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venerdì 24 dicembre 2010

I limiti delle riforme

di Paul Mattick

Per quanto possa essere riformabile, il capitalismo non può alterare, senza eliminare se stesso, i rapporti fondamentali tra salario e profitto che lo caratterizzano. L’età delle riforme è un’età di spontanea espansione del capitale, caratterizzata da una crescita non proporzionale ma simultanea dei salari e dei profitti; un’età nella quale, per la borghesia, le concessioni fatte al proletariato sono più tollerabili delle perturbazioni della lotta di classe, che altrimenti accompagnerebbero lo sviluppo del capitalismo. Come classe, la borghesia non favorisce salari minimi e condizioni di lavoro intollerabili, anche se ogni capitalista, per il quale il lavoro è un costo di produzione, cerca di ridurre al massimo questa spesa. Non c’è alcun dubbio sul fatto che la borghesia preferisca una classe lavoratrice soddisfatta piuttosto che insoddisfatta e la stabilità sociale all’instabilità. In effetti, essa considera il miglioramento generale dei livelli di vita come una sua realizzazione e come la giustificazione del suo dominio di classe. A dire il vero, il benessere relativo dei lavoratori non deve essere eccessivo, poiché deve esistere sempre una dipendenza continua dal lavoro salariato.
Tuttavia, pur all’interno di questi limiti, la borghesia non ha alcun’inclinazione soggettiva a ridurre i lavoratori al più basso stadio d’esistenza, anche quando ciò potesse essere oggettivamente possibile attraverso adeguate misure di repressione. Mentre le inclinazioni e le azioni dei lavoratori sono determinate dalla loro dipendenza dal lavoro salariato, quelle della borghesia sono radicate nella necessità di fare profitti e accumulare capitale, indipendentemente dalle loro differenti propensioni ideologiche e psicologiche.

Le limitate riforme possibili all’interno del sistema capitalistico diventano le abituali condizioni
d’esistenza per chi ne è interessato e non possono essere annullate facilmente. In presenza di un basso tasso d’accumulazione, esse diventano un ostacolo per la produzione di profitto, il cui superamento richiede un eccezionale incremento dello sfruttamento del lavoro. D’altra parte, anche periodi di depressione comportano riforme di vario genere, se non altro per resistere alla minaccia di pericolose agitazioni sociali. Appena attuate, tendono a consolidarsi e devono essere compensate da una crescita corrispondentemente maggiore della produttività del lavoro. Naturalmente saranno fatti degli sforzi, alcuni con successo, per ridimensionare ciò che è stato ottenuto per mezzo della legislazione sociale e grazie al miglioramento dei livelli di vita, allo scopo di ristabilire la necessaria redditività del capitale. Alcune conquiste rimarranno comunque, durante i periodi di depressione che di prosperità, con il risultato di un generale miglioramento delle condizioni dei lavoratori nel corso del tempo.

Per i lavoratori vivere alla giornata non rendeva agevole la lotta per salari più alti e migliori
condizioni di lavoro, infatti erano spinti ad agire solo per le brutali provocazioni dei loro datori di lavoro, essendo un male minore rispetto ad uno stato di completa miseria. Consapevole della dipendenza dei lavoratori dal salario giornaliero, la borghesia rispondeva alle loro ribellioni con le serrate, come il mezzo più efficace per imporre la sua volontà. I profitti persi possono essere riguadagnati, mentre i salari no. Tuttavia, la formazione di sindacati e la costituzione di fondi per gli scioperi cambiarono, in qualche misura, questa situazione a favore dei lavoratori, anche se non sempre consentirono di superare una certa riluttanza a ricorrere all’arma dello sciopero. Inoltre, per i capitalisti, la volontà di opporsi alle richieste dei lavoratori diminuiva con la perdita sempre maggiore di profitti su di un capitale accresciuto ma inutilizzato. Con un sufficiente incremento della produttività, le concessioni che venivano fatte ai lavoratori potevano risultare più redditizie della loro negazione. La graduale eliminazione della concorrenza spietata attraverso la monopolizzazione, nonché in generale la crescente organizzazione della produzione capitalistica, comportarono una regolazione del mercato del lavoro. La contrattazione collettiva sui salari e sulle condizioni di lavoro eliminò in qualche misura gli elementi di spontaneità ed incertezza nei conflitti tra capitale e lavoro. L’autodifesa sporadica dei lavoratori lasciò il posto ad un confronto più ordinato e ad una maggiore “razionalità” nelle relazioni capitale-lavoro. I rappresentanti sindacali dei lavoratori diventarono i manager del mercato del lavoro, nello stesso modo in cui i loro rappresentanti politici nel parlamento della democrazia borghese si occupavano dei loro interessi sociali più rilevanti.

Lentamente, ma inarrestabilmente, il controllo sulle organizzazioni del proletariato sfuggì dalle
mani della base e fu centralizzato in quello dei sindacalisti di professione, il cui potere si basava su di un’organizzazione gerarchica e burocratica, il cui funzionamento, pena la distruzione della stessa organizzazione, non poteva più essere determinato dai suoi membri. L’accettazione di questo stato di fatto da parte dei lavoratori richiedeva naturalmente che le attività delle “loro” organizzazioni fornissero qualche beneficio tangibile, che fosse associato col potere crescente delle organizzazioni e con il loro particolare sviluppo strutturale. Era la leadership centralizzata che determinava ora il carattere della lotta di classe come lotta per i salari e per obiettivi politici limitati, che avessero qualche possibilità d’essere realizzati nell’ambito del sistema capitalistico.

Le differenti fasi di sviluppo della produzione capitalistica nei diversi paesi, così come i diversi
tassi d’espansione delle particolari industrie in ogni nazione, si riflettevano nell’eterogeneità dei tassi salariali e delle condizioni di lavoro, che determinavano una suddivisione all’interno della classe operaia, incoraggiando specifici interessi di gruppo a scapito degli interessi generali del proletariato. Di questi ci si sarebbe occupati, presumibilmente, attraverso l’attività politica socialista, e dove tale attività non fosse ancora possibile – o perché la borghesia aveva già occupato l’intera sfera politica attraverso il completo controllo della macchina statale, come nei paesi anglosassoni, o perché i regimi autocratici precludevano qualunque partecipazione all’attività politica, come nelle nazioni orientali capitalisticamente sottosviluppate – l’unica possibilità era la lotta economica che, mentre unificava alcuni strati del proletariato, provocava una divisione al suo interno, vanificando così lo sviluppo di una coscienza di classe.

La rottura della potenziale unità dei lavoratori per mezzo delle differenze salariali, sia nazionali
sia internazionali, non fu il risultato di una cosciente applicazione del vecchio principio di dividere e governare, così da rendere sicuro il predominio della minoranza borghese, ma il risultato dei rapporti tra domanda e offerta sul mercato del lavoro determinati dalla dinamica della produzione e dell’accumulazione del capitale. I lavoratori con occupazioni privilegiate da questo trend cercavano di mantenere le proprie prerogative attraverso la loro monopolizzazione, così da restringere l’offerta di lavoro in particolari settori, non solo a detrimento dei capitalisti loro avversari ma anche nei confronti della gran massa di lavoratori non specializzati che operavano in condizioni più competitive. I sindacati, considerati un tempo strumenti per lo sviluppo di una coscienza di classe, divennero organizzazioni preoccupate solo dei loro particolari interessi, determinati dalla divisione capitalistica del lavoro e dai suoi effetti sul mercato del lavoro. Col passare del tempo, naturalmente, le organizzazioni di categoria furono soppiantate dai sindacati industriali, che incorporavano parecchie categorie e unificavano la manodopera specializzata e non specializzata, ma solo per riprodurre su una base organizzativa allargata le aspirazioni strettamente economiche degli iscritti. In aggiunta alle differenze salariali, caratteristica generale del sistema, la discriminazione salariale fu (ed è) praticata in maniera diffusa anche da singole aziende e dalle industrie allo scopo di rompere l’omogeneità della loro forza-lavoro e indebolirne la capacità di condurre azioni comuni. Le discriminazioni possono essere basate sul sesso, la razza o la nazionalità, secondo le particolarità di un dato mercato del lavoro. Persistenti pregiudizi, associati all’ideologia dominante, sono così utilizzati per indebolire la solidarietà dei lavoratori e con essa il loro potere di contrattazione. In teoria, è irrilevante per i capitalisti a quale razza o nazionalità particolari appartenga la loro forza-lavoro, purché la sua abilità e propensione a lavorare non cada al di sotto della media, ma in pratica una forza-lavoro diversificata con retribuzioni differenti (o anche uguali) produce o accentua i già esistenti antagonismi razziali o nazionali, indebolendo la crescita di una coscienza di classe. Per esempio, riservando la paga migliore o il lavoro meno sgradevole ad una razza o nazionalità favorite, un gruppo di lavoratori è messo in competizione con altri, a detrimento di tutti. Come la competizione generale sul mercato del lavoro , così le discriminazioni fanno abbassare il saggio generale del salario e incrementano la redditività del capitale. Il loro utilizzo è tanto vecchio quanto lo stesso capitalismo. La storia del proletariato è anche la storia della competizione e della discriminazione all’interno di questa classe, che ha diviso i lavoratori irlandesi dai britannici, gli algerini dai francesi, i neri dai bianchi, i nuovi immigrati dai primi colonizzatori e così via, pressoché dappertutto.

Sebbene questa sia una conseguenza della grande diffusione del nazionalismo borghese e del
razzismo dietro sollecitazione dell’imperativo imperialistico, ciò influenza i lavoratori non solo ideologicamente ma anche attraverso la competizione sul mercato del lavoro. Tutto ciò rafforza, della lotta di classe, gli elementi che dividono rispetto a quelli unificanti e contrasta le implicazioni rivoluzionarie della coscienza di classe. Ad ogni modo, ciò porta all’interno del proletariato le stratificazioni sociali del capitalismo. Le sue lotte economiche e le sue organizzazioni sono destinate a servire particolari gruppi di lavoratori, senza alcun riguardo per gli interessi generali di classe, e i confronti tra lavoro e capitale restano necessariamente interni alla struttura del mercato e dei rapporti di prezzo.

Differenze salariali di ampia portata comportano differenti livelli di vita ed è attraverso questi,
non per il lavoro svolto, che i lavoratori giudicano il loro status nella società capitalistica. Se possono permettersi di vivere come la piccola borghesia o quasi, tenderanno a sentirsi più simili a questa classe che al proletariato. Sebbene i lavoratori salariati possano sottrarsi alla loro collocazione di classe solo attraverso l’eliminazione di tutte le classi, singoli lavoratori cercheranno di separarsi dalla loro classe per entrare in un’altra, oppure adottare lo stile di vita della classe media. Un capitalismo in espansione offre qualche possibilità di miglioramento sociale, così come getta nel proletariato individui della classe dominante o media; ma tali spostamenti individuali non influenzano la struttura classista della società, essi producono solo l’illusione di un’eguaglianza delle opportunità, che serve come argomento contro la critica all’immutabile struttura di classe nella produzione capitalistica.

In tempi di prosperità e per l’aumento del numero di famiglie con più redditi, i lavoratori meglio
pagati possono risparmiare una parte delle loro entrate e così percepire interessi, oltre che ricevere salari dal loro lavoro. Ciò fa sorgere l’illusione di un graduale disfacimento della determinazione di classe nel meccanismo di distribuzione del reddito nazionale, giacché i lavoratori vi partecipano non solo come percettori di salario ma anche come beneficiari d’interessi provenienti dal plusvalore, o anche come azionisti nella forma di dividendi. Qualunque cosa questo può significare in termini di coscienza di classe per chi ne è avvantaggiato, è abbastanza insignificante da un punto di vista sociale, poiché non influenza i rapporti fondamentali tra valore e plusvalore, salari e profitti. Ciò significa soltanto che alcuni lavoratori ottengono un incremento del loro reddito dal profitto e dagli interessi prodotti dalla classe lavoratrice. Mentre tutto questo può influenzare la distribuzione del reddito tra i lavoratori, accentuando le già esistenti differenze salariali, non influenza in alcun modo la divisione sociale in salari e profitti, rappresentata dal saggio di sfruttamento e dall’accumulazione di capitale. Il saggio del profitto rimane lo stesso, qualsiasi sia la parte della massa del profitto che può raggiungere alcuni lavoratori attraverso i loro risparmi. Il numero di azioni possedute dai lavoratori non è noto, ma a giudicare dal numero degli azionisti in ogni singolo paese e dai prevalenti saggi medi salariali, dovrebbe essere trascurabile. L’interesse sui risparmi, come parte del profitto, è compensato naturalmente dal fatto che mentre alcuni lavoratori risparmiano, altri ottengono dei prestiti, così l’interesse aumenta ma riduce anche i salari. Con la crescita del credito al consumo, è più probabile che, nel complesso, l’interesse ricevuto da alcuni lavoratori sia più che compensato dall’interesse pagato da altri.

Poiché il proletariato non è omogeneo al suo interno riguardo alla distribuzione del reddito, ma lo
è solo rispetto alla sua posizione nel quadro dei rapporti di produzione, i lavoratori salariati sono propensi a prestare più attenzione alle loro immediate necessità ed opportunità economiche che agli stessi rapporti di produzione, i quali, comunque, appaiono incrollabili in un capitalismo in ascesa. I loro interessi economici, naturalmente, riguardano non solo i privilegi goduti da speciali strati della classe lavoratrice, ma anche il bisogno generale della gran massa dei lavoratori di mantenere, o aumentare, il loro livello di vita. Salari più alti e migliori condizioni di vita presuppongono una crescita dello sfruttamento, ossia la riduzione del valore della forza-lavoro, assicurando così la riproduzione della lotta di classe nel quadro del processo di accumulazione. E’ l’oggettiva possibilità di quest’ultimo che vanifica la lotta economica dei lavoratori come mezzo per lo sviluppo di una coscienza di classe rivoluzionaria. Non c’è alcuna prova che i conflitti di lavoro degli ultimi cento anni abbiano reso il proletariato rivoluzionario, nel senso di un desiderio crescente di liberarsi del sistema capitalistico. In tutti i paesi capitalistici la tipologia degli scioperi varia col ciclo economico, ossia il numero degli scioperi e dei lavoratori che vi partecipano diminuisce in periodi di depressione e cresce ad ogni ripresa dell’attività economica. E’ l’accumulazione di capitale, non la sua mancanza, che provoca l’attivismo dei lavoratori nelle loro lotte salariali e nelle loro organizzazioni.

Ovviamente, una seria contrazione dell’attività economica, che riduce il numero totale dei
lavoratori, riduce anche le ore di lavoro perdute in scioperi e serrate, non solo per il numero minore di lavoratori occupati, ma anche a causa della loro maggiore riluttanza a scioperare, nonostante condizioni di lavoro in via di peggioramento. I sindacati, parimenti, decadono non solo a causa della crescente disoccupazione, ma anche perché sono meno capaci, o non lo sono per nulla, di procurare ai lavoratori benefici sufficienti a garantire la loro esistenza. Tanto in tempi di depressione quanto di prosperità, i conflitti continui tra lavoro e capitale non hanno condotto ad una radicalizzazione politica della classe lavoratrice, ma ad un’accentuata preoccupazione per migliori accomodamenti all’interno del sistema capitalistico. I disoccupati rivendicano il “loro diritto al lavoro” e non l’abolizione del lavoro salariato, mentre quelli ancora occupati dimostrano d’essere propensi ad accettare parecchi sacrifici pur di arrestare il declino dell’economia capitalistica. La retorica delle organizzazioni dei lavoratori esistenti o di quelle fondate recentemente è diventata senza dubbio più minacciosa, ma le loro rivendicazioni concrete, realizzabili o no, sono andate nella direzione di un migliore funzionamento del capitalismo e non della sua abolizione.

Ogni sciopero, inoltre, o è un fenomeno localizzato, che coinvolge un numero limitato di
lavoratori, o una lotta che interessa tutta l’industria, estesa a varie località, che coinvolge perciò un grande numero di lavoratori. In entrambi i casi, riguarda solo interessi particolari, condizionati nel tempo, di piccoli settori della classe lavoratrice e raramente influenza in maniera significativa l’intera società. Ogni sciopero deve finire nella sconfitta di una delle due parti in conflitto, o in un compromesso conveniente ad entrambe; in ogni caso, deve consentire che le imprese capitalistiche mantengano un grado sufficiente di redditività per produrre ed espandersi. Gli scioperi che conducono al fallimento delle imprese vanificherebbero anche gli obiettivi stessi dei lavoratori, obiettivi che presuppongono l’esistenza dei loro datori di lavoro. L’arma dello sciopero come tale è di natura riformistica, essa potrebbe diventare uno strumento rivoluzionario solo attraverso la sua generalizzazione ed estensione all’intera società. Fu per questa ragione che il sindacalismo rivoluzionario sostenne lo sciopero generale come leva per rovesciare la società capitalistica, ed è per la stessa ragione che il movimento operaio riformista si oppone allo sciopero generale, eccetto come un mezzo straordinario e politicamente controllato per salvaguardare la propria esistenza (1).
Forse l’unico sciopero generale nazionale che abbia avuto un completo successo fu quello voluto dallo stesso governo tedesco per sconfiggere il reazionario Putsch di Kapp del 1920.

Sempre che uno sciopero di massa non si trasformi in una guerra civile ed in una lotta per il
potere politico, presto o tardi esso è destinato a finire non appena i lavoratori conseguono o no le loro rivendicazioni. Ci si aspettava, naturalmente, che le situazioni critiche causate da tali scioperi, e con esse le reazioni da parte del capitale e del suo stato, avrebbero condotto al crescente riconoscimento dell’incolmabile antagonismo tra lavoro e capitale, così da rendere i lavoratori sempre più sensibili all’idea del socialismo. Questa non era un’assunzione irragionevole, ma non è stata confermata dal corso degli eventi che si sono verificati. Senza dubbio, il subbuglio procurato da uno sciopero porta con se un’acuita consapevolezza del vero significato di una società di classe e della sua natura sfruttatrice, ma questo, di per sé, non cambia la realtà delle cose.. La situazione eccezionale degenera di nuovo nella routine della vita quotidiana e dei suoi bisogni immediati; la coscienza di classe che si era ridestata, si trasforma di nuovo in apatia e in una sottomissione allo stato delle cose presenti.

La lotta di classe coinvolge la borghesia non meno dei lavoratori, perciò non basterà considerare
solo questi ultimi, riguardo allo sviluppo della loro coscienza. L’ideologia borghese dominante sarà riformulata e notevolmente modificata per neutralizzare i cambiamenti che si possono avvertire negli atteggiamenti e nelle aspirazioni dei lavoratori. L’iniziale aperto disprezzo che la borghesia nutre verso i lavoratori lascia spazio ad un’evidente preoccupazione per il loro benessere e al riconoscimento del loro contributo alla “qualità della vita sociale”; per cui la borghesia fa qualche concessione che in precedenza le veniva imposta attraverso le azioni indipendenti dei lavoratori. La collaborazione è fatta apparire vantaggiosa per tutte le classi, come la via verso armoniose relazioni sociali.

La più importante di tutte le riforme compiute dal capitalismo fu naturalmente rappresentata
dall’ascesa dello stesso movimento operaio. La continua estensione del diritto di voto fino ad interessare l’intera popolazione adulta, nonché la legalizzazione e la tutela dell’attività sindacale, integrarono il movimento operaio nelle strutture di mercato e nelle istituzioni politiche della società borghese. Il movimento operaio divenne da allora parte integrante del sistema, a condizione che questo si conservasse, e così sembrava, proprio per la capacità del sistema stesso di mitigare le contraddizioni di classe per mezzo delle riforme. Peraltro, queste riforme presupponevano condizioni economiche stabili ed uno sviluppo ordinato, che si potevano realizzare attraverso una crescente organizzazione sociale, di cui le stesse riforme erano parte integrante. Naturalmente questa possibilità era stata negata dalla teoria marxiana, sicché la giustificazione di una coerente politica riformista richiese l’abbandono di quella teoria. Dentro il movimento operaio, i revisionisti si convinsero che, contrariamente a quanto pensava Marx, l’economia capitalistica non avesse una tendenza insita al collasso, mentre i sostenitori della teoria marxiana insistevano sulle limitazioni oggettive del sistema. Tuttavia, rispetto alla situazione determinatasi, anche questi ultimi non avevano altra scelta che lottare per le riforme economiche e politiche, differenziandosi dai revisionisti per via dell’assunto che, a causa dei limiti oggettivi del capitalismo, la lotta per le riforme avrebbe avuto significati differenti secondo i momenti in cui veniva condotta. In quest’ottica , era possibile intraprendere la lotta di classe sia nei parlamenti sia nelle strade, non solo attraverso i partiti politici ed i sindacati, ma anche con i lavoratori non organizzati. La base legale conquistata nella democrazia borghese doveva essere garantita mediante le azioni dirette delle masse nella loro lotta salariale, e si supponeva che le attività parlamentari dovessero sostenere questi sforzi. Mentre ciò non avrebbe avuto alcun’implicazione rivoluzionaria in periodi di prosperità, la situazione sarebbe cambiata in periodi di crisi, particolarmente in una fase discendente del capitalismo. Poiché il capitalismo trova un ostacolo solo in se stesso, la lotta per le riforme si sarebbe trasformata in una lotta rivoluzionaria appena la borghesia non fosse stata più in grado di fare concessioni ai lavoratori.

Proprio come i capitalisti (tranne qualche eccezione) non sono economisti, ma uomini d’affari,
anche i lavoratori non sono interessati alla teoria economica. Indipendentemente dalla questione se il capitalismo è destinato o no a crollare, i lavoratori devono badare ai loro bisogni immediati attraverso le lotte salariali, onde difendere o migliorare i loro livelli di vita. Se sono convinti della necessità del declino e della caduta del capitalismo, ciò accade perché già aderiscono all’ideologia socialista, anche se probabilmente non sono in grado di dimostrare “scientificamente” il loro punto di vista. Per la verità, è duro immaginare che un sistema sociale come il capitalismo possa durare ancora a lungo, salvo che, naturalmente, si fosse totalmente indifferenti alle condizioni anarchiche della produzione capitalistica ed alla sua completa decomposizione. Tuttavia, tale indifferenza è solo un altro termine per indicare l’individualismo borghese, il quale non è solo un’ideologia, ma anche una condizione dei rapporti di mercato come rapporti sociali. Tuttavia anche sotto quest’incantesimo, l’indifferenza dei lavoratori non impedisce loro di condurre la lotta di classe, sebbene a volte sia intrapresa solo parzialmente, a causa della violenta repressione che colpisce tutte le azioni indipendenti dei lavoratori.

Finora, il riformismo non ha portato ad una trasformazione del capitalismo in un sistema sociale più accettabile, né a rivoluzioni e neppure al socialismo; d’altra parte, potrebbe aver bisogno di rivoluzioni politiche per realizzare alcune riforme sociali. La storia recente fornisce numerosi esempi di rivoluzioni politiche che finirono col rovesciare l’odiata struttura di governo di una nazione, senza influenzare i suoi rapporti di produzione. Simili sovvertimenti rivoluzionari sostituiscono un regime dittatoriale per perseguire cambiamenti istituzionali e, implicitamente, riforme economiche. In questo caso, le rivoluzioni politiche sono una precondizione per qualunque tipo di attività riformistica e non il risultato di quest’ultima. Non si tratta di rivoluzioni socialiste nel senso marxiano, anche quando sono preminentemente iniziate e realizzate per mezzo della classe operaia, ma di attività riformiste condotte con mezzi politici più diretti.
La possibilità di un cambiamento rivoluzionario non può essere contestata, poiché ci sono state rivoluzioni politiche che hanno cambiato i rapporti di produzione e sostituito il governo di una classe con quello di un’altra. Le rivoluzioni borghesi assicurarono il trionfo della classe media e del modo di produzione capitalistico; una rivoluzione proletaria – ossia una rivoluzione per eliminare ogni rapporto di classe nel processo di produzione sociale – non è finora avvenuta, sebbene siano stati fatti tentativi in questa direzione, all’interno e all’esterno del sistema politico borghese. Mentre la riforma sociale è un surrogato della rivoluzione e questa può dissolversi in pure e semplici riforme capitalistiche, come in niente, una rivoluzione proletaria può solo vincere o perdere. Essa non può basarsi su alcun genere di compromesso di classe, poiché il suo compito è di eliminare ogni rapporto di classe. Conseguentemente, troverà tutte le altre classi schierate contro i tentativi di realizzare i propri obiettivi socialisti. E’ questo carattere speciale della rivoluzione proletaria che spiega le difficoltà eccezionali che incontra sul suo percorso.

(1) Nel suo libro In Place of Fear (New York, 1952, pp. 21-23), Aneurin Bevan riferisce che nel 1919 – quando i sindacati britannici minacciarono uno sciopero nazionale – l’allora primo ministro David Lloyd Gorge disse ai leader sindacali che dovevano essere consapevoli di tutte le conseguenze di una simile azione, perché “se nello stato sorge una forza più forte dello stato stesso, allora essa deve essere pronta ad assumerne le funzioni, o a ritirarsi e accettare l’autorità dello stato.” Da quel momento in poi”, disse un leader sindacale, “noi sapemmo d’essere sconfitti.” Dopo di ciò, continua Bevan, “lo sciopero generale del 1926 fu veramente una delusione. Nel 1926 i leader sindacali non si resero conto delle implicazioni rivoluzionarie di un’azione diretta su una tale scala, né erano ansiosi di farlo … Non fu tanto il potere coercitivo dello stato che limitò il pieno uso del potere dei lavoratori dell’industria …
I lavoratori e i loro leader indugiarono anche quando il loro potere coercitivo era più grande di quello dello stato. L’opportunità di impadronirsi del potere non è sufficiente quando la volontà di conquistarlo è assente, e quella volontà è conseguente all’atteggiamento tradizionalmente tenuto dal popolo verso quelle istituzioni politiche che fanno parte della loro eredità storica.”
Questo può essere vero, ma per la verità, in questo caso particolare, non fu l’atteggiamento dei lavoratori riguardo alla loro eredità storica, ma semplicemente la sottomissione alle loro organizzazioni e alle loro leadership che permise a queste ultime di sospendere lo sciopero generale, per il timore che esso potesse condurre ad agitazioni rivoluzionarie a causa della determinazione
apparentemente ferma del governo di interrompere lo sciopero con la forza.

(Traduzione a cura di www.countdownnet.info)

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