, talora sorprendente, ma comunque sempre irrilevante.
Anche
in questo caso il nostro assenso potrà esser solo parziale: se Malatesta
intende dire che questa è la condizione “normale” della classe operaia oppressa
da un regime capitalista tipico (o “ideal-tipico” usando una locuzione
weberiana), allora egli non fa altro che ribadire i ben noti capisaldi del
marxismo classico. Se invece è convinto che questa è una realtà immutabile (una
“legge bronzea” direbbe Lassalle) del dominio del capitale sulle classi
subalterne, allora non condividiamo affatto il suo pessimismo che ci sembra del
tutto anti-dialettico, in quanto non in grado di concepire i mutamenti storici
dei rapporti tra le varie classi antagoniste in determinati momenti.
A
questo punto, anche allo scopo di chiarire ulteriormente le concezioni
malatestiane, diamo di nuovo la parola al nostro autore che finalmente palesa
la sua idea di rivoluzione:
“È cosa
provata che date certe condizioni economiche, dato un certo ambiente sociale,
le condizioni intellettuali e morali della massa restano sostanzialmente le
stesse e, fino a quando un fatto esterno, un fatto idealmente o materialmente
violento non viene a modificare quell’ambiente, la propaganda, l’educazione, l’istruzione
restano impotenti e non riescono ad agire che sopra quel numero d’individui
che, in forza di privilegi naturali o sociali, possono vincere l’ambiente in
cui sono costretti a vivere. Ma quel piccolo numero, quella minoranza cosciente
e ribelle che ogni ordine sociale partorisce in conseguenza delle stesse
ingiustizie a cui la massa è soggetta, agisce come fermento storico e basta, è
sempre bastato, a far progredire il mondo.
Ogni
nuova idea, ogni nuova istituzione, ogni progresso ed ogni rivoluzione è stata
sempre l’opera di minoranze. È nostra aspirazione, è nostro scopo quello di far
assurgere tutti quanti gli uomini a fattori effettivi, a forze coscienti della
vita sociale; ma per riuscire a questo scopo occorre dare a tutti i mezzi di
vita e di sviluppo, e perciò bisogna abbattere, con la violenza poiché non si
può fare altrimenti, la violenza che questi mezzi nega ai lavoratori.
Naturalmente
il «piccolo numero», la minoranza, deve esser sufficiente, e ci giudica male
chi pensa che noi vorremmo fare un’insurrezione al giorno senza tener conto
delle forze in contrasto e delle circostanze favorevoli o meno.”
Inizialmente
Malatesta sembra propendere per la nostra interpretazione più favorevole delle
sue precedenti affermazioni: la soggezione della classe lavoratrice è sì
condizione ‘normale’ del dominio capitalista, ma un fatto esterno, idealmente o
materialmente ‘violento’, può modificare in qualsiasi momento questa
situazione. Però subito dopo il suo discorso si salda con una questione molto
diversa relativa ad un piccolissimo numero di individui che, a causa di
privilegi naturali (intelligenza, perspicacia, spirito critico ecc.) o sociali
(istruzione superiore conseguenza di un minimo benessere, contatti più o meno
fortuiti con ambienti sovversivi ecc.) riesce a vincere il dominio
intellettuale del capitale, anzi sembra addirittura trarre origine e forza
proprio dalle ingiustizie che tale dominio continua a perpetrare. Fin qui
nessuna obiezione da parte nostra in quanto sappiamo bene quanto sia esiguo (nelle
situazioni ‘normali’) il numero di lavoratori pienamente coscienti che abbiano
accettato e compreso fino in fondo il programma del socialismo rivoluzionario
marxista. Ma proprio nello stesso periodo, nuovamente con grande scaltrezza
retorica, viene immessa bruscamente un’affermazione completamente diversa, che
vale la pena riportare di nuovo:
“Ma
quel piccolo numero, quella minoranza cosciente e ribelle (…) agisce come
fermento storico e basta, è sempre bastato, a far progredire il mondo. Ogni
nuova idea, ogni nuova istituzione, ogni progresso ed ogni rivoluzione è stata
sempre l’opera di minoranze.”
Sembrerebbe
di udire l’eco, appena leggermente modificata dal contesto libertario, delle
varie teorie “elitiste” del periodo, diffusissime in diverse coniugazioni
politiche e sociologiche: da Gustave Le Bon a Vilfredo Pareto fino a Max Weber,
da Gaetano Mosca a Robert Michels fino a Vladimir I. Lenin [8]; ma sarebbe un imperdonabile
sbaglio. È infatti tutta interna al pensiero anarchico la tradizione del “fermento”
rivoluzionario, del manipolo di “refrattari” che scuote le masse con la
“propaganda del fatto”. Basterebbe citare Michail A. Bakunin e Carlo Cafiero,
con la loro segretissima Alleanza Internazionale della
Democrazia Socialista, per fare solo due nomi. Eppure
l’analogia con le concezioni avanguardiste del bolscevismo c’è, pur dovendone
riconoscere la diversa genesi. Tant’è che l’autore conclude con un finale,
breve ma pesante come un macigno, che sembra uscito dalla penna di Lenin o di
Trockij dopo il novembre del 1917:
“In
somma noi siamo perfettamente d’accordo con ‘La Giustizia’ quando insiste sulla
necessità di fare molta propaganda e di sviluppare il più possibile le
organizzazioni proletarie di lotta; ma ci stacchiamo recisamente da essa quando
pretende che per agire bisogna aspettare di aver attirato a noi la maggioranza
di quella massa inerte che non sarà convertita se non dai fatti, che non
accetterà la rivoluzione se non dopo che la rivoluzione sarà iniziata”.
Sarà forse monotono
ripeterlo, ma, nonostante tutto il rispetto che nutriamo per quell’integerrimo
rivoluzionario che fu Malatesta, non possiamo di certo condividere questo suo
giudizio. E a chi parla di ipotetiche maggioranze proletarie divenute
“rivoluzionarie” post-factum quasi
per magia, opponiamo testardamente la nostra idea di sempre: solo quando una
larga parte della classe lavoratrice vorrà coscientemente il socialismo e
accetterà di lottare senza sosta per esso, allora sarà possibile una
rivoluzione proletaria su scala mondiale che condurrà alla definitiva scomparsa
del modo di produzione capitalista. Tutto il resto è solo l’ennesima versione
del solito vicolo cieco rappresentato dalle varie “rivoluzioni politiche” che
si risolvono semplicemente in un ricambio della classe dominante, questo sì
mera “circolazione delle élite” di paretiana memoria.
Una risposta marxista a «Socialisti e anarchici»
Questo secondo articolo, apparso
appena quattro giorni dopo il precedente, prosegue la polemica con il giornale
socialista riformista modenese La
Giustizia, spostandosi però dalla “questione
di voler fare la rivoluzione più o meno presto” a “quella della libertà o dell’autorità”, ovvero andando a finire, come spesso accadeva in quegli anni, a
commentare gli eventi russi e il relativo comportamento dei bolscevichi.
Malatesta era stato infatti citato da La
Giustizia nella diatriba interna al PSI tra i partigiani della Rivoluzione
d’Ottobre e gli elementi riformisti più scettici di fronte a tali fatti. Tale
citazione, riassunta da Malatesta stesso per motivi di brevità, ci appare come
segue:
«Così
dice Malatesta. C’è da osservare che l’esempio della dittatura bolscevica in
Russia ha valore soltanto contro chi immagina che il Socialismo – cioè
l’organizzazione della vita sociale sulle basi della proprietà collettiva – si
possa attuare dall’alto, per opera di una “minoranza” che s’impadronisca del
potere governativo. In questo caso è vero che il governo è “necessariamente”
tirannico, come afferma Malatesta: dovendo agire contro gli istinti, i sentimenti,
le abitudini e la volontà della grande “maggioranza” della popolazione, un tale
governo non può reggersi fuorché con la violenza e il terrore. E malgrado la
violenza ed il terrore, esso dovrà cadere od altrimenti rinunciare alle riforme
non ancora mature e ritornare indietro, per mettersi al livello della massa
popolare che è l’elemento fondamentale di ogni organizzazione sociale e non si
lascia plasmare a capriccio altrui».
Queste affermazioni, le
quali non sono affatto negate dall’anarchico sammaritano (che all’opposto le
rivendica) vengono però subito integrate da La
Giustizia in modo tale da ipotizzare una qualche tenuissima convergenza tra
comunismo libertario e socialismo democratico:
«Ma
lo stesso Malatesta avverte che oltre la forma dittatoriale propugnata dai
comunisti e di cui si sta facendo così tragico esperimento in Russia, vi è
anche la forma democratica del potere governativo. E la forma democratica –
quella che fu sempre proclamata dai socialisti – non vuole la dittatura di un
partito, ma vuole invece la sovranità della intera classe lavoratrice, dai più
oscuri lavoratori manuali fino ai più illuminati lavoratori del pensiero».
Il
testo del giornale modenese prosegue elencando brevemente gli obiettivi e i
metodi tipici del socialismo riformista turatiano, ma poi termina prevedendo il
vivace dissenso degli anarchici su queste specifiche proposte politiche:
«Sappiamo
bene quali sono le obiezioni degli anarchici; ma anche Malatesta dovrà
convenire che questa forma di democrazia non può assolutamente essere confusa
con la dittatura alla russa, dalla quale è assai più lontana che
dall’anarchismo».
La
risposta del nostro celebre anarchico non si fa attendere, giungendo immediata
ed ironica, anche se in una forma alquanto sofistica e vagamente supponente:
«Infatti.
Il Socialismo veramente democratico che vagheggia “La Giustizia” è molto
migliore del socialismo dittatoriale, alla russa: solamente … non è il
socialismo o è il socialismo reso impossibile».
Ma cosa intende Malatesta
con questa alternativa un po’ sibillina? Chi si aspetterebbe immediatamente una
dura critica al riformismo socialdemocratico e alla sua idea (di derivazione
bernsteiniana) di una lenta e pacifica evoluzione dal capitalismo al socialismo
attraverso un cammino di riforme parlamentari, rimarrebbe deluso. I primi tre
motivi addotti nel prosieguo dell’articolo sono altri, sebbene l’autore sembra voler
insistere soprattutto sull’ultimo:
1)
«Lascio
andare ora la questione che la democrazia è, nella migliore ipotesi, il dominio
della maggioranza, e che gli anarchici vogliono la libertà per tutte le
minoranze, sapendo bene che ogni nuova idea, ogni progresso è sempre l’opera di
minoranze e non è accettato dalla maggioranza se non quando è, almeno in parte,
già attuato».
2)
«Lascio
andare anche la questione che una vera maggioranza cosciente sopra una cosa
qualsiasi non si forma che lentamente e che intanto può essere urgente una
soluzione per una parte sia pure piccola del consorzio sociale».
3)
«E mi
fermo invece sulla possibilità o meno di elevare le masse, la maggioranza dei
lavoratori, alla concezione ed al desiderio del socialismo fino a che durano
gli attuali ordinamenti economici e politici».
Come è facile notare, si
ritorna rapidamente alle idee “elitiste” di “La
‘fretta rivoluzionaria”: sotto il dominio economico, politico e culturale
del capitalismo le masse proletarie sono generalmente prostrate e soggiogate.
Quindi solo una piccolissima minoranza raggiunge il livello di coscienza
necessario a concepire una rivoluzione socialista. Tale minoranza può però
agire da “detonatore sociale” mediante azioni eclatanti che sono potenzialmente
in grado di scuotere la grande maggioranza della classe lavoratrice, la quale,
sebbene mobilitata e pronta allo scontro, solo con lentezza potrà divenire
realmente e coscientemente rivoluzionaria. A questo punto la risposta di Malatesta
ai socialisti riformisti si fa volutamente un po’ opaca: La Giustizia viene tacciata di ingenuità e, a sostegno delle tesi
“elitiste” appena esposte, vengono portati alcuni esempi fallimentari
dell’azione dei socialisti eletti nei vari municipi e al parlamento nazionale.
Il tutto è condito persino da un paio di frasi paternaliste e qualunquiste, non
proprio all’altezza del nostro celebre anarchico:
“E
le organizzazioni proletarie sono sempre una cosa incerta, un giorno disposte a
rovesciare tutto per raggiungere l’emancipazione, un altro conservatrici e vili
per paura di compromettere lo scarso pane”.
O addirittura:
“(…)
poiché vi è sempre, in regime capitalista, della gente a cui manca pane, si
trovano sempre dei disgraziati che per un pane sicuro son disposti a farsi
assassini dei loro fratelli”.
In
fondo, mutatis mutandis, si finisce
con lo sposare la teoria blanquista dell’insurrezione violenta [9], apparentemente
necessaria per prevenire l’ancora più violenta repressione borghese:
“La borghesia non si farà espropriare di
buona grazia e si dovrà sempre addivenire al colpo di forza, alla violazione
dell’ordine legale con mezzi illegali (…)”.
La
risposta malatestiana termina poi con un crescendo in cui si ribadiscono le
tradizionali (e stereotipate) differenze tra anarchici e socialisti per il
periodo post-rivoluzionario: i primi “vogliono,
quando vi sarà la minoranza sufficiente e le altre circostanze lo permetteranno,
abbattere il potere statale e mettere tutta la ricchezza sociale a disposizione
di tutti, vigilando perché non si costituiscano nuovi poteri i quali
monopolizzino il lavoro di riorganizzazione volgendolo a favore di certi
partiti e di certe consorterie”.
I
secondi invece “vogliono impossessarsi
del potere e fare la legge”. Magari non tutti i socialisti optano per
metodi dittatoriali dei bolscevichi, e quindi “vogliono farlo democraticamente, cioè farsi eleggere deputati ed andare a rappresentare il pensiero e
la volontà di una massa, che non ha ancora pensiero e volontà o, se l’ha,
dovrebbe affrettarsi a rinunziarvi delegando il potere ai bei parlatori e
sottomettendo le sue aspirazioni a tutti i rischi di una casuale maggioranza
parlamentare. In realtà poi sarebbe dittatura lo stesso: forse un po’ meno
brutale, ma sempre dittatura, cioè prepotenza prima di chi manipola le elezioni
e poi di chi guida e domina il parlamento”.
È
davvero impressionante come in sole otto righe di testo si possa fare una
confusione così enorme all’interno della compagine socialista ostile al
bolscevismo, amalgamando tra loro il socialismo genuinamente marxista (che
rimonta a F. Engels, P. Lafargue, A.
Labriola per giungere fino a D. De Leon e all’ “impossibilismo” britannico) e la
socialdemocrazia apertamente riformista (E. Bernstein) o, tutt’al più,
vagamente centrista (K. Kautsky e O. Bauer), specie per quello che riguarda
l’uso rivoluzionario del parlamento borghese e il ruolo del partito nella corso
della rivoluzione. Data la brevità del nostro testo non possiamo dilungarci
ulteriormente su queste questioni, ma vogliamo indirizzare il lettore
interessato all’ottimo opuscolo del Partito Socialista della Gran Bretagna
sull’argomento: “What’s wrong with using
Parliament?” [10] del 2010.
La
frase finale poi (siamo a tredici mesi appena dalla Marcia su Roma che
inaugurerà in ventennio fascista!) raggiunge le vette più alte dell’involontaria
auto-ironia e, commentandosi da sé, non necessita di una nostra risposta:
“Ecco perché noi, come siamo nemici
della dittatura, che è tirannia sfacciata, siamo nemici anche della democrazia,
che è tirannia mascherata e forse più dannosa della franca dittatura, perché dà
alla gente l’illusione di esser libera e quindi può durare di più”.
Conclusioni
Nelle pagine precedenti abbiamo
messo a fuoco alcune concezioni del celebre rivoluzionario italiano Errico
Malatesta nel periodo della sua maggiore maturità politica, corrispondente al primo
dopoguerra e alla conseguente fondazione dell’importante giornale anarchico Umanità Nova. Purtroppo, pur rispettando
il personaggio per il suo coraggio indomito di combattente rivoluzionario, per
sua integrità morale e per la sua immediata denuncia dei pericoli della
dittatura bolscevica, abbiamo toccato con mano la sua lontananza dalle
posizioni del socialismo marxista almeno su tre questioni cruciali: il ruolo
del partito, la maturazione della classe lavoratrice e la dinamica della
rivoluzione socialista. Ma quel che è peggio è la sua totale incomprensione
delle profonde differenze esistenti tra socialdemocrazia riformista (o
centrista) da un lato, e socialismo rivoluzionario anti-bolscevico dall’altro. Certo,
su questo specifico punto Malatesta ha delle attenuanti perché scrive in un
periodo in cui la separazione netta nel mondo tedesco-olandese tra comunismo
dei consigli di derivazione luxemburghiana-“tribunista” e comunismo bolscevico
non era ancora del tutto compiuta. Tuttavia, dato il suo lungo soggiorno nei
paesi anglosassoni e la sua sicura conoscenza di alcune opere di Marx, Engels,
Lafargue e Labriola, si direbbe che la spiegazione di tali incomprensioni sia da
cercare altrove: il pregiudizio bakuninista [11], che ingiustamente e
superficialmente etichetta il marxismo tout
court come filosofia del “socialismo di stato”, pesa ancora enormemente
nelle concezioni politiche del nostro autore anarchico e, paradossalmente,
sembra trarre nuove conferme proprio dalle degenerazioni del socialismo
internazionale, ovvero dal parlamentarismo riformista da un lato e dalla
dittatura bolscevica dall’altro. Ad ogni modo, a voler ben vedere è proprio il
tipo di anarchismo propugnato da Malatesta (ossia una sintesi piuttosto
disinvolta tra “anarco-comunismo” e “anarco-individualismo” nota come “programmismo
anarchico”) a mostrare inquietanti, ancorché involontari, tratti comuni con la
socialdemocrazia e il bolscevismo. Infatti tutte e tre concezioni citate, in
qualche forma, accettano la passività politica della maggioranza della classe
lavoratrice come un fatto dato una volta per tutte e cercano quindi tipi
differenti di scorciatoie per l’attuazione del loro programma, sempre però
caratterizzate dall’azione di élite politiche: di parlamentari e dirigenti
sindacali per i socialdemocratici, di rivoluzionari di professione e futuri
commissari del popolo per i bolscevichi, di “refrattari” pronti alla “propaganda
del fatto” e ad azioni eclatanti per gli anarchici programmisti. A tali
progetti rispondiamo citando le prime due frasi poste come incipit degli “Statuti Provvisori
dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori” del 1864 [12]:
“Considerando che: (1) l’emancipazione della classe operaia deve essere opera dei
lavoratori stessi; che la lotta della classe operaia per l’emancipazione non
deve tendere a costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma a stabilire
per tutti diritti e doveri eguali e ad annientare ogni predominio di classe; (2)
che la soggezione economica del lavoratore nei confronti dei detentori dei mezzi
di lavoro, cioè delle fonti della vita, è la causa prima della schiavitù in
tutte le sue forme, di ogni miseria sociale, di ogni pregiudizio spirituale e
di ogni dipendenza politica; (…)”
Tale documento si deve materialmente a Marx, ma fu sempre tenuto nella
massima considerazione anche dagli anarchici, che si ritengono appunto i
legittimi eredi della Prima Internazionale. Dovrebbe essere quindi anche per
loro, come lo è per noi, un punto di riferimento essenziale dell’azione
politica.
Bibliografia
[1] Si veda, per esempio, una recente biografia di Errico
Malatesta: Vittorio Giacopini, Non ho bisogno di stare tranquillo,vita straordinaria del rivoluzionario più temuto da tutti i governi e le questure del regno (Elèuthera, Milano, 2012).
[2]
Consultabile sul sito della FAI: http://www.federazioneanarchica.org/archivio/programma.html
[3]
Errico Malatesta, Pagine di lotta
quotidiana, 2 voll. (Movimento
Anarchico Italiano, Carrara, 1975).
[4] Quasi profetiche sono le parole che
Malatesta dedica, già nel luglio del 1919, all’esperienza della Rivoluzione
d’Ottobre in una sua breve lettera da Londra a Luigi Fabbri. Non possiamo
astenerci dal riportare nella sua scarna semplicità il seguente passaggio che
merita un plauso anche da parte dei marxisti: “(…). Anche il generale Bonaparte servì
a difendere la Rivoluzione Francese contro la reazione europea, ma nel
difenderla la strozzò. Lenin, Trockij e compagni sono di sicuro dei
rivoluzionari sinceri, così come essi intendono la rivoluzione, e non
tradiranno; ma essi preparano i quadri governativi che serviranno a quelli che
verranno dopo per profittare della rivoluzione ed ucciderla. Essi saranno le
prime vittime del loro metodo, e con loro, io temo, cadrà la rivoluzione. È la
storia che si ripete: mutatis
mutandis, è la dittatura di Robespierre che porta Robespierre alla
ghigliottina e prepara la via a Napoleone. (…)”. Fabbri riporterà tale lettera come introduzione alla
sua critica del bolscevismo scritta nel 1921 e pubblicata con il titolo di “Dittatura e Rivoluzione”
una vera e propria risposta
anarco-comunista al celebre Stato e Rivoluzione
di Lenin.
[5] La versione anarchica di tale ‘mito’
è dettagliatamente presentata da Armando Borghi nel suo volume L’Italia tra due Crispi. Cause e conseguenze
di una rivoluzione mancata (1924), la cui versione riveduta e corretta è
stata ripubblicata dall’autore nel 1964 con il titolo: La rivoluzione mancata: http://bibliotecaborghi.org/wp/wp-content/uploads/2016/01/Borghi-Armando_La_rivoluzione_mancata.pdf
[6] L’esempio riguarda
gli USA in quanto considerati all’epoca come assai arretrati sindacalmente (solo
4,5 milioni di organizzati su 40 milioni di produttori e produttrici) e
politicamente (solo 1 milione di voti socialisti su 25 milioni di elettori).
[7] Malatesta qui cita
i lavoratori cattolici praticanti degli Stati Uniti, che Valenti valutava in
circa 60 milioni, considerandoli in quel periodo come un esempio di proletari arretrati,
assai lontani quindi dalle idee rivoluzionarie, sia socialiste che anarchiche.
[8] Si confrontino, a
puro titolo di esempio, la “Psychologie du
socialisme” (1898) di Le Bon, il “Che fare?” (1902) di Lenin e “La
democrazia e la legge ferrea dell'oligarchia” (1910) di Michels. Opere quasi
coeve, ma diversissime, eppure accomunate da una vera e propria fissazione per
le élite politiche e la loro supposta azione.
[9] Per una demolizione
teorica del blanquismo nell’epoca successiva alla Comune di Parigi si veda il
sempre attuale testo di Friedrich Engels del 1895: “Introduzione alle Lotte
di classe in Francia 1848-1850”, dove si dichiara finalmente chiusa la stagione delle barricate in
strada, ma non quella delle rivoluzioni
[10] La traduzione
italiana dell’opuscolo citato è disponibile in rete: https://digilander.libero.it/gmfreddi/Parlamento.pdf
[11] Per la violenta
critica di Bakunin a Marx si veda la seguente opera: Michail A. Bakunin, Stato e anarchia (Universale Economica
Feltrinelli, Milano, 2015).
[12] Consultabile in rete all’indirizzo: https://www.resistenze.org/sito/ma/di/cm/mdcm8e09-003087.htm
Tra il 15 e il 16 settembre 1922 parteciparono a
Saint-Imier (Svizzera) un centinaio di militanti anarchici provenienti da tutta
Europa tra cui Errico Malatesta (qui nella foto), unico superstite
dello storico congresso del 1872 che segnò la
definitiva divisione in due tronconi dell’Associazione Internazionale dei
Lavoratori (nota anche come Prima Internazionale). Era stato convocato dalla
corrente bakuninista (antiautoritaria)
della Prima Internazionale che rifiutava la legittimità del congresso
riunitosi dal 2 al 7 settembre 1872 a L'Aia (Paesi Bassi) per iniziativa
di Karl Marx e Friedrich Engels.
Eccellente.
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