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venerdì 31 dicembre 2010

Religione, Razzismo e Classi

L’assurda pretesa del razzismo è che i tratti comportamentali, fisici e culturali della gente corrispondano a un certo modello fisso e immutabile; e questo determina la superiorità o no di un gruppo in relazione ad altri. Questa è una visione che è stata usata per giustificare alcuni dei più indicibili e orrendi crimini contro l’umanità, talvolta conducendo a veri e propri genocidi.

Eduardo Galegno nella sua Vena Aperta dell’America Latina, raccontò che prima che i conquistatori stranieri mettessero piede sulla terra della regione gli indiani ammontavano a non meno di 70 milioni. Ma un secolo e mezzo dopo, furono ridotti a 3,5 milioni; e nel 1685 solo 4.000 famiglie indiane restarono dei più di due milioni che una volta vivevano tra Lima e Paita. Anche l’arcivescovo de Liñán y Cisneros svelò come alcune delle chiese maggiori ebbero completamente mentito con fine arte. Egli disse: “La verità è che si stanno nascondendo, per evitare di rendere onore, abusando della libertà che godono e che mai hanno avuto sotto gli Incas”.

Il razzismo tuttavia è difettato per numerosi motivi, non solo per il suo barbarismo e la sua irrazionalità. I sui argomenti basilari sono fondamentalmente deboli. Dove sono quelle persone che si conformano alla purità razziale, diciamo in termini di colore? S’incontrano tante persone con la pelle nera in Africa, ma senza dubbio s’incontrano per caso anche individui con la pelle bianca nell’Africa meridionale e nella Nigeria orientale. Come si può anche ritenere che gli indiani yanamani o i boscimani del deserto del Kalahari siano meno intelligenti delle persone in Norvegia o in Giappone? I due gruppi vivono in condizioni materiali differenti, e questi vari ambienti impongono su di loro compiti e soluzioni che rispondono alle loro peculiari circostanze. Nonostante le spalancate fessure nelle teorie dei razzisti, il razzismo è usato assieme alla religione per giustificare l’asservimento di altre persone.

Il Cristianesimo, l’Islamismo e l’Induismo

Gli arabi e i loro equivalenti musulmani, secondo Dais Brion, furono le prime persone a sviluppare una tratta degli schiavi specializzata a lunga distanza dall’Africa sub-sahariana. Furono anche le prime persone a vedere i neri come idonei per natura per la forma più bassa e più degradante di servitù. Il lavoro pionieristico di Rotter e la ricerca di Bernard Lewis rivelano che per gli arabi medievali la nerezza degli africani suggeriva il peccato, la dannazione e il diavolo. Gli arabi eruditi per la maggior parte del tempo invocavano anche la maledizione biblica dei Canaan per spiegare perché i figli di Ham erano stati anneriti e degradati allo stato di schiavi naturali come punizione per i peccati dei loro antenati.

Durante il X secolo alcuni scrittori musulmani asserirono che Ham generò tutti i neri e la gente con i capelli arricciati e che “Noah mandò una maledizione su Ham per la quale i capelli dei suoi discendenti non si sarebbero allungati sulle loro orecchie, e loro avrebbero dovuto essere fatti schiavi dovunque fossero incontrati”. Bernard Lewis, inoltre, cita uno storico islamico del XIII secolo proveniente dall’Iran, il quale concluse che gli zanj (neri) differivano dagli animali solamente perché le loro due mani erano sollevate da terra e che molti osservarono che la scimmia era più ricettiva e più intelligente degli zanj.

Nel XVII secolo Padre Gregorio Garcia scoprì il “sangue semitico” negli indiani, poiché come gli ebrei, “essi sono pigri, non credono nei miracoli di Gesù Cristo, e sono ingrati agli spagnoli per tutto il bene che gli hanno fatto”. Quando Bartolome de Las Casas rovesciò la corte spagnola con le sue fiammeggianti condanne della crudeltà degli inquisitori nel 1557, un membro del Consiglio Reale rispose che gli indiani erano troppo in basso nella scala umana per essere capaci di ricevere la fede. Un’altra giustificazione per tenere altre persone come schiavi fu trovata nel Levitico 25:44, il quale dice: “Quanto allo schiavo e alla schiava che potrete avere in proprio, li prenderete dalle nazioni che vi circondano; da queste comprerete lo schiavo e la schiava”. Ma il testo più popolare sull’argomento si trova nella Genesi 9:25, la quale dice: “Maledetto sia Canaan; un servo dei servi deve lui essere verso i suoi fratelli”. Alcuni proprietari di schiavi andarono oltre la bibbia discutendo che poteva essere sbagliato fare schiavi i cristiani, ma che il negro non era un essere umano e perciò non poteva diventare un cristiano. Una signora devota disse, quando chiese se la sua domestica negra doveva essere battezzata: “potresti pure battezzare la mia cagna nera”. Mentre il Vescovo Berkeley espresse la stessa idea in linguaggio filosofico quando disse: “I negri erano creature di un’altra specie che non avevano alcun diritto di essere incluse o ammesse ad altri sacramenti”.

Analogamente, i sentimenti razzisti sono espressi nel Rig Veda, le scritture indù dell’antica India. Indra, il Dio degli ariani, è descritto come “il soffiare via con forza soprannaturale dalla terra e dal paradiso i pelle nera, che Indra odia”. La descrizione per di più riporta come Indra “ammazzasse i barbari dal naso piatto, la gente nera chiamata anasahs. Infine, dopo che Indra conquistò la terra degli anasahs per i suoi fedeli, egli ordinò che agli anasahs dovesse essere levata la (loro) pelle nera”.

La prima caratteristica distintiva che salta all’occhio nella religione e nel razzismo è il loro invocare a un sistema di due categorie che presuppone una divisione fondamentale dell’umanità in un gruppo “dentro” e un gruppo “fuori”. Per di più, questa fondamentale divisione è supportata, iniziata e sancita da Dio stesso. Dio ha un interesse speciale per il gruppo “dentro”, ed esso riceve il suo aiuto sostenitore e la grazia. Al contrario egli è indifferente od ostile nei confronti del gruppo “fuori”. Nell’analisi finale Dio non valuta tutti gli uomini allo stesso modo, di conseguenza li tratta differentemente. E questa differenza non è casuale ma centrale al suo volere e intento. Il sistema di due categorie è correlato con uno squilibrio di sofferenza in cui il gruppo “fuori” soffre di più del resto delle persone. Nella descrizione del Rig Veda, per esempio, sappiamo che Dio ha meno affetto per gli anasahs perché soffrono di più degli ariani. È anche evidente da libri sacri come la Bibbia e il Rig Veda che il favore o sfavore di Dio è correlato con l’identità razziale o etnica del gruppo in questione. La collera e l’ostilità di Dio sono qualche volta perfino dirette alle caratteristiche fisiche di una particolare comunità etnica o razziale.

Nella Bibbia Geova spesso sta dalla parte degli israeliti nelle campagne omicide per arraffare la terra dai jebusiti, cannaniti, filistei, amalechiti nello stesso modo in cui egli fu usato per giustificare il colonialismo. Allo stesso modo nella religione tradizionale africana il Dio di un particolare gruppo etnico assiste quest’ultimo per sopraffare i suoi nemici e portare prosperità al gruppo “dentro”. È ovvio che sebbene non ci sia alcuna prova solida a sostegno del reclamo che Dio creò l’uomo, c’è abbastanza giustificazione nell’affermazione materialista che Dio è un’invenzione dell’uomo. Ciò è trucemente illustrato dal fatto che mentre Saddam Hussein si stava rivolgendo a Dio per aiutare gli iracheni nella Guerra del Golfo, Gorge Bush stava facendo la stessa cosa. Nessun Dio causò la morte dei giovani uomini che furono massacrati; bensì le mal indirizzate credenze e l’ingordigia della classe dominante.

La produzione e i rapporti di produzione

Di conseguenza lo schema dell’analisi del “dentro” e del “fuori” non ha niente a che fare con Dio. È una manifestazione del mondo concreto e materiale degli esseri umani riflessa nelle loro coscienze nel processo della produzione e della distribuzione della ricchezza. In definitiva, la produzione e i rapporti di produzione determinano le idee che gli individui hanno riguardo a se stessi come un gruppo, e riguardo ampiamente alla società in argomenti di moralità, religione metafisica, ecc. Ed è solo quando si ha identificato e capito i vantaggi e le soggezioni materiali di una società, come essa produce i beni per soddisfare i suoi bisogni materiali, come i beni sono distribuiti, e che tipo di organizzazione sociale germoglia dall’organizzazione della produzione, che si è arrivati lontano nel comprendere la cultura e le vedute religiose di quella società.

Se i rapporti di produzione sono tali da rendere possibile per una minoranza di appropriarsi del prodotto finale del lavoro della maggioranza, le vedute della minoranza diventano quelle dominanti nella società, mentre le opinioni della maggioranza sono soppresse. Il possesso dei mezzi di produzione è quindi importante nel capire la percezione della gente dei fenomeni sociali – la religione, la filosofia, l’arte ecc. Tenendo questo in mente, possiamo trovare che le percezioni religiose in ogni società divisa in classi non sono neutrali, ma uno strumento nelle mani della classe dominante nella sua lotta per mantenere il suo controllo sul surplus economico. Le teorie religiose e di ogni genere ideologico sono escogitate dalla classe dominante o da i suoi rappresentanti nelle comunità intellettuali e nelle organizzazioni della chiesa per mantenere l’oppresso intrappolato per sempre nel circolo vizioso dello sfruttamento.

Come bambini in una comunità prevalentemente cattolica, usavamo dire che Dio era attorniato da una moltitudine di angeli con arcangeli. Dio era il capo e ogni angelo e arcangelo aveva un compito specifico da eseguire in paradiso. Questo era una visione del mondo che cercava di dare benedizione alla relazione padrone-servo che esisteva nell’era feudale e nella società di classe in generale.

Alcune citazioni nella bibbia sono anche antilavoratore, se applicate nelle odierne circostanze. Si prenda per esempio il detto, “Ma io vi dico, di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra”. Suppongo che quando l’Ufficio del Ragioniere di Stato tagliò la notevole somma di 100.000 cedis [valuta del Ghana] dal mio salario in marzo, avrei dovuto rispondere: “Prego mio Signore perché è così generoso con me? Prenda 400.000 cedis in più”. Ciò sarebbe stata sottomissione allungata ai suoi limiti idioti, e un invito allo sfruttamento e al dispotismo. Poteva significare un’accettazione della schiavitù salariale, un sistema che è ostile nei confronti degli interessi della gente.

Il Nuovo Testamento ci consiglia anche di disprezzare e di deprecare le cose mondane in luogo di compensi divini. Questo che cosa significherebbe per quelli che fanno già guadagni materiali sulla Terra? Se le persone come Bill Gates fossero anche devote avrebbero un doppio compenso; uno sulla Terra e l’altro in paradiso, mentre il devoto povero ne avrà soltanto uno. Per quanto riguarda i poveri che non sono devoti l’estensione dei loro svantaggi e dannazione è inestimabile. Il risultato finale di questi insegnamenti, se impiegati in una società di classe, è quello di rendere la gente lavoratrice docile e di facilitarne lo sfruttamento da parte della classe possidente.

Cortina di fumo conveniente

Ma questo non è tutto. Essa causa le altre forme di alienazione che non sono strettamente economiche, ma che sono organicamente collegate ad essa. È importante notare che il razzismo e la religione tendono a elevare la cultura e le altre virtù della classe dominante; e denigrano quella dell’oppresso. Ma il carattere di classe di questa dominazione diventa particolarmente difficile da smascherare se la classe oppressiva ha uno sfondo razziale differente dagli oppressi, come fu la situazione durante i giorni inebrianti dell’apartheid e del colonialismo. La pigmentazione della pelle e le altre caratteristiche fisiche sussumono la dimensione di classe del problema, e lo sfruttamento è visto attraverso il binocolo della razza. Una persona perciò sviluppa un complesso di superiorità o d’inferiorità, che dipende dalle proprie caratteristiche fisiche; e la conclusione fondamentale che lo sfruttamento di classe sia confuso. Date queste circostanze il razzismo diventa una conveniente cortina di fumo con la quale la classe dominante maschera il suo sfruttamento del lavoro. Alla fine l’attenzione della classe lavoratrice è distolta dalle reali cause della sua situazione imbarazzante; e una parte di essa diventa uno strumento elastico della classe dominante nel suo tentativo di trincerare il sistema capitalistico.

L’effetto su quella parte della classe lavoratrice che non condivide caratteristiche fisiche simili con la classe possidente è quello di rifiutare se stessa come differente dalla classe dominante. Essa identifica e condivide le convinzioni, le dottrine e gli altri atteggiamenti della classe dominante che la opprime. Il senso di colpa e un complesso d’inferiorità promossi dalla classe dominante e assorbiti dagli oppressi diventano il risultato di questo processo. Di conseguenza il tentativo di sfuggire a questa inferiorità negando e condannando se stesso diventa una lotta che dura tutta la vita.

Consideriamo questo per un momento. È importante notare che per molti cristiani, l’individuo tradizionale africano religioso è superstizioso e venera idoli e diversi dèi; c’è soltanto un Dio, benché abbia un figlio generato dallo Spirito Santo. Questo dio è bianco, i suoi angeli sono bianchi; e quando i salvati finalmente vanno in paradiso, indosseranno lunghe vesti bianche di purezza. Ma il demonio è nero; i suoi angeli sono neri; il peccato stesso è nero e quando i peccaminosi vanno all’inferno, saranno bruciati con il carbone nero. È sorprendente che i convertiti africani cantino nel supplichevole terrore: “Lavami redentore, e devo essere più bianco della neve?” E ci si stupisce se alcuni africani comprano creme sbiancanti per illuminarsi le loro pelli scure? È sorprendente anche che le cosiddette donne educate e illuminate spesso comprino parrucche rosse, bionde o brune per nascondere i loro capelli neri o spendano ore nei saloni per le acconciature nel provare a rendere i loro capelli ricci e lunghi?

La religione cristiana perfino nega agli africani il diritto al loro nome. Un nome è un semplice simbolo d’identità. Ma al convertito africano sarebbe normalmente richiesto di rinunciare al suo nome africano e di ricevere un buon nome cristiano come Smith, Verwoerd, Robert, James, Julius, Ironmonger, Winterbotham, Elizabeth, Summer, Winter e qualche volta Autumn. Questa faccenda del ricevere nuovi nomi ha la sua origine nei rapporti della proprietà di schiavitù, dove la persona fatta schiava era di proprietà del possessore e quindi sistemata e usata come il padrone credeva conveniente. Così gli schiavi venivano marchiati con il nome del padrone.

La stessa storia è vera nell’arte, nella danza, nella musica, nel teatro eccetera, ma l’obiettivo finale nella società di classe è uno – controllare le forze produttive e appropriarsi del surplus economico senza tener conto della razza o della tribù degli sfruttatori. Il controllo economico comunque è molto più difficile da ottenere senza il controllo politico. Il controllo politico è perciò istituito attraverso governi di delega. Perfino quindi il sistema vampiro trova che il controllo economico e politico sia incompleto senza il controllo culturale e quindi ideologico. Perciò il sistema impiega la religione e le teorie contraffatte come il razzismo per assicurare la castrazione mentale del lavoratore, sia egli europeo, asiatico o africano.

Agosto 2002, Ghana

(Traduzione da www.worldsocialism.org)

Il socialismo funzionerà

I socialisti sono per l’istituzione di un sistema sociale fondamentalmente differente da quello che esiste oggi. In una società socialista i mezzi di produzione e di distribuzione della ricchezza – i terreni, le fabbriche, le fattorie, le miniere, i bacini, gli uffici, i mezzi di trasporto – apparterranno all’intera comunità. La proprietà comune sopprimerà il bisogno dello scambio, cosicché il denaro non avrà impiego.

La produzione nel socialismo sarà determinata dalle persone sulla base del bisogno sociale, non del profitto. Attualmente le persone possono aver bisogno di beni ma, se non possono permettersi di comprarli, devono farne a meno. La produzione è messa in atto per vendere con lo scopo di fare profitto. Socialismo significa produzione soltanto per l’uso: il pane per mangiare, le case per viverci dentro, i vestiti per vestirsi.

Quale sarà l’incentivo a lavorare in una società socialista? Non ci saranno le retribuzioni, perciò in una società senza classi nessuna persona avrà il diritto di comprare la capacità di un’altra persona di lavorare per un prezzo. Il lavoro nella società socialista dipenderà dalla cooperazione e dalle decisioni volontarie degli uomini e delle donne di contribuire alla società per mantenerla funzionante. Come un individuo non potrebbe sopravvivere se non mangiasse, non bevesse o non ricevesse le cure sanitarie necessarie, così una società socialista non sopravvivrebbe se la gente in essa non agisse cooperativamente in uno spirito di reciprocità.

Il socialismo non sarà un’Utopia dove tutti i problemi dell’esistenza saranno scoparsi. Il lavoro sgradevole dovrà ancora essere fatto. Certamente, molto del lavoro sporco del sistema del profitto, come uccidere, truffare e dare più valore alle banconote che alle persone, sarà eliminato con immediatezza in una società socialista. L’altro lavoro non attraente potrebbe essere preso in cura dalle macchine che fanno risparmiare lavoro e fatica. Dove il lavoro sporco dovrà essere fatto nella società socialista possiamo essere del tutto sicuri di due cose: innanzitutto, non sarà fatto dalle stesse persone tutto il tempo – i membri della società faranno dei turni; in secondo luogo, tale lavoro sarà effettuato da uomini e donne socialmente consapevoli che apprezzeranno il fatto che la società apparterrà a loro e perciò i suoi compiti meno piacevoli dovranno essere eseguiti da loro. Con la consapevolezza che possediamo e controlliamo la terra, e tutto ciò che vi è dentro e sopra di essa, è improbabile che gli esseri umani si rifiuteranno di occuparsi del lavoro sporco nel socialismo.

Che dire riguardo alle persone pigre in una società socialista? I critici della proposta socialista spesso ci dicono che il socialismo si troverebbe di fronte milioni di uomini e donne che si rifiuterebbero di fare il loro poco per fare in modo che la società funzioni efficientemente. Effettivamente, la società socialista conterrà milioni di bambini e minorenni che non potranno lavorare nelle miniere o mungere le vacche; ma, con la ragionevole consapevolezza che queste persone dipendenti saranno i fornitori di domani, non pensiamo che gli abitanti del socialismo lasceranno i bambini morire di fame. Attualmente ogni anno quindici milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono di fame – una società basata sulla produzione per l’uso non tollererebbe tale oscenità. Ci saranno quelli nella società socialista che saranno troppo vecchi, troppo malati o troppo incapaci per offrire molto alla società; ma essi non sono pigri e non c’è alcuna ragione per cui la società non dovrebbe permettergli di dare secondo le loro varie capacità e di prendere secondo i loro differenti bisogni. E se uno che contribuisce di meno prendesse di più, perché ciò dovrebbe essere un problema in una società che è basata sulla soddisfazione dei bisogni? Quelle persone che vivranno in una società socialista e che saranno troppo apatiche per lavorare non costituiranno uno scolo sulle risorse della società molto a lungo, in quanto se mentiranno nel letto piuttosto a lungo moriranno – di noia, se non d’inerzia.

Ma non è per caso che, data una società di accesso senza limitazioni alla ricchezza sociale, l’ingordigia umana porterà la gente a consumare tutta la ricchezza della società in un mese? Questo è il “problema” previsto dai critici del socialismo. Tanto per cominciare, la loro predizione è basata sul falso presupposto che il socialismo sarebbe una società di sola consumazione, mentre ovviamente sarebbe una società dove ciò che è consumato dovrebbe essere confrontato con ciò che è prodotto. Perciò, se la gente nel socialismo decide di fare dieci pasti al giorno – come i nostri critici sembrano temere – ci dovrà essere il provvedimento eseguito per produrre abbastanza cibo per soddisfare tale malsana ghiottoneria. Certamente, nei casi dove le persone vorranno ciò che la società non è in grado di produrre, o ha deciso democraticamente di non produrre, la loro consumazione dovrà essere limitata. Queste potrebbero essere cattive notizie per gli utopisti ma, per i lavoratori e le lavoratrici che sono generalmente privati di ciò di cui hanno bisogno (non perché la società non può soddisfare il bisogno o perché ha deciso democraticamente di non farlo, ma perché non è redditizio fare in questo modo) l’idea della produzione democraticamente organizzata per l’uso è infinitamente preferibile alla presente sistemazione sociale. Per esempio, le migliaia di pensionati che sono morti d’ipotermia probabilmente non avrebbero rifiutato la proposta socialista perché non avrebbe permesso loro di fare dieci pasti al giorno; per lo meno una società basata sulla produzione per i bisogni assicurerà che nessuno non sia in grado di avere accesso al calore.

Ma che dire a riguardo di questa ingordigia? Il critico dell’idea socialista è giustamente preoccupato che in una società di libero accesso, la gente prenderà più di quello di cui ha bisogno. Ora è piuttosto vero che se i grandi magazzini fossero aperti oggi e i lavoratori fossero invitati ad andarci e prendere quanto vogliono senza dover pagare, ci sarebbe una ressa impazzita e i magazzini verrebbero svuotati entro un giorno. Ma perché questo dovrebbe essere il caso se i grandi magazzini fossero sempre aperti per il libero accesso? Sarebbe strano veramente per gli abitanti del socialismo fare provvista di dozzine di pagnotte, che invecchierebbero prima che possano essere mangiate, quando esisterebbe l’alternativa di andare al grande magazzino e prendere una nuova pagnotta ogni giorno o ogni pochi giorni. Sarebbe non meno strano per noi leggere oggi di lavoratori che fanno scorta d’acqua perché hanno paura che, quando in seguito apriranno il rubinetto, il liquido accessibile non ci sarà più per essere consumato. Forse, nell’innocenza, i primissimi abitanti del socialismo si soddisferanno con alcuni banchetti di cospicua ed eccessiva consumazione (chi sarebbe sorpreso da tale azione dopo anni di povertà e d’inferiorità sociale?), ma tali buffonerie finiranno presto quando le conseguenze fisiche di tale irrazionalità saranno avvertite.

Ma non è il caso che, anche se le classi fossero abolite e tutte le persone fossero socialmente uguali, una gerarchia presto sorgerebbe ancora e la società ritornerebbe al punto di partenza? L’oppositore del socialismo si sente convinto che l’ineguaglianza sia un fenomeno dal quale la società non può mai sfuggire. Forse – e soltanto forse – la società socialista non eliminerà le differenze di talento: una persona potrebbe continuare a essere un più grande pianista rispetto a un’altra, mentre un’altra correrà più veloce di un’altra per quanto possa mai essere stata addestrata a correre. Ma ciò non significa che il socialismo istituirà una gerarchia di pianisti, di atleti, di poeti o di chirurghi. In una società cooperativa sarà riconosciuto che i poeti non possono scrivere i loro capolavori letterari senza il minatore che è disposto a prendere il carbone da sotto la terra. L’umanità vive interdipendentemente. E chi dice che i minatori non saranno dei poeti quando non saranno giù nella miniera e che i più grandi giocatori di scacchi nel socialismo non spazzeranno le vie cosicché i più grandi chirurghi potranno camminare verso l’ospedale senza i ratti che mordono alle caviglie? La divisione rigida del lavoro, che è una caratteristica del presente sistema, non esisterà nella società socialista.

In generale, i critici della proposta socialista non stanno dicendo che sono contrari all’istituzione di un mondo socialista, come definito dai socialisti. La maggior parte di loro sta levando delle obiezioni al socialismo che riflettono il loro condizionamento dal presente ordine sociale. I “problemi” che temono sono basati sulla premessa sbagliata, che il socialismo stia avanzando per essere imposto sulle condizioni del capitalismo, includendo la coscienza che appoggia il sistema. Certamente, una maggioranza di persone le cui menti sono ancora riempite d’idee e di pregiudizi del sistema del profitto non potrebbe mai mettere in azione il socialismo. Ecco perché il Movimento Socialista Mondiale specifica enfaticamente che non ci può essere nessuna società socialista finché una maggioranza di lavoratori non la comprende e non la vuole. Occorre che i timori infondati delle critiche del socialismo diventino assurdi quanto i pittoreschi vecchi timori dei vittoriani secondo i quali l’elettricità in tutte le case avrebbe dovuto condurre a pericoli che la società non sarebbe stata in grado di trattare. Sì, il futuro appare sempre strano quando le menti della gente sono imprigionate nel passato, ma più abbiamo vicina la prossima tappa nello sviluppo sociale meno strana diventa l’idea della produzione per il bisogno.

Ci sono migliaia di lavoratori che stanno andando in giro con idee nelle loro menti che sono vicine o identiche a quelle difese dai socialisti; come quel numero cresce, e come essi vengono a sapere del movimento politico consapevole per il socialismo, i dubbi delle critiche crescono più fiacchi e più assurdi e ciò che una volta sembrava inconcepibile sale al primo posto nell’agenda della storia.

(Traduzione da www.worldsocialism.org)

venerdì 24 dicembre 2010

I limiti delle riforme

di Paul Mattick

Per quanto possa essere riformabile, il capitalismo non può alterare, senza eliminare se stesso, i rapporti fondamentali tra salario e profitto che lo caratterizzano. L’età delle riforme è un’età di spontanea espansione del capitale, caratterizzata da una crescita non proporzionale ma simultanea dei salari e dei profitti; un’età nella quale, per la borghesia, le concessioni fatte al proletariato sono più tollerabili delle perturbazioni della lotta di classe, che altrimenti accompagnerebbero lo sviluppo del capitalismo. Come classe, la borghesia non favorisce salari minimi e condizioni di lavoro intollerabili, anche se ogni capitalista, per il quale il lavoro è un costo di produzione, cerca di ridurre al massimo questa spesa. Non c’è alcun dubbio sul fatto che la borghesia preferisca una classe lavoratrice soddisfatta piuttosto che insoddisfatta e la stabilità sociale all’instabilità. In effetti, essa considera il miglioramento generale dei livelli di vita come una sua realizzazione e come la giustificazione del suo dominio di classe. A dire il vero, il benessere relativo dei lavoratori non deve essere eccessivo, poiché deve esistere sempre una dipendenza continua dal lavoro salariato.
Tuttavia, pur all’interno di questi limiti, la borghesia non ha alcun’inclinazione soggettiva a ridurre i lavoratori al più basso stadio d’esistenza, anche quando ciò potesse essere oggettivamente possibile attraverso adeguate misure di repressione. Mentre le inclinazioni e le azioni dei lavoratori sono determinate dalla loro dipendenza dal lavoro salariato, quelle della borghesia sono radicate nella necessità di fare profitti e accumulare capitale, indipendentemente dalle loro differenti propensioni ideologiche e psicologiche.

Le limitate riforme possibili all’interno del sistema capitalistico diventano le abituali condizioni
d’esistenza per chi ne è interessato e non possono essere annullate facilmente. In presenza di un basso tasso d’accumulazione, esse diventano un ostacolo per la produzione di profitto, il cui superamento richiede un eccezionale incremento dello sfruttamento del lavoro. D’altra parte, anche periodi di depressione comportano riforme di vario genere, se non altro per resistere alla minaccia di pericolose agitazioni sociali. Appena attuate, tendono a consolidarsi e devono essere compensate da una crescita corrispondentemente maggiore della produttività del lavoro. Naturalmente saranno fatti degli sforzi, alcuni con successo, per ridimensionare ciò che è stato ottenuto per mezzo della legislazione sociale e grazie al miglioramento dei livelli di vita, allo scopo di ristabilire la necessaria redditività del capitale. Alcune conquiste rimarranno comunque, durante i periodi di depressione che di prosperità, con il risultato di un generale miglioramento delle condizioni dei lavoratori nel corso del tempo.

Per i lavoratori vivere alla giornata non rendeva agevole la lotta per salari più alti e migliori
condizioni di lavoro, infatti erano spinti ad agire solo per le brutali provocazioni dei loro datori di lavoro, essendo un male minore rispetto ad uno stato di completa miseria. Consapevole della dipendenza dei lavoratori dal salario giornaliero, la borghesia rispondeva alle loro ribellioni con le serrate, come il mezzo più efficace per imporre la sua volontà. I profitti persi possono essere riguadagnati, mentre i salari no. Tuttavia, la formazione di sindacati e la costituzione di fondi per gli scioperi cambiarono, in qualche misura, questa situazione a favore dei lavoratori, anche se non sempre consentirono di superare una certa riluttanza a ricorrere all’arma dello sciopero. Inoltre, per i capitalisti, la volontà di opporsi alle richieste dei lavoratori diminuiva con la perdita sempre maggiore di profitti su di un capitale accresciuto ma inutilizzato. Con un sufficiente incremento della produttività, le concessioni che venivano fatte ai lavoratori potevano risultare più redditizie della loro negazione. La graduale eliminazione della concorrenza spietata attraverso la monopolizzazione, nonché in generale la crescente organizzazione della produzione capitalistica, comportarono una regolazione del mercato del lavoro. La contrattazione collettiva sui salari e sulle condizioni di lavoro eliminò in qualche misura gli elementi di spontaneità ed incertezza nei conflitti tra capitale e lavoro. L’autodifesa sporadica dei lavoratori lasciò il posto ad un confronto più ordinato e ad una maggiore “razionalità” nelle relazioni capitale-lavoro. I rappresentanti sindacali dei lavoratori diventarono i manager del mercato del lavoro, nello stesso modo in cui i loro rappresentanti politici nel parlamento della democrazia borghese si occupavano dei loro interessi sociali più rilevanti.

Lentamente, ma inarrestabilmente, il controllo sulle organizzazioni del proletariato sfuggì dalle
mani della base e fu centralizzato in quello dei sindacalisti di professione, il cui potere si basava su di un’organizzazione gerarchica e burocratica, il cui funzionamento, pena la distruzione della stessa organizzazione, non poteva più essere determinato dai suoi membri. L’accettazione di questo stato di fatto da parte dei lavoratori richiedeva naturalmente che le attività delle “loro” organizzazioni fornissero qualche beneficio tangibile, che fosse associato col potere crescente delle organizzazioni e con il loro particolare sviluppo strutturale. Era la leadership centralizzata che determinava ora il carattere della lotta di classe come lotta per i salari e per obiettivi politici limitati, che avessero qualche possibilità d’essere realizzati nell’ambito del sistema capitalistico.

Le differenti fasi di sviluppo della produzione capitalistica nei diversi paesi, così come i diversi
tassi d’espansione delle particolari industrie in ogni nazione, si riflettevano nell’eterogeneità dei tassi salariali e delle condizioni di lavoro, che determinavano una suddivisione all’interno della classe operaia, incoraggiando specifici interessi di gruppo a scapito degli interessi generali del proletariato. Di questi ci si sarebbe occupati, presumibilmente, attraverso l’attività politica socialista, e dove tale attività non fosse ancora possibile – o perché la borghesia aveva già occupato l’intera sfera politica attraverso il completo controllo della macchina statale, come nei paesi anglosassoni, o perché i regimi autocratici precludevano qualunque partecipazione all’attività politica, come nelle nazioni orientali capitalisticamente sottosviluppate – l’unica possibilità era la lotta economica che, mentre unificava alcuni strati del proletariato, provocava una divisione al suo interno, vanificando così lo sviluppo di una coscienza di classe.

La rottura della potenziale unità dei lavoratori per mezzo delle differenze salariali, sia nazionali
sia internazionali, non fu il risultato di una cosciente applicazione del vecchio principio di dividere e governare, così da rendere sicuro il predominio della minoranza borghese, ma il risultato dei rapporti tra domanda e offerta sul mercato del lavoro determinati dalla dinamica della produzione e dell’accumulazione del capitale. I lavoratori con occupazioni privilegiate da questo trend cercavano di mantenere le proprie prerogative attraverso la loro monopolizzazione, così da restringere l’offerta di lavoro in particolari settori, non solo a detrimento dei capitalisti loro avversari ma anche nei confronti della gran massa di lavoratori non specializzati che operavano in condizioni più competitive. I sindacati, considerati un tempo strumenti per lo sviluppo di una coscienza di classe, divennero organizzazioni preoccupate solo dei loro particolari interessi, determinati dalla divisione capitalistica del lavoro e dai suoi effetti sul mercato del lavoro. Col passare del tempo, naturalmente, le organizzazioni di categoria furono soppiantate dai sindacati industriali, che incorporavano parecchie categorie e unificavano la manodopera specializzata e non specializzata, ma solo per riprodurre su una base organizzativa allargata le aspirazioni strettamente economiche degli iscritti. In aggiunta alle differenze salariali, caratteristica generale del sistema, la discriminazione salariale fu (ed è) praticata in maniera diffusa anche da singole aziende e dalle industrie allo scopo di rompere l’omogeneità della loro forza-lavoro e indebolirne la capacità di condurre azioni comuni. Le discriminazioni possono essere basate sul sesso, la razza o la nazionalità, secondo le particolarità di un dato mercato del lavoro. Persistenti pregiudizi, associati all’ideologia dominante, sono così utilizzati per indebolire la solidarietà dei lavoratori e con essa il loro potere di contrattazione. In teoria, è irrilevante per i capitalisti a quale razza o nazionalità particolari appartenga la loro forza-lavoro, purché la sua abilità e propensione a lavorare non cada al di sotto della media, ma in pratica una forza-lavoro diversificata con retribuzioni differenti (o anche uguali) produce o accentua i già esistenti antagonismi razziali o nazionali, indebolendo la crescita di una coscienza di classe. Per esempio, riservando la paga migliore o il lavoro meno sgradevole ad una razza o nazionalità favorite, un gruppo di lavoratori è messo in competizione con altri, a detrimento di tutti. Come la competizione generale sul mercato del lavoro , così le discriminazioni fanno abbassare il saggio generale del salario e incrementano la redditività del capitale. Il loro utilizzo è tanto vecchio quanto lo stesso capitalismo. La storia del proletariato è anche la storia della competizione e della discriminazione all’interno di questa classe, che ha diviso i lavoratori irlandesi dai britannici, gli algerini dai francesi, i neri dai bianchi, i nuovi immigrati dai primi colonizzatori e così via, pressoché dappertutto.

Sebbene questa sia una conseguenza della grande diffusione del nazionalismo borghese e del
razzismo dietro sollecitazione dell’imperativo imperialistico, ciò influenza i lavoratori non solo ideologicamente ma anche attraverso la competizione sul mercato del lavoro. Tutto ciò rafforza, della lotta di classe, gli elementi che dividono rispetto a quelli unificanti e contrasta le implicazioni rivoluzionarie della coscienza di classe. Ad ogni modo, ciò porta all’interno del proletariato le stratificazioni sociali del capitalismo. Le sue lotte economiche e le sue organizzazioni sono destinate a servire particolari gruppi di lavoratori, senza alcun riguardo per gli interessi generali di classe, e i confronti tra lavoro e capitale restano necessariamente interni alla struttura del mercato e dei rapporti di prezzo.

Differenze salariali di ampia portata comportano differenti livelli di vita ed è attraverso questi,
non per il lavoro svolto, che i lavoratori giudicano il loro status nella società capitalistica. Se possono permettersi di vivere come la piccola borghesia o quasi, tenderanno a sentirsi più simili a questa classe che al proletariato. Sebbene i lavoratori salariati possano sottrarsi alla loro collocazione di classe solo attraverso l’eliminazione di tutte le classi, singoli lavoratori cercheranno di separarsi dalla loro classe per entrare in un’altra, oppure adottare lo stile di vita della classe media. Un capitalismo in espansione offre qualche possibilità di miglioramento sociale, così come getta nel proletariato individui della classe dominante o media; ma tali spostamenti individuali non influenzano la struttura classista della società, essi producono solo l’illusione di un’eguaglianza delle opportunità, che serve come argomento contro la critica all’immutabile struttura di classe nella produzione capitalistica.

In tempi di prosperità e per l’aumento del numero di famiglie con più redditi, i lavoratori meglio
pagati possono risparmiare una parte delle loro entrate e così percepire interessi, oltre che ricevere salari dal loro lavoro. Ciò fa sorgere l’illusione di un graduale disfacimento della determinazione di classe nel meccanismo di distribuzione del reddito nazionale, giacché i lavoratori vi partecipano non solo come percettori di salario ma anche come beneficiari d’interessi provenienti dal plusvalore, o anche come azionisti nella forma di dividendi. Qualunque cosa questo può significare in termini di coscienza di classe per chi ne è avvantaggiato, è abbastanza insignificante da un punto di vista sociale, poiché non influenza i rapporti fondamentali tra valore e plusvalore, salari e profitti. Ciò significa soltanto che alcuni lavoratori ottengono un incremento del loro reddito dal profitto e dagli interessi prodotti dalla classe lavoratrice. Mentre tutto questo può influenzare la distribuzione del reddito tra i lavoratori, accentuando le già esistenti differenze salariali, non influenza in alcun modo la divisione sociale in salari e profitti, rappresentata dal saggio di sfruttamento e dall’accumulazione di capitale. Il saggio del profitto rimane lo stesso, qualsiasi sia la parte della massa del profitto che può raggiungere alcuni lavoratori attraverso i loro risparmi. Il numero di azioni possedute dai lavoratori non è noto, ma a giudicare dal numero degli azionisti in ogni singolo paese e dai prevalenti saggi medi salariali, dovrebbe essere trascurabile. L’interesse sui risparmi, come parte del profitto, è compensato naturalmente dal fatto che mentre alcuni lavoratori risparmiano, altri ottengono dei prestiti, così l’interesse aumenta ma riduce anche i salari. Con la crescita del credito al consumo, è più probabile che, nel complesso, l’interesse ricevuto da alcuni lavoratori sia più che compensato dall’interesse pagato da altri.

Poiché il proletariato non è omogeneo al suo interno riguardo alla distribuzione del reddito, ma lo
è solo rispetto alla sua posizione nel quadro dei rapporti di produzione, i lavoratori salariati sono propensi a prestare più attenzione alle loro immediate necessità ed opportunità economiche che agli stessi rapporti di produzione, i quali, comunque, appaiono incrollabili in un capitalismo in ascesa. I loro interessi economici, naturalmente, riguardano non solo i privilegi goduti da speciali strati della classe lavoratrice, ma anche il bisogno generale della gran massa dei lavoratori di mantenere, o aumentare, il loro livello di vita. Salari più alti e migliori condizioni di vita presuppongono una crescita dello sfruttamento, ossia la riduzione del valore della forza-lavoro, assicurando così la riproduzione della lotta di classe nel quadro del processo di accumulazione. E’ l’oggettiva possibilità di quest’ultimo che vanifica la lotta economica dei lavoratori come mezzo per lo sviluppo di una coscienza di classe rivoluzionaria. Non c’è alcuna prova che i conflitti di lavoro degli ultimi cento anni abbiano reso il proletariato rivoluzionario, nel senso di un desiderio crescente di liberarsi del sistema capitalistico. In tutti i paesi capitalistici la tipologia degli scioperi varia col ciclo economico, ossia il numero degli scioperi e dei lavoratori che vi partecipano diminuisce in periodi di depressione e cresce ad ogni ripresa dell’attività economica. E’ l’accumulazione di capitale, non la sua mancanza, che provoca l’attivismo dei lavoratori nelle loro lotte salariali e nelle loro organizzazioni.

Ovviamente, una seria contrazione dell’attività economica, che riduce il numero totale dei
lavoratori, riduce anche le ore di lavoro perdute in scioperi e serrate, non solo per il numero minore di lavoratori occupati, ma anche a causa della loro maggiore riluttanza a scioperare, nonostante condizioni di lavoro in via di peggioramento. I sindacati, parimenti, decadono non solo a causa della crescente disoccupazione, ma anche perché sono meno capaci, o non lo sono per nulla, di procurare ai lavoratori benefici sufficienti a garantire la loro esistenza. Tanto in tempi di depressione quanto di prosperità, i conflitti continui tra lavoro e capitale non hanno condotto ad una radicalizzazione politica della classe lavoratrice, ma ad un’accentuata preoccupazione per migliori accomodamenti all’interno del sistema capitalistico. I disoccupati rivendicano il “loro diritto al lavoro” e non l’abolizione del lavoro salariato, mentre quelli ancora occupati dimostrano d’essere propensi ad accettare parecchi sacrifici pur di arrestare il declino dell’economia capitalistica. La retorica delle organizzazioni dei lavoratori esistenti o di quelle fondate recentemente è diventata senza dubbio più minacciosa, ma le loro rivendicazioni concrete, realizzabili o no, sono andate nella direzione di un migliore funzionamento del capitalismo e non della sua abolizione.

Ogni sciopero, inoltre, o è un fenomeno localizzato, che coinvolge un numero limitato di
lavoratori, o una lotta che interessa tutta l’industria, estesa a varie località, che coinvolge perciò un grande numero di lavoratori. In entrambi i casi, riguarda solo interessi particolari, condizionati nel tempo, di piccoli settori della classe lavoratrice e raramente influenza in maniera significativa l’intera società. Ogni sciopero deve finire nella sconfitta di una delle due parti in conflitto, o in un compromesso conveniente ad entrambe; in ogni caso, deve consentire che le imprese capitalistiche mantengano un grado sufficiente di redditività per produrre ed espandersi. Gli scioperi che conducono al fallimento delle imprese vanificherebbero anche gli obiettivi stessi dei lavoratori, obiettivi che presuppongono l’esistenza dei loro datori di lavoro. L’arma dello sciopero come tale è di natura riformistica, essa potrebbe diventare uno strumento rivoluzionario solo attraverso la sua generalizzazione ed estensione all’intera società. Fu per questa ragione che il sindacalismo rivoluzionario sostenne lo sciopero generale come leva per rovesciare la società capitalistica, ed è per la stessa ragione che il movimento operaio riformista si oppone allo sciopero generale, eccetto come un mezzo straordinario e politicamente controllato per salvaguardare la propria esistenza (1).
Forse l’unico sciopero generale nazionale che abbia avuto un completo successo fu quello voluto dallo stesso governo tedesco per sconfiggere il reazionario Putsch di Kapp del 1920.

Sempre che uno sciopero di massa non si trasformi in una guerra civile ed in una lotta per il
potere politico, presto o tardi esso è destinato a finire non appena i lavoratori conseguono o no le loro rivendicazioni. Ci si aspettava, naturalmente, che le situazioni critiche causate da tali scioperi, e con esse le reazioni da parte del capitale e del suo stato, avrebbero condotto al crescente riconoscimento dell’incolmabile antagonismo tra lavoro e capitale, così da rendere i lavoratori sempre più sensibili all’idea del socialismo. Questa non era un’assunzione irragionevole, ma non è stata confermata dal corso degli eventi che si sono verificati. Senza dubbio, il subbuglio procurato da uno sciopero porta con se un’acuita consapevolezza del vero significato di una società di classe e della sua natura sfruttatrice, ma questo, di per sé, non cambia la realtà delle cose.. La situazione eccezionale degenera di nuovo nella routine della vita quotidiana e dei suoi bisogni immediati; la coscienza di classe che si era ridestata, si trasforma di nuovo in apatia e in una sottomissione allo stato delle cose presenti.

La lotta di classe coinvolge la borghesia non meno dei lavoratori, perciò non basterà considerare
solo questi ultimi, riguardo allo sviluppo della loro coscienza. L’ideologia borghese dominante sarà riformulata e notevolmente modificata per neutralizzare i cambiamenti che si possono avvertire negli atteggiamenti e nelle aspirazioni dei lavoratori. L’iniziale aperto disprezzo che la borghesia nutre verso i lavoratori lascia spazio ad un’evidente preoccupazione per il loro benessere e al riconoscimento del loro contributo alla “qualità della vita sociale”; per cui la borghesia fa qualche concessione che in precedenza le veniva imposta attraverso le azioni indipendenti dei lavoratori. La collaborazione è fatta apparire vantaggiosa per tutte le classi, come la via verso armoniose relazioni sociali.

La più importante di tutte le riforme compiute dal capitalismo fu naturalmente rappresentata
dall’ascesa dello stesso movimento operaio. La continua estensione del diritto di voto fino ad interessare l’intera popolazione adulta, nonché la legalizzazione e la tutela dell’attività sindacale, integrarono il movimento operaio nelle strutture di mercato e nelle istituzioni politiche della società borghese. Il movimento operaio divenne da allora parte integrante del sistema, a condizione che questo si conservasse, e così sembrava, proprio per la capacità del sistema stesso di mitigare le contraddizioni di classe per mezzo delle riforme. Peraltro, queste riforme presupponevano condizioni economiche stabili ed uno sviluppo ordinato, che si potevano realizzare attraverso una crescente organizzazione sociale, di cui le stesse riforme erano parte integrante. Naturalmente questa possibilità era stata negata dalla teoria marxiana, sicché la giustificazione di una coerente politica riformista richiese l’abbandono di quella teoria. Dentro il movimento operaio, i revisionisti si convinsero che, contrariamente a quanto pensava Marx, l’economia capitalistica non avesse una tendenza insita al collasso, mentre i sostenitori della teoria marxiana insistevano sulle limitazioni oggettive del sistema. Tuttavia, rispetto alla situazione determinatasi, anche questi ultimi non avevano altra scelta che lottare per le riforme economiche e politiche, differenziandosi dai revisionisti per via dell’assunto che, a causa dei limiti oggettivi del capitalismo, la lotta per le riforme avrebbe avuto significati differenti secondo i momenti in cui veniva condotta. In quest’ottica , era possibile intraprendere la lotta di classe sia nei parlamenti sia nelle strade, non solo attraverso i partiti politici ed i sindacati, ma anche con i lavoratori non organizzati. La base legale conquistata nella democrazia borghese doveva essere garantita mediante le azioni dirette delle masse nella loro lotta salariale, e si supponeva che le attività parlamentari dovessero sostenere questi sforzi. Mentre ciò non avrebbe avuto alcun’implicazione rivoluzionaria in periodi di prosperità, la situazione sarebbe cambiata in periodi di crisi, particolarmente in una fase discendente del capitalismo. Poiché il capitalismo trova un ostacolo solo in se stesso, la lotta per le riforme si sarebbe trasformata in una lotta rivoluzionaria appena la borghesia non fosse stata più in grado di fare concessioni ai lavoratori.

Proprio come i capitalisti (tranne qualche eccezione) non sono economisti, ma uomini d’affari,
anche i lavoratori non sono interessati alla teoria economica. Indipendentemente dalla questione se il capitalismo è destinato o no a crollare, i lavoratori devono badare ai loro bisogni immediati attraverso le lotte salariali, onde difendere o migliorare i loro livelli di vita. Se sono convinti della necessità del declino e della caduta del capitalismo, ciò accade perché già aderiscono all’ideologia socialista, anche se probabilmente non sono in grado di dimostrare “scientificamente” il loro punto di vista. Per la verità, è duro immaginare che un sistema sociale come il capitalismo possa durare ancora a lungo, salvo che, naturalmente, si fosse totalmente indifferenti alle condizioni anarchiche della produzione capitalistica ed alla sua completa decomposizione. Tuttavia, tale indifferenza è solo un altro termine per indicare l’individualismo borghese, il quale non è solo un’ideologia, ma anche una condizione dei rapporti di mercato come rapporti sociali. Tuttavia anche sotto quest’incantesimo, l’indifferenza dei lavoratori non impedisce loro di condurre la lotta di classe, sebbene a volte sia intrapresa solo parzialmente, a causa della violenta repressione che colpisce tutte le azioni indipendenti dei lavoratori.

Finora, il riformismo non ha portato ad una trasformazione del capitalismo in un sistema sociale più accettabile, né a rivoluzioni e neppure al socialismo; d’altra parte, potrebbe aver bisogno di rivoluzioni politiche per realizzare alcune riforme sociali. La storia recente fornisce numerosi esempi di rivoluzioni politiche che finirono col rovesciare l’odiata struttura di governo di una nazione, senza influenzare i suoi rapporti di produzione. Simili sovvertimenti rivoluzionari sostituiscono un regime dittatoriale per perseguire cambiamenti istituzionali e, implicitamente, riforme economiche. In questo caso, le rivoluzioni politiche sono una precondizione per qualunque tipo di attività riformistica e non il risultato di quest’ultima. Non si tratta di rivoluzioni socialiste nel senso marxiano, anche quando sono preminentemente iniziate e realizzate per mezzo della classe operaia, ma di attività riformiste condotte con mezzi politici più diretti.
La possibilità di un cambiamento rivoluzionario non può essere contestata, poiché ci sono state rivoluzioni politiche che hanno cambiato i rapporti di produzione e sostituito il governo di una classe con quello di un’altra. Le rivoluzioni borghesi assicurarono il trionfo della classe media e del modo di produzione capitalistico; una rivoluzione proletaria – ossia una rivoluzione per eliminare ogni rapporto di classe nel processo di produzione sociale – non è finora avvenuta, sebbene siano stati fatti tentativi in questa direzione, all’interno e all’esterno del sistema politico borghese. Mentre la riforma sociale è un surrogato della rivoluzione e questa può dissolversi in pure e semplici riforme capitalistiche, come in niente, una rivoluzione proletaria può solo vincere o perdere. Essa non può basarsi su alcun genere di compromesso di classe, poiché il suo compito è di eliminare ogni rapporto di classe. Conseguentemente, troverà tutte le altre classi schierate contro i tentativi di realizzare i propri obiettivi socialisti. E’ questo carattere speciale della rivoluzione proletaria che spiega le difficoltà eccezionali che incontra sul suo percorso.

(1) Nel suo libro In Place of Fear (New York, 1952, pp. 21-23), Aneurin Bevan riferisce che nel 1919 – quando i sindacati britannici minacciarono uno sciopero nazionale – l’allora primo ministro David Lloyd Gorge disse ai leader sindacali che dovevano essere consapevoli di tutte le conseguenze di una simile azione, perché “se nello stato sorge una forza più forte dello stato stesso, allora essa deve essere pronta ad assumerne le funzioni, o a ritirarsi e accettare l’autorità dello stato.” Da quel momento in poi”, disse un leader sindacale, “noi sapemmo d’essere sconfitti.” Dopo di ciò, continua Bevan, “lo sciopero generale del 1926 fu veramente una delusione. Nel 1926 i leader sindacali non si resero conto delle implicazioni rivoluzionarie di un’azione diretta su una tale scala, né erano ansiosi di farlo … Non fu tanto il potere coercitivo dello stato che limitò il pieno uso del potere dei lavoratori dell’industria …
I lavoratori e i loro leader indugiarono anche quando il loro potere coercitivo era più grande di quello dello stato. L’opportunità di impadronirsi del potere non è sufficiente quando la volontà di conquistarlo è assente, e quella volontà è conseguente all’atteggiamento tradizionalmente tenuto dal popolo verso quelle istituzioni politiche che fanno parte della loro eredità storica.”
Questo può essere vero, ma per la verità, in questo caso particolare, non fu l’atteggiamento dei lavoratori riguardo alla loro eredità storica, ma semplicemente la sottomissione alle loro organizzazioni e alle loro leadership che permise a queste ultime di sospendere lo sciopero generale, per il timore che esso potesse condurre ad agitazioni rivoluzionarie a causa della determinazione
apparentemente ferma del governo di interrompere lo sciopero con la forza.

(Traduzione a cura di www.countdownnet.info)

domenica 19 dicembre 2010

Marx e la filosofia

In luglio Radio BBC 4 annunciò il risultato del suo sondaggio tra i suoi ascoltatori per trovare “il più grande filosofo del nostro tempo”. E il vincitore è stato – Karl Marx, arrivato primo con il 28 percento dei circa 34.000 voti emessi, seguito dallo scozzese scettico e agnostico del XVIII secolo, David Hume, con il 13 percento, e dal logico-positivista dell’inizio del XX secolo, Ludwig Wittgenstein, con il 7 percento.

Ci deve essere qualche tipo di significato sul fatto che Marx sia stato scelto da circa 9.500 persone. Sarebbe bello pensare che sia stato un voto per l’obiettivo di Marx di una società senza proprietà privata dei mezzi di produzione, senza il denaro, sena il sistema delle retribuzioni e senza lo Stato. Più probabilmente rappresenta un riconoscimento del suo contributo all’analisi della storia e del capitalismo.

Che cosa ebbe da dire Marx riguardo alla filosofia? Di fatto, fu davvero un filosofo? Fu certamente un dottore di filosofia nel senso letterale, avendo ottenuto il suo dottorato – i sindacalisti che lo frequentarono negli anni 1860 nella Prima Internazionale lo conoscevano come “Dr Marx” – per una tesi su due antichi filosofi greci, Democrito ed Epicuro. E nei suoi primi vent’anni e tra i venti e i trenta pensò e scrisse enormemente circa i problemi filosofici, ma poi raggiunse la conclusione che il filosofeggiare astratto su “Dio”, “la natura dell’Uomo” e “il significato della vita”, su cui quasi tutti i filosofi avevano fatto congetture fino ad allora, era un esercizio alquanto inutile e lo abbandonò, all’età di 27 anni, per mai ritornarvi. Questo fu di fatto più o meno la stessa conclusione raggiunta dai due inseguitori nel sondaggio della BBC, Hume e Wittgenstein.

Ciò che sostituì tale filosofia, per Marx, fu lo studio e l’analisi empirici, ossia scientifici, della storia e della società, quello che fu noto come la concezione materialistica della storia. Strettamente parlando, questa non è veramente una filosofia ma una teoria e metodologia di una particolare scienza. Engels faticò a introdurre il termine “socialismo scientifico” ma è un’accurata descrizione del risultato dell’incontro di Marx (e del proprio) con la filosofia tedesca dei suoi giorni.

Marx arrivò al socialismo tramite la filosofia tedesca. Come molti altri tedeschi di mente radicale negli anni 1840 era stato un “Giovane Hegeliano”, il nome dato a quelli che interpretarono la filosofia di Hegel in una maniera radicale per giustificare l’istituzione di uno stato democratico e laico in Germania. Hegel stesso (che morì nel 1831) non fu un democratico radicale, anche se inizialmente accolse la Rivoluzione Francese. Proprio l’opposto. Durante gli anni 1820 fu un difensore conservatore dello Stato Prussiano, quasi un suo filosofo di Stato. E credeva che la religione Cristiana fosse vera, con tutto quello che implica in termini dell’esistenza di un dio con un piano per l’umanità e che interviene negli affari umani.

Ciò che fece appello ai radicali tedeschi nella filosofia di Hegel fu il concetto di alienazione (o qualcosa dalla sua natura, o essenza) e la visione che (fino alla fine della storia) tutte le istituzioni umane fossero transitorie e sviluppate attraverso criticismo intellettuale portando alla luce e poi trascendendo le contraddizioni nell’idea dietro di loro. Per Hegel questo era tutto in un contesto religioso (l’alienazione era l’alienazione dell’Uomo da parte di Dio e la fine della storia era la riconciliazione dell’Uomo con Dio). I Giovani Hegeliani rifiutarono tutto questo e furono molto critici sulla religione; di fatto fecero una particolarità di ciò, presentando una versione terrena del sistema di Hegel in cui l’alienazione era ancora l’alienazione dell’Uomo (con un capitale U) ma da parte della vera natura dell’Uomo, e la fine della storia era la riconciliazione dell’Uomo con la sua natura, o, come loro la chiamarono, l’emancipazione umana.

La maggior parte di loro identificarono ciò con l’istituzione di una repubblica democratica. Così fece Marx, inizialmente, ma arrivò alla conclusione che la democrazia politica, benché desiderabile come un passo avanti per la Germania, non significasse piena emancipazione umana, ma soltanto un’emancipazione parziale, “politica”; l’emancipazione “umana” poteva solamente essere realizzata con una società senza la proprietà privata, il denaro e lo stato. Cercando un agente per realizzare ciò, Marx identificò il “proletariato”, ma concepito in termini molto filosofici come un gruppo sociale che era “l’oggetto di nessuna particolare ingiustizia ma dell’ingiustizia in generale”, “la perdita completa dell’umanità e quindi può solo recuperare se stesso attraverso una completa redenzione dell’umanità”. Come scrisse alla fine del suo articolo “Introduzione a un contributo alla critica della Filosofia del diritto di Hegel” pubblicato nel febbraio del 1844: “La testa di questa emancipazione [dell’Uomo] è la filosofia, il suo cuore è il proletariato.” Questo è lo stesso articolo in cui si trova forse il suo più ben noto detto “la religione è l’oppio del popolo”, cioè, un illusorio fuggire dalle reali sofferenze. Questo fu di fatto rivolto ai suoi compagni Giovani Hegeliani che sembravano immaginare che la religione potesse essere fatta per far scomparire la sua irrazionalità soltanto con il criticismo. L’analisi della religione di Marx e di ciò che era richiesto per farla scomparire andava in profondità:

“Eliminare la religione quale illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione è dunque il germe della critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola”.

E:

“La critica della religione finisce con la dottrina che l’uomo è la più alta esistenza per l’uomo, vale a dire, con l’imperativo categorico di rovesciare tutte le circostanze in cui l’uomo è umiliato, asservito, abbandonato e disprezzato” (Tradotto da David McLellan dai Primi Testi di Karl Marx).

Questo è ancora un approccio filosofico e faceva Marx, in quel momento, un filosofo umanista. Alcuni trovano questo sufficiente, e assai lodevole (e Marx può anche aver ricevuto voti nel sondaggio della BBC su questa base), e certamente il fatto di essere socialista deve basarsi in fin dei conti sul desiderio di “rovesciare tutte le circostanze in cui l’uomo è umiliato, asservito, abbandonato e disprezzato”.

Marx stesso, tuttavia, non era soddisfatto di lasciare la causa per il socialismo poggiare su una pura teoria filosofica che procurava l’unica base sociale su cui “l’essenza dell’Uomo” poteva essere pienamente e finalmente realizzata. In seguito continuando a siglare con la sua posizione filosofica precedente, finì con il rifiutare la visione che gli esseri umani avessero delle “essenze” astratte dalle quali erano alienati. Come lo espresse in alcune note scritte in fretta nel 1845:

“L’essenza umana non è astrazione inerente a ogni singolo individuo. Nella sua realtà è l’insieme delle relazioni sociali” (Tesi su Feuerbach).

Questo lo condusse lontano dalla speculazione filosofica circa l’“essenza umana”, quello che era e come realizzarla, allo studio dei differenti “insiemi delle relazioni sociali” in cui gli esseri umani avevano vissuto e a vedere la storia non come lo sviluppo di qualche idea ma come lo sviluppo da un “insieme di relazioni sociali” a un altro in linea con lo sviluppo delle forze materiali di produzione. Ciò diede al socialismo una base molto più solida di un semplice “imperativo categorico di rovesciare tutte le circostanze in cui l’uomo è umiliato, asservito, abbandonato e disprezzato”. Lo rese la prossima tappa nello sviluppo della società umana, una tappa che doveva sia essere preparata dallo sviluppo della tappa corrente (capitalismo), che la soluzione dei problemi causati dall’inerenti contraddizioni interne del capitalismo. Mantenne come agente della sua istituzione la classe dei lavoratori retribuiti, non più considerata come una classe che personifica tutte le sofferenze dell’umanità, ma come la classe i cui interessi materiali la condurrebbero a opporsi e alla fine ad abolire il capitalismo.

Marx trattenne ancora un po’ del linguaggio e dei concetti del suo passato di Giovane Hegeliano, ma diede loro un contenuto nuovo, materialista. Quindi, per esempio, l’alienazione del “proletariato” non era più l’alienazione dalla loro essenza umana ma l’alienazione dai prodotti del loro proprio lavoro che avveniva per dominarli nella forma di capitale come personificato da una classe capitalista; e “l’emancipazione dell’Uomo” divenne l’emancipazione di tutta l’umanità attraverso l’abolizione delle classi e del governo di classe da parte della classe lavoratrice mondiale inseguendo il suo interesse materiale; e ancora si riferì alla fine del capitalismo come la conclusione de “la preistoria della società umana”. Anche l’imperativo di cambiare il mondo rimase, ma indirizzato alla classe lavoratrice piuttosto che ai filosofi. Come lo espose nel 1845 nel suo colpo d’addio alla filosofia tedesca: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo, in vari modi; si tratta però di cambiarlo” (anche dalle Tesi su Feuerbach).

(Traduzione da Socialist Standard, settembre 2005)

mercoledì 8 dicembre 2010

Imagine

Per il 30° anniversario della morte di John Lennon riproponiamo la sua bellissima e per molti versi socialista "Imagine".
Nei sottotitoli è stato fatto sicuramente un errore di traduzione: possession non significa ricchezza, bensì possesso/proprietà.