sabato 4 aprile 2020

1920 - 2020 Risposte al compagno Errico Malatesta sulle differenze politiche tra socialisti e anarchici

Introduzione

Errico Malatesta (1853-1932) fu senz’altro il più celebre militante anarchico italiano del cinquantennio che va dalla morte di Michail A. Bakunin (1876) al consolidamento della dittatura fascista (1926) e, probabilmente, uno dei più rilevanti al livello mondiale insieme a Pëtr A. Kropotkin, Gustav Landauer, James Guillaume, Ricardo Mella, Alexander Berkman, Emma Goldman e Rudolf Rocker. Nel resto di questo breve articolo non proveremo neppure a riassumere l’avventurosa esistenza di Malatesta [1], tutta intessuta di progetti rivoluzionari, fallite insurrezioni, fughe precipitose, lunghi esili e non trascurabili periodi di detenzione carceraria. Una vita scomoda ma coerente dove, glissando su certe ingenuità giovanili (ad esempio, i fatti della banda del Matese del 1877), emerge l’elevata statura morale della persona che è eguagliata soltanto dalla fede salda nell’avvenire comunista libertario del genere umano. Al livello biografico c’interessa solo riassumere l’attività di Malatesta dalla fine della Grande Guerra (novembre 1918) alla Marcia su Roma (ottobre 1922), perché è proprio in questo quadriennio che si situano i due articoli ai quali intendiamo fornire adeguate risposte. Soltanto nel 1919, dopo diversi tentativi infruttuosi, Malatesta, esule nel Regno Unito dal 1914, riesce a ottenere un passaporto dal console italiano a Londra e a imbarcarsi a Cardiff per Taranto con l’aiuto di un influente sindacalista dei portuali italiani. In Italia gode subito di un’enorme popolarità, acclamato dalla folla (ma con sua grande irritazione!) come il “Lenin italiano”, e se ne avvantaggia durante un’intensa attività propagandistica che lo rende uno dei protagonisti più radicali del cosiddetto “Biennio Rosso” (1919-1920). I suoi intenti sono infatti sintetizzabili in quattro semplici linee d’azione: necessità di armarsi, necessità di un fronte unico dei sovversivi, necessità di far funzionare campi e officine in modo nuovo, necessità di passare dagli scioperi alle occupazioni. Punti che, almeno per qualche settimana durante l’Occupazione delle Fabbriche (settembre 1920), sembrano divenire finalmente attuabili.
Nel febbraio del 1920 fonda e dirige a Milano il quotidiano anarchico Umanità Nova, mentre nel luglio dello stesso anno è tra i protagonisti del congresso di Bologna dove si riorganizza l'Unione Anarchica Italiana e viene approvato il famoso “Programma Anarchico” [2], già abbozzato da Malatesta nel 1919. Viene però arrestato e recluso nel carcere di San Vittore dove, insieme ad altri detenuti, inizia uno sciopero della fame che mina le sue condizioni fisiche, riducendolo quasi in fin di vita. Tale sciopero viene sospeso solo dopo la famigerata “Strage del teatro Kursaal Diana”, avvenuta il 23 marzo 1921 e costata 21 morti e 80 feriti, per la quale vengono condannati Giuseppe Mariani, Ettore Aguggini, Giuseppe Boldrini e altri sedici anarchici individualisti che sostengono di aver agito proprio per protesta contro l’arresto immotivato di Malatesta e dei suoi compagni. Poco dopo Malatesta viene liberato ma, fortemente impressionato dalle conseguenze umane e politiche della strage, pubblica un articolo sull’Umanità Nova nel quale, pur mostrando una certa comprensione per gli esecutori materiali dell’attentato, critica gli atti di violenza indiscriminati. Continua a dirigere l’Umanità Nova (nel frattempo ridottasi a settimanale e trasferitasi a Roma dopo le devastazioni fasciste della redazione) fino alla fine del 1922, anno in cui Mussolini prende il potere e chiude d’autorità il giornale (22 novembre) che termina con il n. 196. Riprenderà le pubblicazioni soltanto nel secondo dopoguerra.

Gli articoli di Malatesta su Umanità Nova (1920-1922)

Gli scritti di Malatesta apparsi sull’Umanità Nova nei tre anni di vita della prima serie del giornale sono molto numerosi, in quanto il nostro autore fu sia il direttore che l’articolista di punta per i problemi politici, economici e sindacali del comunismo libertario; tutti trattati sempre in maniera chiara, semplice e comprensibile, completamente all’opposto del modo di scrivere forbito e ricercato degli intellettuali politici del tempo, quali, per esempio, Gabriele D’Annunzio, Francesco Saverio Nitti e Benedetto Croce. Luigi Fabbri, assiduo collaboratore dell’Umanità Nova, raccolse tali articoli con cura (includendo anche quelli comparsi sotto pseudonimi o in forma anonima) per un’edizione svizzera del 1935, mentre successivamente furono ristampati in Italia in due ponderosi volumi intitolati “Pagine di lotta quotidiana” [3]. Gli argomenti discussi sono molto vari, anche se l’aspetto polemico domina di gran lunga, orientato uniformemente in tutte le direzioni: contro il governo, contro la Russia bolscevica [4], contro il sindacato socialista riformista, contro i repubblicani, contro il neonato partito comunista, ma, soprattutto, contro l’ala massimalista (Serrati in primis) del partito socialista, che Malatesta crede d’individuare come la principale responsabile del fallimento della tanto vagheggiata “Rivoluzione Italiana”. Siccome abbiamo già discusso abbondantemente di questa questione nei mesi scorsi, sorvoleremo sul mito anarchico (e bolscevico...) della “rivoluzione mancata” [5], concentrandoci invece su due articoli di Malatesta dove, sempre in modo critico, sono affrontati alcuni problemi teorici importantissimi la cui attualità rimane pressoché immutata a distanza di un secolo: La “fretta” rivoluzionaria (U.N., n. 125 del 6 settembre 1921) e Socialisti e anarchici (U.N., n. 129 del 10 settembre 1921).

Il primo tratta, in polemica con La Giustizia (giornale socialista turatiano di Reggio Emilia), del ruolo della propaganda anti-capitalista tra i lavoratori, ma anche dell’importanza delle minoranze coscienti nello svolgersi dei processi d’insorgenza rivoluzionaria.
Il secondo, sempre in polemica con La Giustizia, riporta brani della risposta di quest’ultima all’articolo malatestiano appena citato e poi si concentra sulla supposta incompatibilità tra i metodi democratici rappresentativi e il comunismo, specificando come gli anarchici non polemizzino con i socialisti democratici dal punto di vista bolscevico (auspicante cioè la ferrea dittatura del partito rivoluzionario) ma, all’opposto, da una posizione libertaria che aspira all’eliminazione immediata di ogni apparato coercitivo statale, sia esso democratico oppure dittatoriale.

Una risposta marxista a «La “fretta” rivoluzionaria»

Tralasciando le battute iniziali di Malatesta in cui si commenta in modo alquanto ironico un articolo di G. Valenti apparso su La Giustizia, ma si ammette la necessità della propaganda tra i lavoratori statunitensi [6] per conquistare le masse di quel Paese alle idee di emancipazione, il nostro autore entra nel vivo del problema quando afferma testualmente che:
“È una verità assiomatica, ‘lapalissiana’, la rivoluzione non si può fare se non quando vi sono forze sufficienti per farla. Ma è una verità storica che le forze che determinano l’evoluzione e le rivoluzioni sociali non si calcolano coi bollettini del censimento.
I cattolici [7] degli Stati Uniti e d’altrove resteranno numerosi come sono, e magari aumenteranno, fino a quando vi sarà una classe, potente di ricchezza e scienza, interessata a tenere la massa nella schiavitù intellettuale per poter meglio dominarla. Gli operai non saranno mai tutti organizzati e le loro organizzazioni saranno sempre soggette a disfarsi o a degenerare fino a quando la miseria, la disoccupazione, la paura di perdere il posto, il desiderio di migliorare le condizioni alimenteranno la rivalità tra operai e daranno modo ai padroni di profittare di tutte le circostanze, di tutte le crisi per mettere in concorrenza gli operai gli uni contro gli altri. E gli elettori resteranno sempre monotoni per definizione anche se qualche volta accade loro di tirar delle cornate.”
Notiamo subito che la visione di Malatesta sembra apparentemente semplice e spontanea, ma in realtà è costruita con sapiente retorica: partendo da una proposizione che suona più che ovvia (“lapalissiana”, scrive infatti l’autore), ovvero che la rivoluzione socialista potrà avvenire solo quando esisteranno forze sociali sufficienti a promuoverla, viene subito indebolita l’idea di un’evoluzione pacifica e spontanea della società dal capitalismo al socialismo (ipotesi tanto cara a certi ambienti positivisti vicini alla frazione riformista del PSI che, conseguentemente, attribuivano al partito un mero ruolo di “levatrice” del socialismo). Ma poi, in meno di un rigo, si passa a un’affermazione assai meno lapalissiana, ossia che queste forze che determinano l’evoluzione e le rivoluzioni sociali non si calcolano coi “bollettini del censimento”. Ovvero non sono misurabili in modo puramente numerico quantitativo, come per esempio le forze della fisica, ma vanno invece comprese in modo prettamente qualitativo.
Il nostro consenso a quest’affermazione potrà però essere solo parziale: se l’autore intende dire che la numerosità relativa del proletariato, il suo tasso di sindacalizzazione, d’iscrizione a partiti e movimenti socialisti (tutte caratteristiche che possono esser indicate da numeri o da percentuali) non bastano a poter prevedere uno sbocco rivoluzionario della lotta di classe, allora saremo senz’altro a favore; ma se invece il ricorso al supposto carattere qualitativo del proletariato rivoluzionario travalica il chiaro concetto materialista di “sviluppo della coscienza di classe” per entrare nel reame fumoso e irrazionalista della “volontà rivoluzionaria”, dello “sciopero come tirocinio rivoluzionario”, del “mito politico e sociale capacitante” e via discorrendo (tutti cari a Georges Sorel e ai suoi ammiratori tra i sindacalisti rivoluzionari italiani) allora non potremo che esprimere il nostro inequivocabile dissenso.
Ma seguitiamo con la disamina di quanto scrive Malatesta quando, pessimisticamente, si dichiara convinto che, a causa della potenza della classe dominante e dei suoi ovvi interessi a lasciare languire il proletariato in uno stato di schiavitù intellettuale, le religioni più oscurantiste avranno sempre ampia presa, larghe fette di lavoratori resteranno non organizzati, oppure le loro organizzazioni degenereranno e si decomporranno rapidamente. Tutto viene imputato alla paura dei licenziamenti generata dalle crisi cicliche, alla concorrenza tra i lavoratori salariati stessi, nonché alla tendenza di molti proletari ad attenuare i propri disagi individualmente piuttosto che in modo classista collettivo o, magari, coltivando le monotone illusioni di un elettoralismo, talora sorprendente, ma comunque sempre irrilevante.
Anche in questo caso il nostro assenso potrà esser solo parziale: se Malatesta intende dire che questa è la condizione “normale” della classe operaia oppressa da un regime capitalista tipico (o “ideal-tipico” usando una locuzione weberiana), allora egli non fa altro che ribadire i ben noti capisaldi del marxismo classico. Se invece è convinto che questa è una realtà immutabile (una “legge bronzea” direbbe Lassalle) del dominio del capitale sulle classi subalterne, allora non condividiamo affatto il suo pessimismo che ci sembra del tutto anti-dialettico, in quanto non in grado di concepire i mutamenti storici dei rapporti tra le varie classi antagoniste in determinati momenti.

A questo punto, anche allo scopo di chiarire ulteriormente le concezioni malatestiane, diamo di nuovo la parola al nostro autore che finalmente palesa la sua idea di rivoluzione:

“È cosa provata che date certe condizioni economiche, dato un certo ambiente sociale, le condizioni intellettuali e morali della massa restano sostanzialmente le stesse e, fino a quando un fatto esterno, un fatto idealmente o materialmente violento non viene a modificare quell’ambiente, la propaganda, l’educazione, l’istruzione restano impotenti e non riescono ad agire che sopra quel numero d’individui che, in forza di privilegi naturali o sociali, possono vincere l’ambiente in cui sono costretti a vivere. Ma quel piccolo numero, quella minoranza cosciente e ribelle che ogni ordine sociale partorisce in conseguenza delle stesse ingiustizie a cui la massa è soggetta, agisce come fermento storico e basta, è sempre bastato, a far progredire il mondo.
Ogni nuova idea, ogni nuova istituzione, ogni progresso ed ogni rivoluzione è stata sempre l’opera di minoranze. È nostra aspirazione, è nostro scopo quello di far assurgere tutti quanti gli uomini a fattori effettivi, a forze coscienti della vita sociale; ma per riuscire a questo scopo occorre dare a tutti i mezzi di vita e di sviluppo, e perciò bisogna abbattere, con la violenza poiché non si può fare altrimenti, la violenza che questi mezzi nega ai lavoratori.
Naturalmente il «piccolo numero», la minoranza, deve esser sufficiente, e ci giudica male chi pensa che noi vorremmo fare un’insurrezione al giorno senza tener conto delle forze in contrasto e delle circostanze favorevoli o meno.”
Inizialmente Malatesta sembra propendere per la nostra interpretazione più favorevole delle sue precedenti affermazioni: la soggezione della classe lavoratrice è sì condizione ‘normale’ del dominio capitalista, ma un fatto esterno, idealmente o materialmente ‘violento’, può modificare in qualsiasi momento questa situazione. Però subito dopo il suo discorso si salda con una questione molto diversa relativa ad un piccolissimo numero di individui che, a causa di privilegi naturali (intelligenza, perspicacia, spirito critico ecc.) o sociali (istruzione superiore conseguenza di un minimo benessere, contatti più o meno fortuiti con ambienti sovversivi ecc.) riesce a vincere il dominio intellettuale del capitale, anzi sembra addirittura trarre origine e forza proprio dalle ingiustizie che tale dominio continua a perpetrare. Fin qui nessuna obiezione da parte nostra in quanto sappiamo bene quanto sia esiguo (nelle situazioni ‘normali’) il numero di lavoratori pienamente coscienti che abbiano accettato e compreso fino in fondo il programma del socialismo rivoluzionario marxista. Ma proprio nello stesso periodo, nuovamente con grande scaltrezza retorica, viene immessa bruscamente un’affermazione completamente diversa, che vale la pena riportare di nuovo:

Ma quel piccolo numero, quella minoranza cosciente e ribelle (…) agisce come fermento storico e basta, è sempre bastato, a far progredire il mondo. Ogni nuova idea, ogni nuova istituzione, ogni progresso ed ogni rivoluzione è stata sempre l’opera di minoranze.”
Sembrerebbe di udire l’eco, appena leggermente modificata dal contesto libertario, delle varie teorie “elitiste” del periodo, diffusissime in diverse coniugazioni politiche e sociologiche: da Gustave Le Bon a Vilfredo Pareto fino a Max Weber, da Gaetano Mosca a Robert Michels fino a Vladimir I. Lenin [8]; ma sarebbe un imperdonabile sbaglio. È infatti tutta interna al pensiero anarchico la tradizione del “fermento” rivoluzionario, del manipolo di “refrattari” che scuote le masse con la “propaganda del fatto”. Basterebbe citare Michail A. Bakunin e Carlo Cafiero, con la loro segretissima Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista, per fare solo due nomi. Eppure l’analogia con le concezioni avanguardiste del bolscevismo c’è, pur dovendone riconoscere la diversa genesi. Tant’è che l’autore conclude con un finale, breve ma pesante come un macigno, che sembra uscito dalla penna di Lenin o di Trockij dopo il novembre del 1917:

“In somma noi siamo perfettamente d’accordo con ‘La Giustizia’ quando insiste sulla necessità di fare molta propaganda e di sviluppare il più possibile le organizzazioni proletarie di lotta; ma ci stacchiamo recisamente da essa quando pretende che per agire bisogna aspettare di aver attirato a noi la maggioranza di quella massa inerte che non sarà convertita se non dai fatti, che non accetterà la rivoluzione se non dopo che la rivoluzione sarà iniziata”.
Sarà forse monotono ripeterlo, ma, nonostante tutto il rispetto che nutriamo per quell’integerrimo rivoluzionario che fu Malatesta, non possiamo di certo condividere questo suo giudizio. E a chi parla di ipotetiche maggioranze proletarie divenute “rivoluzionarie” post-factum quasi per magia, opponiamo testardamente la nostra idea di sempre: solo quando una larga parte della classe lavoratrice vorrà coscientemente il socialismo e accetterà di lottare senza sosta per esso, allora sarà possibile una rivoluzione proletaria su scala mondiale che condurrà alla definitiva scomparsa del modo di produzione capitalista. Tutto il resto è solo l’ennesima versione del solito vicolo cieco rappresentato dalle varie “rivoluzioni politiche” che si risolvono semplicemente in un ricambio della classe dominante, questo sì mera “circolazione delle élite” di paretiana memoria.

Una risposta marxista a «Socialisti e anarchici»

Questo secondo articolo, apparso appena quattro giorni dopo il precedente, prosegue la polemica con il giornale socialista riformista modenese La Giustizia, spostandosi però dalla “questione di voler fare la rivoluzione più o meno presto” a “quella della libertà o dell’autorità”, ovvero andando a finire, come spesso accadeva in quegli anni, a commentare gli eventi russi e il relativo comportamento dei bolscevichi. Malatesta era stato infatti citato da La Giustizia nella diatriba interna al PSI tra i partigiani della Rivoluzione d’Ottobre e gli elementi riformisti più scettici di fronte a tali fatti. Tale citazione, riassunta da Malatesta stesso per motivi di brevità, ci appare come segue:

«Così dice Malatesta. C’è da osservare che l’esempio della dittatura bolscevica in Russia ha valore soltanto contro chi immagina che il Socialismo – cioè l’organizzazione della vita sociale sulle basi della proprietà collettiva – si possa attuare dall’alto, per opera di una “minoranza” che s’impadronisca del potere governativo. In questo caso è vero che il governo è “necessariamente” tirannico, come afferma Malatesta: dovendo agire contro gli istinti, i sentimenti, le abitudini e la volontà della grande “maggioranza” della popolazione, un tale governo non può reggersi fuorché con la violenza e il terrore. E malgrado la violenza ed il terrore, esso dovrà cadere od altrimenti rinunciare alle riforme non ancora mature e ritornare indietro, per mettersi al livello della massa popolare che è l’elemento fondamentale di ogni organizzazione sociale e non si lascia plasmare a capriccio altrui».
Queste affermazioni, le quali non sono affatto negate dall’anarchico sammaritano (che all’opposto le rivendica) vengono però subito integrate da La Giustizia in modo tale da ipotizzare una qualche tenuissima convergenza tra comunismo libertario e socialismo democratico:

«Ma lo stesso Malatesta avverte che oltre la forma dittatoriale propugnata dai comunisti e di cui si sta facendo così tragico esperimento in Russia, vi è anche la forma democratica del potere governativo. E la forma democratica – quella che fu sempre proclamata dai socialisti – non vuole la dittatura di un partito, ma vuole invece la sovranità della intera classe lavoratrice, dai più oscuri lavoratori manuali fino ai più illuminati lavoratori del pensiero».
 Il testo del giornale modenese prosegue elencando brevemente gli obiettivi e i metodi tipici del socialismo riformista turatiano, ma poi termina prevedendo il vivace dissenso degli anarchici su queste specifiche proposte politiche:

«Sappiamo bene quali sono le obiezioni degli anarchici; ma anche Malatesta dovrà convenire che questa forma di democrazia non può assolutamente essere confusa con la dittatura alla russa, dalla quale è assai più lontana che dall’anarchismo».
La risposta del nostro celebre anarchico non si fa attendere, giungendo immediata ed ironica, anche se in una forma alquanto sofistica e vagamente supponente:

«Infatti. Il Socialismo veramente democratico che vagheggia “La Giustizia” è molto migliore del socialismo dittatoriale, alla russa: solamente … non è il socialismo o è il socialismo reso impossibile».
Ma cosa intende Malatesta con questa alternativa un po’ sibillina? Chi si aspetterebbe immediatamente una dura critica al riformismo socialdemocratico e alla sua idea (di derivazione bernsteiniana) di una lenta e pacifica evoluzione dal capitalismo al socialismo attraverso un cammino di riforme parlamentari, rimarrebbe deluso. I primi tre motivi addotti nel prosieguo dell’articolo sono altri, sebbene l’autore sembra voler insistere soprattutto sull’ultimo:
1)    «Lascio andare ora la questione che la democrazia è, nella migliore ipotesi, il dominio della maggioranza, e che gli anarchici vogliono la libertà per tutte le minoranze, sapendo bene che ogni nuova idea, ogni progresso è sempre l’opera di minoranze e non è accettato dalla maggioranza se non quando è, almeno in parte, già attuato».
2)    «Lascio andare anche la questione che una vera maggioranza cosciente sopra una cosa qualsiasi non si forma che lentamente e che intanto può essere urgente una soluzione per una parte sia pure piccola del consorzio sociale».
3)    «E mi fermo invece sulla possibilità o meno di elevare le masse, la maggioranza dei lavoratori, alla concezione ed al desiderio del socialismo fino a che durano gli attuali ordinamenti economici e politici».
Come è facile notare, si ritorna rapidamente alle idee “elitiste” di “La ‘fretta rivoluzionaria”: sotto il dominio economico, politico e culturale del capitalismo le masse proletarie sono generalmente prostrate e soggiogate. Quindi solo una piccolissima minoranza raggiunge il livello di coscienza necessario a concepire una rivoluzione socialista. Tale minoranza può però agire da “detonatore sociale” mediante azioni eclatanti che sono potenzialmente in grado di scuotere la grande maggioranza della classe lavoratrice, la quale, sebbene mobilitata e pronta allo scontro, solo con lentezza potrà divenire realmente e coscientemente rivoluzionaria. A questo punto la risposta di Malatesta ai socialisti riformisti si fa volutamente un po’ opaca: La Giustizia viene tacciata di ingenuità e, a sostegno delle tesi “elitiste” appena esposte, vengono portati alcuni esempi fallimentari dell’azione dei socialisti eletti nei vari municipi e al parlamento nazionale. Il tutto è condito persino da un paio di frasi paternaliste e qualunquiste, non proprio all’altezza del nostro celebre anarchico:
“E le organizzazioni proletarie sono sempre una cosa incerta, un giorno disposte a rovesciare tutto per raggiungere l’emancipazione, un altro conservatrici e vili per paura di compromettere lo scarso pane”.
O addirittura:
“(…) poiché vi è sempre, in regime capitalista, della gente a cui manca pane, si trovano sempre dei disgraziati che per un pane sicuro son disposti a farsi assassini dei loro fratelli”.
In fondo, mutatis mutandis, si finisce con lo sposare la teoria blanquista dell’insurrezione violenta [9], apparentemente necessaria per prevenire l’ancora più violenta repressione borghese:
“La borghesia non si farà espropriare di buona grazia e si dovrà sempre addivenire al colpo di forza, alla violazione dell’ordine legale con mezzi illegali (…)”.
La risposta malatestiana termina poi con un crescendo in cui si ribadiscono le tradizionali (e stereotipate) differenze tra anarchici e socialisti per il periodo post-rivoluzionario: i primi “vogliono, quando vi sarà la minoranza sufficiente e le altre circostanze lo permetteranno, abbattere il potere statale e mettere tutta la ricchezza sociale a disposizione di tutti, vigilando perché non si costituiscano nuovi poteri i quali monopolizzino il lavoro di riorganizzazione volgendolo a favore di certi partiti e di certe consorterie”.
I secondi invece “vogliono impossessarsi del potere e fare la legge”. Magari non tutti i socialisti optano per metodi dittatoriali dei bolscevichi, e quindi “vogliono farlo democraticamente, cioè farsi eleggere deputati ed andare a rappresentare il pensiero e la volontà di una massa, che non ha ancora pensiero e volontà o, se l’ha, dovrebbe affrettarsi a rinunziarvi delegando il potere ai bei parlatori e sottomettendo le sue aspirazioni a tutti i rischi di una casuale maggioranza parlamentare. In realtà poi sarebbe dittatura lo stesso: forse un po’ meno brutale, ma sempre dittatura, cioè prepotenza prima di chi manipola le elezioni e poi di chi guida e domina il parlamento”.
È davvero impressionante come in sole otto righe di testo si possa fare una confusione così enorme all’interno della compagine socialista ostile al bolscevismo, amalgamando tra loro il socialismo genuinamente marxista (che rimonta a  F. Engels, P. Lafargue, A. Labriola per giungere fino a D. De Leon e all’ “impossibilismo” britannico) e la socialdemocrazia apertamente riformista (E. Bernstein) o, tutt’al più, vagamente centrista (K. Kautsky e O. Bauer), specie per quello che riguarda l’uso rivoluzionario del parlamento borghese e il ruolo del partito nella corso della rivoluzione. Data la brevità del nostro testo non possiamo dilungarci ulteriormente su queste questioni, ma vogliamo indirizzare il lettore interessato all’ottimo opuscolo del Partito Socialista della Gran Bretagna sull’argomento: “What’s wrong with using Parliament?” [10] del 2010.

La frase finale poi (siamo a tredici mesi appena dalla Marcia su Roma che inaugurerà in ventennio fascista!) raggiunge le vette più alte dell’involontaria auto-ironia e, commentandosi da sé, non necessita di una nostra risposta:
“Ecco perché noi, come siamo nemici della dittatura, che è tirannia sfacciata, siamo nemici anche della democrazia, che è tirannia mascherata e forse più dannosa della franca dittatura, perché dà alla gente l’illusione di esser libera e quindi può durare di più”.  

Conclusioni

Nelle pagine precedenti abbiamo messo a fuoco alcune concezioni del celebre rivoluzionario italiano Errico Malatesta nel periodo della sua maggiore maturità politica, corrispondente al primo dopoguerra e alla conseguente fondazione dell’importante giornale anarchico Umanità Nova. Purtroppo, pur rispettando il personaggio per il suo coraggio indomito di combattente rivoluzionario, per sua integrità morale e per la sua immediata denuncia dei pericoli della dittatura bolscevica, abbiamo toccato con mano la sua lontananza dalle posizioni del socialismo marxista almeno su tre questioni cruciali: il ruolo del partito, la maturazione della classe lavoratrice e la dinamica della rivoluzione socialista. Ma quel che è peggio è la sua totale incomprensione delle profonde differenze esistenti tra socialdemocrazia riformista (o centrista) da un lato, e socialismo rivoluzionario anti-bolscevico dall’altro. Certo, su questo specifico punto Malatesta ha delle attenuanti perché scrive in un periodo in cui la separazione netta nel mondo tedesco-olandese tra comunismo dei consigli di derivazione luxemburghiana-“tribunista” e comunismo bolscevico non era ancora del tutto compiuta. Tuttavia, dato il suo lungo soggiorno nei paesi anglosassoni e la sua sicura conoscenza di alcune opere di Marx, Engels, Lafargue e Labriola, si direbbe che la spiegazione di tali incomprensioni sia da cercare altrove: il pregiudizio bakuninista [11], che ingiustamente e superficialmente etichetta il marxismo tout court come filosofia del “socialismo di stato”, pesa ancora enormemente nelle concezioni politiche del nostro autore anarchico e, paradossalmente, sembra trarre nuove conferme proprio dalle degenerazioni del socialismo internazionale, ovvero dal parlamentarismo riformista da un lato e dalla dittatura bolscevica dall’altro. Ad ogni modo, a voler ben vedere è proprio il tipo di anarchismo propugnato da Malatesta (ossia una sintesi piuttosto disinvolta tra “anarco-comunismo” e “anarco-individualismo” nota come “programmismo anarchico”) a mostrare inquietanti, ancorché involontari, tratti comuni con la socialdemocrazia e il bolscevismo. Infatti tutte e tre concezioni citate, in qualche forma, accettano la passività politica della maggioranza della classe lavoratrice come un fatto dato una volta per tutte e cercano quindi tipi differenti di scorciatoie per l’attuazione del loro programma, sempre però caratterizzate dall’azione di élite politiche: di parlamentari e dirigenti sindacali per i socialdemocratici, di rivoluzionari di professione e futuri commissari del popolo per i bolscevichi, di “refrattari” pronti alla “propaganda del fatto” e ad azioni eclatanti per gli anarchici programmisti. A tali progetti rispondiamo citando le prime due frasi poste come incipit degli “Statuti Provvisori dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori” del 1864 [12]:
“Considerando che: (1) l’emancipazione della classe operaia deve essere opera dei lavoratori stessi; che la lotta della classe operaia per l’emancipazione non deve tendere a costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma a stabilire per tutti diritti e doveri eguali e ad annientare ogni predominio di classe; (2) che la soggezione economica del lavoratore nei confronti dei detentori dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, è la causa prima della schiavitù in tutte le sue forme, di ogni miseria sociale, di ogni pregiudizio spirituale e di ogni dipendenza politica; (…)”
Tale documento si deve materialmente a Marx, ma fu sempre tenuto nella massima considerazione anche dagli anarchici, che si ritengono appunto i legittimi eredi della Prima Internazionale. Dovrebbe essere quindi anche per loro, come lo è per noi, un punto di riferimento essenziale dell’azione politica.


Bibliografia


[1] Si veda, per esempio, una recente biografia di Errico Malatesta: Vittorio Giacopini, Non ho bisogno di stare tranquillo,vita straordinaria del rivoluzionario più temuto da tutti i governi e le questure del regno (Elèuthera, Milano, 2012).
[3] Errico Malatesta, Pagine di lotta quotidiana, 2 voll. (Movimento Anarchico Italiano, Carrara, 1975).
[4] Quasi profetiche sono le parole che Malatesta dedica, già nel luglio del 1919, all’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre in una sua breve lettera da Londra a Luigi Fabbri. Non possiamo astenerci dal riportare nella sua scarna semplicità il seguente passaggio che merita un plauso anche da parte dei marxisti: “(…). Anche il generale Bonaparte servì a difendere la Rivoluzione Francese contro la reazione europea, ma nel difenderla la strozzò. Lenin, Trockij e compagni sono di sicuro dei rivoluzionari sinceri, così come essi intendono la rivoluzione, e non tradiranno; ma essi preparano i quadri governativi che serviranno a quelli che verranno dopo per profittare della rivoluzione ed ucciderla. Essi saranno le prime vittime del loro metodo, e con loro, io temo, cadrà la rivoluzione. È la storia che si ripete: mutatis mutandis, è la dittatura di Robespierre che porta Robespierre alla ghigliottina e prepara la via a Napoleone. (…)”. Fabbri riporterà tale lettera come introduzione alla sua critica del bolscevismo scritta nel 1921 e pubblicata con il titolo di “Dittatura e Rivoluzione”
una vera e propria risposta anarco-comunista al celebre Stato e Rivoluzione di Lenin.
[5] La versione anarchica di tale ‘mito’ è dettagliatamente presentata da Armando Borghi nel suo volume L’Italia tra due Crispi. Cause e conseguenze di una rivoluzione mancata (1924), la cui versione riveduta e corretta è stata ripubblicata dall’autore nel 1964 con il titolo: La rivoluzione mancata: http://bibliotecaborghi.org/wp/wp-content/uploads/2016/01/Borghi-Armando_La_rivoluzione_mancata.pdf
[6] L’esempio riguarda gli USA in quanto considerati all’epoca come assai arretrati sindacalmente (solo 4,5 milioni di organizzati su 40 milioni di produttori e produttrici) e politicamente (solo 1 milione di voti socialisti su 25 milioni di elettori).
[7] Malatesta qui cita i lavoratori cattolici praticanti degli Stati Uniti, che Valenti valutava in circa 60 milioni, considerandoli in quel periodo come un esempio di proletari arretrati, assai lontani quindi dalle idee rivoluzionarie, sia socialiste che anarchiche.
[8] Si confrontino, a puro titolo di esempio, la “Psychologie du socialisme” (1898) di Le Bon, il “Che fare?” (1902) di Lenin e “La democrazia e la legge ferrea dell'oligarchia” (1910) di Michels. Opere quasi coeve, ma diversissime, eppure accomunate da una vera e propria fissazione per le élite politiche e la loro supposta azione.
[9] Per una demolizione teorica del blanquismo nell’epoca successiva alla Comune di Parigi si veda il sempre attuale testo di Friedrich Engels del 1895: “Introduzione alle Lotte di classe in Francia 1848-1850”, dove si dichiara finalmente chiusa la stagione delle barricate in strada, ma non quella delle rivoluzioni
[10] La traduzione italiana dell’opuscolo citato è disponibile in rete: https://digilander.libero.it/gmfreddi/Parlamento.pdf
[11] Per la violenta critica di Bakunin a Marx si veda la seguente opera: Michail A. Bakunin, Stato e anarchia (Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2015).
[12] Consultabile in rete all’indirizzo: https://www.resistenze.org/sito/ma/di/cm/mdcm8e09-003087.htm
Tra il 15 e il 16 settembre 1922 parteciparono a Saint-Imier (Svizzera) un centinaio di militanti anarchici provenienti da tutta Europa tra cui Errico Malatesta (qui nella foto), unico superstite dello storico congresso del 1872 che segnò la definitiva divisione in due tronconi dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (nota anche come Prima Internazionale). Era stato convocato dalla corrente bakuninista (antiautoritaria) della Prima Internazionale che rifiutava la legittimità del congresso riunitosi dal 2 al 7 settembre 1872 a L'Aia (Paesi Bassi) per iniziativa di Karl Marx e Friedrich Engels.



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