martedì 3 aprile 2018

Capitalismo di Stato sovietico?


Storia di un’idea

Capitalismo di Stato sovietico?

di W. Jerome e A. Buick
(con postilla di R. Mondolfo)


La differenza fra il sistema sovietico e il sistema sociale dell’Europa occidentale e del Nord America sembra così marcata da giustificare una etichetta distintiva; e l’etichetta che è stata adottata per un sistema di proprietà statale dei principali mezzi di produzione è «socialismo». L’ampio accordo, tuttavia, non nasconde divergenze radicali di svariate gradazioni d’opinioni, che rifiutano di applicare la denominazione «socialismo» al sistema sovietico. Ma fra gli stessi dissenzienti non c’è accordo riguardo alla definizione che dovrebbe applicarsi. Il fine di questo saggio è considerare la storia di quella definizione che descrive l’Unione Sovietica come una società capitalista di Stato. Questa teoria è stata sostenuta da tre diversi gruppi ben distinti ideologicamente: 1) i marxisti ortodossi; 2) i «comunisti dei consigli»; 3) i leninisti dissidenti.

I Marxisti ortodossi

Riuscirà probabilmente una sorpresa per la maggior parte dei lettori apprendere che è la scuola di lingua inglese del marxismo tradizionale, derivante dalla Federazione socialdemocratica di Hyndman, e rappresentata dal piccolo Partito Socialista di Gran Bretagna (SPGB) e dagli ancor minori partiti fratelli dei paesi di lingua inglese (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda, Stati Uniti) quella che ha, senza esitazione, affermato che la rivoluzione bolscevica ha portato ad una società capitalista di Stato. Il SPGB si oppose alla guerra del 1914-18, e perciò approvò decisamente l’azione anti-imperialista dei bolscevichi russi, pur condannando la tattica leninista (che riteneva opportunista) sollecitante i lavoratori inglesi a sostenere il Partito laburista. Il SPGB riteneva che il partito bolscevico fosse formato da socialisti intenzionati ad introdurre un sistema di proprietà sociale. Tuttavia il SPGB predisse che questo tentativo sarebbe fallito per la mancanza di un requisito fondamentale per il socialismo, cioè l’esistenza di un’industria moderna e di un proletariato con mentalità socialista. Lenin stesso ammetteva che la proprietà sociale era fuori questione in Russia finché il capitalismo non avesse portato ad un alto sviluppo della produzione sociale. Egli si riferiva all’attività del settore nazionalizzato dell’economia (che era solo un piccolo settore a quel tempo) come ad una forma di capitalismo di Stato. Il SPGB citò Lenin su questo punto, ma ciò non bastava a definire il sistema sociale della Russia sovietica come capitalismo di Stato. La maggior parte della società russa, come Lenin ammetteva, consisteva in un classico sistema di rapporti capitalistici, ben noto in occidente, che coesisteva con una produzione contadina semifeudale e perfino con attività prefeudali di pastorizia e caccia. Poiché il SPGB credeva che lo sviluppo del capitalismo fosse una premessa necessaria al socialismo, esso non condannò Lenin e i bolscevichi. Tuttavia insistette nell’affermare che la Unione Sovietica non era una società socialista, e, inoltre, nel sostenere che il «dominio di una minoranza — sia pure minoranza marxista — non è socialismo». Fu solo nel periodo 1929-30 che cominciò ad applicare il termine capitalismo di Stato alla URSS, quando Stalin collettivizzò l’agricoltura e organizzò una produzione pianificata di merci sotto il controllo dello Stato. In Germania, diversamente dalla Gran Bretagna, i socialisti marxisti avevano un largo seguito e favorevoli prospettive per giungere a posizioni di governo. Dal 1918 il SPD era dunque partito di governo, e l’atteggiamento del suoi dirigenti di fronte al governo bolscevico era determinato più da considerazioni politiche immediate che da una analisi teorica. Perfino Karl Kautsky, la guida ideologica della socialdemocrazia tedesca (sebbene membro dell’opposizione formata dal Partito Socialista Indipendente nel 1918), non tentò alcuna particolare analisi economica della società sovietica. Tuttavia in vari suoi scritti di critica ai bolscevichi si riferì all’Unione Sovietica come a una società di capitalismo di Stato. In Terrorismo e comunismo egli dice: «il capitalismo industriale, lungi dall’essere un sistema privato, è diventato ora un capitalismo di Stato» «Oggi (…) ambedue, stato e burocrazia capitalista, sono fusi in un unico sistema». Tuttavia questo concetto non venne elaborato più a lungo; evidentemente Kautsky considerava la Russia matura solo per l’abolizione dei rapporti feudali della terra, ma non per l’abolizione del capitalismo. Entrambi, Kautsky ed i bolscevichi, credevano che la proprietà statale dei mezzi di produzione e un sistema di retribuzione mediante salario fossero compatibili col socialismo. Essi concordavano altresì nel ritenere che sebbene una società senza salariati e senza Stato possa essere possibile nel futuro, gli sforzi immediati dovessero essere diretti a fini meno ambiziosi. Kautsky e i bolscevichi non erano invece d’accordo sui mezzi adatti ad ottenere questo obiettivo minore. Molte critiche kautskiane al regime instaurato dai bolscevichi erano fondate sul fatto che la loro azione repressiva negava la democrazia politica, e senza democrazia politica la classe lavoratrice non poteva controllare la macchina economica a cui era soggetta, per cui era lasciata nella stessa posizione in cui si trovava in qualsiasi paese capitalista. Di fatto, i lavoratori russi erano in una situazione peggiore di quella del lavoratori di quei paesi dove prevaleva qualche forma di democrazia politica. Più tardi Kautsky parlò di Lenin «che usava il potere statale per la creazione del suo capitalismo di Stato». Egli spiegava che la Russia potrebbe diventare socialista «solo quando il popolo espropri gli espropriatori». «Un cambiamento nelle relazioni formali di proprietà non basta per stabilire il socialismo, perché occorre anche il controllo democratico dello Stato da parte del lavoratori. Mancando questo, i lavoratori si trovano, rispetto al problema del controllo del mezzi di produzione, nella stessa situazione che ha di fronte a sé il lavoratore nei paesi capitalisti». Per Kautsky il controllo democratico del mezzi di produzione attraverso il potere politico era la differenza essenziale fra socialismo e capitalismo di Stato. In scritti ulteriori erano usati da lui altri termini, ma la sua critica rimase sostanzialmente la stessa. Un altro eminente teorico, l’austriaco Otto Bauer, in linea con la tradizione critica marxista nei confronti della rivoluzione bolscevica, affermava che la mancanza di forti e vitali istituzioni democratiche in Russia, così come la sua arretratezza economica, impedivano il raggiungimento del socialismo. Ma a differenza di Kautsky, Bauer prevedeva una graduale maturazione e democratizzazione del regime sovietico. Egli riteneva che il programma di industrializzazione dei bolscevichi avrebbe condotto a una «razionalizzazione economica». Questa a sua volta avrebbe portato alla conseguenza che Bauer credeva derivante dallo sviluppo economico: la democrazia politica. Così egli si aspettava che il regime sovietico divenisse più democratico: «dal dittatoriale capitalismo di Stato sorgerà un ordinamento socialista della società». In certo senso il capitalismo di Stato russo stava costruendo il socialismo. Bauer credeva che la transizione dal capitalismo di Stato al socialismo non avrebbe richiesto una rivoluzione politica, e quindi si opponeva al veemente incitamento di Kautsky per una nuova rivoluzione russa contro i bolscevichi. Al pari di Kautsky, Bauer non usò sempre gli stessi termini nell’analisi dell’URSS come forma di capitalismo. Occasionalmente egli usò il termine «socialismo dispotico». I socialdemocratici tedeschi ed austriaci si opponevano ai bolscevichi a causa delle caratteristiche dittatoriali del loro potere. Quando definivano il regime sovietico «quale capitalismo di Stato», era più per motivi politici che economici. A differenza del SPGB e degli altri partiti socialisti, i socialdemocratici tedeschi non pensavano che il sistema della retribuzione mediante salario, la moneta e lo Stato fossero incompatibili col socialismo. Per i socialdemocratici tedeschi, socialismo significava il controllo democratico delle forze produttive di una società altamente industrializzata. Inoltre la rivalutazione del significato del sistema socio-economico sovietico negli anni ‘30 accentuava la distinzione fra il capitalismo tradizionale e la società sovietica. Nel 1940 l’eminente teorico socialdemocratico Rudolf Hilferding pubblicò una critica della teoria del capitalismo di Stato dell’URSS, nel periodico di lingua russa di New York, Socialist Courier. Hilferding indicava come segno distintivo del capitalismo un’economia di mercato, nella quale i prezzi sono il risultato di un minimo di concorrenza fra i diversi proprietari dei mezzi di produzione. Questa concorrenza «in ultima analisi dà origine alla legge del valore», e determina che cosa e quanto è prodotto. «Un’economia di Stato, tuttavia, elimina precisamente l’autonomia della legge economica... Non è più il prezzo, ma una commissione statale pianificatrice che determina la produzione». Hilferding definiva l’Unione Sovietica come una nuova organizzazione economica né capitalista, né socialista, come una economia di Stato totalitario. L’economia nazista tedesca e quella fascista italiana eran specie meno sviluppate di questo genere.

I marxisti russi, presenti soprattutto nella frazione menscevica dell’antico partito socialdemocratico russo, seguivano la tradizionale posizione marxista, secondo la quale il socialismo poteva succedere allo sviluppo del capitalismo solo nei paesi che eran passati attraverso la rivoluzione borghese. Ora, dato che la Russia non aveva sviluppato il capitalismo che in misura insufficiente e che la rivoluzione borghese era avvenuta solo recentemente, la Russia non era matura per il socialismo. Nello sviluppo economico, secondo la concezione marxiana, il capitalismo precede II socialismo: così vi era fra i menscevichi una tendenza a definire la società sovietica come capitalismo incipiente.
Nel 1919 uno dei capi menscevichi, Giulio Martov, scrisse Lo stato e la rivoluzione socialista in risposta a Stato e rivoluzione di Lenin. Nel condannare la dittatura di una minoranza, Martov affermava che «la classe proletaria considerata come un tutto (…) è la sola possibile costruttrice della nuova società, e deve essere quindi il solo successore della classe che era prima alla direzione dello Stato». Ciò esigeva piena democrazia ed una situazione incompatibile con una dittatura di minoranza. Ne conseguiva che la Società sovietica non era socialista; ma poteva essere definita come Capitalista? Questo problema non aveva una chiara risposta neppure da parte di Martov. Poiché i bolscevichi di questo periodo parlavano essi stessi di un capitalismo di Stato russo, era naturale che numerosi menscevichi accogliessero questa definizione.
Martov morì nel 1922, e il suo compagno di partito Abramovich condivise la posizione di Kautsky, cioè che quella russa era una nuova società di classe, basata sulla dittatura terroristica. Teodoro Dan sviluppò una posizione alquanto simile a quella trotskista, cioè che l’URSS era un tipo di stato operaio. Questa teoria era combattuta da altri menscevichi, come Solomon Schwarz e Aron Yugow, che adottarono una teoria secondo la quale la Russia sovietica era uno stato diretto da «managers». Finalmente i menscevichi giunsero ad adottare la tipica veduta socialdemocratica, che cioè l’URSS fosse un tipo di nuova società «totalitaria». Tuttavia l’opinione di molti antichi socialdemocratici russi riguardo al regime sovietico si manifestò con riferimenti occasionali al capitalismo di Stato russo. Sebbene Yugow alla fine giungesse a ribadire, come altri socialdemocratici, la sua teoria dell’Unione Sovietica come stato manageriale, per un certo periodo egli diede della natura della società sovietica una valutazione di capitalismo di Stato, argomentando che la mancanza di socialismo, che può svilupparsi solo nei paesi altamente industrializzati, precludeva qualsiasi «salto» russo dalla condizione precapitalista direttamente al socialismo. «Noi abbiamo visto che la nazionalizzazione dell’industria in Russia non ha prodotto una economia socialista, ma solo un capitalismo di Stato burocratico e mal funzionante». Come Trotsky, Yugow credeva che i burocrati cercassero di estendere il loro potere sino a giungere ad un ripristino della proprietà privata dei mezzi di produzione.
II ramo italiano del marxismo tradizionale, cioè di quei socialisti che accettano Marx ma respingono Lenin, è del tutto scomparso con l’abbandono de facto dell’adesione al marxismo da parte dei partiti affiliati alla Seconda Internazionale. I socialdemocratici italiani, cioè il PSDI, che rappresentano gli eredi della tradizione socialdemocratica, sostengono che l’URSS è una dittatura totalitaria in una società capitalista di Stato. In generale il PSDI conserva una opinione simile a quella del ramo germanico e dei menscevichi russi. Come gli altri socialdemocratici, il PSDI non s’impegna neppure esso in alcuna profonda analisi teorica della società sovietica. I socialdemocratici italiani di questa convinzione, come i loro compagni tedeschi e russi, credono che nazionalizzazione e pianificazione più democrazia politica sia uguale a socialismo, mentre nazionalizzazione e pianificazione meno democrazia sia uguale a capitalismo di Stato.

I Comunisti dei consigli

Volgiamoci ora alla seconda, maggiore categoria di teorici dell’ala sinistra, che considerano l’economia sovietica come capitalismo di Stato, cioè ai «comunisti dei Consigli». I comunisti dei consigli non si consideravano seguaci di Lenin, né erano legati con alcuna fazione del partito bolscevico di Russia. Poiché essi derivano le loro posizioni da Marx, pur non considerandosi seguaci di alcuni degli eminenti suoi interpreti, come Kautsky, Lenin, Trotsky, etc., potrebbero esser considerati marxisti tradizionali. Questo ravvicinamento non sarebbe del tutto inesatto, tuttavia ci sono parecchie differenze fra i comunisti dei consigli e gli altri marxisti tradizionali. La prima è il loro antico collegamento col movimento anarchico e il successivo accordo con gli anarchici su molti punti di tattica. La seconda sarebbe la loro temporanea adesione alla Terza Internazionale ed ai partiti comunisti dei rispettivi paesi. Infine il loro particolare entusiasmo per i Soviet o consigli dei lavoratori, come mezzo per effettuare la rivoluzione sociale (mezzo preferibile allo stato, alle trade unions e ai partiti politici), li distingue dai marxisti tradizionali che non condividono tale entusiasmo. L’origine dei comunisti dei consigli è stata ricondotta al gruppo di Herman Gorter ed Anton Pannekoek prima del 1914; questi marxisti olandesi erano stati originariamente membri del partito social democratico del lavoro (SDAP), che aveva antichi legami col movimento anarchico; infatti il fondatore della socialdemocrazia olandese, Domela Nieuwenhuis, diventò poi definitivamente anarchico. Quando il SDAP procedette in direzione riformista, un gruppo di sinistra, compresi Gorter e Pannekoek, formò un’organizzazione separata, il Partito socialdemocratico, che, quando scoppiò la guerra, denunciò i socialisti favorevoli alla guerra come traditori dei principii socialisti. Essi salutarono la rivoluzione bolscevica come un movimento anti-imperialista della classe lavoratrice e furono attratti verso i Soviet come spontanea istituzione di lavoratori immune dalla degenerazione dei partiti politici e delle trade unions. Questi marxisti olandesi, con gruppi affini tedeschi e inglesi, si raccolsero nel partito comunista. L’insoddisfazione per la tattica voluta dal Comintern e la disapprovazione delle misure repressive dei bolscevichi, così come la soffocazione della rivolta di Kronstadt, li indusse a lasciare il Comintern. In Germania la maggioranza del Partito comunista concorse a formare il Partito comunista dei lavoratori (KAPD). Dapprima Lenin tentò di guadagnare questi dissenzienti alle sue vedute, ma quando questo tentativo fallì, egli pubblicò il suo saggio «L’estremismo malattia infantile del comunismo» contro di loro. Herman Gorter rispose con Lettera aperta al compagno Lenin. Pannekoek poi criticò la filosofia di Lenin nel suo Lenin come filosofo. II movimento comunista dei Consigli era composto di piccoli gruppi in Germania, Olanda, Gran Bretagna, Francia, Belgio e Stati Uniti; Karl Korsch, eminente comunista tedesco, si legò a questo movimento. Esso si opponeva alle Trade Unions come appendice della Stato che spinge i lavoratori l’uno contro l’altro, condannavano l’attività parlamentare come un’impostura che incoraggiava le illusioni riformiste, ritenevano che la rivoluzione dovesse implicare la formazione di consigli di lavoratori che guadagnassero l’appoggio della classe lavoratrice, ponessero fine alla dominazione capitalista e giungessero ad amministrare l’industria sotto la guida di un’autorità centrale pianificatrice. Movendo dall’ammissione di Lenin che si stava sviluppando in Russia un capitalismo di Stato, i comunisti dei consigli venivano alla conclusione che il capitalismo di Stato bolscevico era puramente e semplicemente un altro tipo di capitalismo. Le relazioni del lavoro salariato col capitale rimanevano le stesse: «il fine leninista, di un capitalismo di Stato sotto il controllo del lavoratori, ha invece escluso interamente i lavoratori; ciò che è rimasto è il capitalismo di Stato».
Herman Gorter vedeva nella presa bolscevica del potere una tentata rivoluzione socialista, ma fallita a causa della resistenza dei contadini. La necessità di guadagnare l’appoggio contadino portò i bolscevichi a compromettere la loro posizione fin dal principio: per esempio, con l’approvare la divisione della terra in piccoli poderi tenuti dai contadini come proprietà private. Tuttavia Gorter considerava misure quali la nazionalizzazione dell’industria, la distribuzione di beni di consumo senza moneta, e la istituzione del consigli di lavoratori come «proletarie e comuniste»; ma quando il malcontento contadino forzò i bolscevichi ad abbandonare queste misure ed a introdurre la nuova politica economica (NEP) «il comunismo svani come un fantasma e il capitalismo riapparve». Gorter condannava la «dittatura di partito» e il«dispotismo burocratico» bolscevico, e si riferiva al sistema che si andava sviluppando come a un «capitalismo di Stato». Egli dissentiva dal consiglio di Lenin di collaborare con i socialdemocratici in occidente in un fronte unico, tuttavia giustificò il fallimento dei bolscevichi perché «voi dovevate battere in ritirata posto che la rivoluzione europea non si è realizzata». La responsabilità reale dei bolscevichi fu quella di introdurre un programma e una tattica controrivoluzionaria nel movimento proletario mondiale. Il gruppo di gran lunga più numeroso dei comunisti dei consigli fu il Partito Comunista dei Lavoratori di Germania. Il loro Manifesto della Quarta Internazionale Comunista dichiarava che la rivoluzione russa comprendeva in realtà due rivoluzioni. Nelle grandi città rappresentava un cambiamento dal capitalismo al socialismo; nelle campagne rappresentava un cambiamento dal feudalesimo al capitalismo. Questa contraddizione si era da ultimo risolta in favore del capitalismo. I bolscevichi erano costretti a riconoscere la proprietà privata, quindi la tassazione, e infine la produzione capitalistica basata sul profitto. Lo Stato e la macchina economica erano controllati dalla burocrazia, il cui personale consisteva di commercianti, di ex ufficiali del vecchio regime, etc., perché costoro possedevano i necessari requisiti di istruzione e di esperienza amministrativa. Così cominciava un antagonismo fra il governo sovietico e il proletariato. La fame e la disperata necessità di merci estere significava che i bolscevichi dovevano arrivare a molti compromessi col capitalismo internazionale. Essi erano costretti a compiere una rivoluzione borghese. Il capitalismo crea la divisione di classi nella società, gli antagonismi di classe e la lotta di classe fra borghesia e proletariato. «L’introduzione del capitalismo in Russia, come è ora avviata dal governo sovietico, deve essere accompagnata dalla stessa divisione di classi, dalla stessa lotta di classe». Anton Pannekoek rilevava che la nuova classe dominante che sorgeva nell’URSS non era una nuova borghesia, giacché i suoi membri non possedevano i mezzi di produzione individualmente come la borghesia, ma collettivamente. Era più esatto definire la nuova classe dominante una burocrazia, e il sistema «capitalismo di Stato anziché privato».  
Karl Korsch credeva che il passaggio in tutto il mondo dal capitalismo privato della concorrenza al capitalismo pianificato monopolistico o statale, fosse inevitabile e irreversibile. I comunisti dei consigli oggi superstiti argomentano che la destalinizzazione rappresenta un trasferimento del potere dai burocrati del partito ai dirigenti del vertice politico, economico e militare.

I leninisti dissidenti

Volgiamoci ora alla terza maggiore tendenza di coloro che applicano all’URSS la teoria del capitalismo di Stato, cioè i leninisti dissidenti.
Nel 1918 una frazione che ebbe vita breve, i cui membri i definivano come «comunisti proletari» e che comprendeva Bukharin, Radek, Ossinsky ed altri, pubblicava un foglio d’opposizione, Kommunist, in cui dichiarava che la repubblica sovietica minacciava di evolvere nella direzione del capitalismo di Stato. Questa posizione provocò una replica decisa da parte di Lenin, il quale rispondeva che il capitalismo di Stato sarebbe stato comunque un progresso rispetto alle condizioni preesistenti.
La frazione presto si sciolse, ma i suoi presagi restarono nella mente di molti bolscevichi, e quando nel 1921 il partito fu di nuovo forzato dalle circostanze a battere in ritirata e introdurre la Nuova Politica Economica (NEP), le vedute della sinistra bolscevica riapparvero. Dei molti e diversi piccoli gruppi di questo periodo, alcuni ritenevano che la Russia sovietica avesse cominciato a muoversi nella direzione del capitalismo di Stato. Questi gruppi, uno del quali era legato con la KAPD, furono soppressi e vari dei loro membri, compreso Anton Ciliga, furono inviati in Siberia. Altri andarono in esilio. Per vari aspetti questi bolscevichi di sinistra si avvicinavano agli anarchici e ai sindacalisti. Boris Souvarine e Victor Serge possono essere considerati di questa tendenza.
Dopo la morte di Lenin, la lotta per il potere fra i suoi successor implicò una critica del cammino lungo il quale il partito stava conducendo il paese. Zinoviev portò nella controversia il concetto di capitalismo di Stato. Egli distingueva il «capitalismo di Stato in uno Stato proletario» dal capitalismo di Stato in un paese borghese, dove il controllo statale resta nelle mani della borghesia. Questa distinzione era stata adottata anche da Lenin.
Zinoviev sosteneva che, in mancanza di un’espansione della rivoluzione mondiale, la Russia si sarebbe spinta sempre più a svilupparsi in una direzione capitalista. Il suo argomentare si imperniava sulle relazioni fra operai e direzione. L’industria statale nell’Unione Sovietica non era socialista, ma capitalista di Stato. Il socialismo significa, più che la nazionalizzazione dell’industria, un cambiamento fondamentale nelle relazioni fra uomo ed uomo. L’industria di Stato e sfruttatrice come l’industria privata. II socialismo implica un cambiamento nelle relazioni fra lavoratori e direzione industriale; i lavoratori devono avere il controllo della direzione. Nuove vie, diceva Zinoviev, devono trovarsi per difendere i lavoratori russi contro lo sfruttamento dello Stato russo. Anche Kamenev, si riferiva al capitalismo di Stato in Russia. Al quattordicesimo Congresso del Partito la questione della definizione leninista del capitalismo di Stato venne alla ribalta. La maggioranza accolse l’interpretazione che Lenin pensasse che l’industria nazionalizzata dell’URSS fosse già di tipo socialista, ma che, in quanto lo Stato incoraggiava l’esistenza di milioni di contadini interessati alla produzione per il mercato, e in quanto lo Stato offriva concessioni a capitalisti stranieri e locali, stava incoraggiando con ciò il capitalismo e quindi poteva chiamarsi «capitalismo di Stato».
Ciò era naturalmente in contrasto diretto con l’opinione di Zinoviev, che la stessa industria nazionalizzata era un capitalismo di Stato, dato che i lavoratori non potevano scegliere i dirigenti. Altro argomento riguardo al carattere di capitalismo di Stato dell’Unione Sovietica era usato dai seguaci del comunista italiano Amadeo Bordiga. Costoro negavano che, in una fase data dello sviluppo economico, il socialismo potesse essere stabilito attraverso il progresso del capitalismo di Stato. Il partito bolscevico conquistò il potere in una rivoluzione proletaria, ma Lenin riconobbe che fino a quando la rivoluzione non si fosse prodotta anche altrove, egli non aveva altra scelta che contare sul capitalismo privato e il capitalismo di Stato per sviluppare la società russa. Lo sviluppo capitalista portava al vertice una nuova classe di capitalisti che erano in grado di liquidare lo Stato operaio stabilito da Lenin. I salari degli amministratori implicavano una forma velata di plusvalore; un’altra forma era l’interesse sulle obbligazioni di Stato. L’economia dello Stato russo era soggetta alle stesse leggi di sviluppo di ogni altra società capitalistica. A differenza dai bolscevichi di sinistra e dai trotskysti, i bordighiani rifiutavano di sostenere che lo «stato operaio» stabilito da Lenin fosse una forma economica degenerata a causa dell’avvento del capitalismo di Stato. Lo «Stato operaio» era per essi un esperimento politico tendente a realizzare il socialismo in un paese arretrato, nella speranza che i paesi avanzati volessero compiere una rivoluzione che rendesse possibile quel tentativo. La Russia era passata da un capitalismo semifeudale a un capitalismo di Stato, mentre la struttura politica rimaneva nelle mani di un partito originariamente legato al socialismo, ma costretto dalle circostanze a sostituire questo legame con un compromesso col capitalismo di Stato.
Altro comunista dissidente che sosteneva vedute analoghe era lo iugoslavo Anton Ciliga. Egli scorgeva tre sistemi sociali in conflitto: capitalismo di Stato, capitalismo privato e socialismo. Questi tre sistemi rappresentavano tre classi: la burocrazia, la borghesia (comprendente i contadini agiati) e il proletariato. Tanto Stalin quanto Trotsky «avevano bisogno di spacciare lo Stato come se fosse uno Stato “operaio”, la dittatura burocratica sul proletariato come dittatura proletaria, la vittoria del capitalismo di Stato tanto sul capitalismo privato che sul socialismo come vittoria di quest’ultimo... Abbiamo mostrato con abbondanti particolari che il sistema presente in Russia ha conservato tutte le caratteristi che essenziali del capitalismo: produzione di merci, salari, mercato di scambio, moneta, profitto e perfino ripartizione del profitti fra i burocrati nella forma di alti stipendi, privilegi, e così via». Anche la Lega comunista iugoslava applicò talvolta l’etichetta di «capitalismo di Stato» all’URSS durante le sue dispute con Mosca. Tuttavia, dato che le analisi titoiste della struttura sociale sovietica oscillarono grandemente a seconda delle esigenze della politica estera di Belgrado, è impossibile considerare questa definizione intellettualmente seria. È interessante notare che, nella presente disputa cino-sovietica, la stessa Jugoslavia è stata denominata un capitalismo di Stato, e che a volte i cinesi sembrano riferirsi anche all’URSS in questo stesso modo. I seguaci di Leone Trotsky hanno dato luogo ad un gran numero di gruppi distinti, molti dei quali adottarono la tesi del capitalismo di Stato per quanto concerne la natura sociale dell’URSS. Benché Trotsky considerasse il capitalismo di Stato (cioè la completa proprietà statale dei mezzi di produzione nell’interesse del capitale) possibile teoricamente, egli rifiutava di applicare questa formula all’Unione Sovietica. Egli credeva che la proprietà nazionalizzata, conservata nella Russia di Stalin, rappresentasse un progresso sopra la proprietà individuale e delle grandi imprese di altri paesi. L’URSS era uno stato operaio degenerato, ma che doveva essere «difeso» contro aggressioni esterne. Tuttavia le difficoltà di applicare queste vedute conducevano a una riconsiderazione della «questione russa» ed alla graduale separazione di diversi gruppi dai trotskisti ortodossi. Nel 1939 una frazione dell’organizzazione trotskista, il Partito socialista dei lavoratori dell’USA, guidata da Max Schachtman, formò il Partito dei lavoratori. La maggioranza di questo partito sosteneva che l’URSS era una società collettivista burocratica, mentre una frazione minoritaria, guidata da F. Forest (nome letterario di Raya Dunayevskaya a da J. Johnson (nome letterario di C.L.R. James), la riteneva una società capitalista di Stato. Nel 1947 questo gruppo si unì al SWP, ma lo lasciò di nuovo nel 1951. Essi ora diffondono un periodico chiamato News and Letters (Notizie e lettere) edito da Raya Dunayevskaya, che fu la prima a condurre un’analisi particolareggiata di una certa ampiezza sul significato e la funzione del capitalismo di Stato nell’URSS.
In Gran Bretagna si produsse uno sviluppo simile. Un trotskista inglese di nome Worral espose una analisi della economia capitalista di Stato sovietica in Left nel 1939, ed un altro trotskista inglese, Tony Cliff, pubblicò nel 1955 Stalinist Russia (ripubblicato nel 1964 come: Russia: a Marxist Analysis) in cui si faceva un’analisi particolareggiata dell’URSS come capitalismo di Stato. Entrambi, Cliff e la Dunayevskaya, vedono l’URSS sottoposta alle stesse leggi di sviluppo delle società occidentali. In questo sviluppo la legge del valore, l’accumulazione del capitale, la mancanza di correlazione fra produzione di beni strumentali e produzione di beni di consumo, la caduta del saggio del profitto, la disoccupazione e tutte le altre contraddizioni del capitalismo sono inesorabilmente collegati fra loro. Come la maggioranza dei marxisti ortodossi, essi vedono l’assenza di democrazia politica come una differenza essenziale fra socialismo e sistema sovietico. Tuttavia, a differenza dei comunisti e dei bordighiani, i trotskisti sostengono che Lenin stabilì un sistema distinto tanto dal capitalismo quanto dal socialismo, cioè uno Stato operaio, che essi ritengono una forma di transizione sul cammino del socialismo, ma che, disgraziatamente, non raggiunse mai la sua meta. Questa posizione causò dissensi nelle file europee dei leninisti dissidenti. Il giornale Socialisme ou Barbarie insorse contro l’idea che la Unione Sovietica sia uno Stato operaio. I redattori di Socialisme on Barbarie pur considerando la rivoluzione bolscevica come una rivoluzione proletaria, attribuiscono a Lenin ed alla introduzione di una direzione personale unica la responsabilità di aver sparso il seme della degenerazione. È il potere dei lavoratori comuni di scegliere i loro dirigenti, quello che è considerato specialmente significativo. Senza questo potere, i lavoratori cadono sotto il dominio della classe dirigente.
All’infuori dei tre principali punti d’arrivo della teoria del capitalismo di Stato nell’Unione Sovietica, indicati più sopra, c’è tutto un vasto assortimento di adesioni individuali a questo concetto da parte di commentatori che si estendono largamente su tutto l’arco politico. Solo uno di essi, Henry Pachter, ha recato un contributo originale alla teoria. Per lui la differenza fra una economia socialista e qualsiasi altra è «il divorzio della produzione dalla classe capitalistica o proprietaria». In una economia socialista i beni entrano nei fondi di consumo della società e sono distribuiti ed usati a seconda dei bisogni, senza altro fine, quale la massimizzazione del profitto, mentre sotto un sistema di capitalismo di stato, quale si è imposto in URSS, le relazioni di proprietà governano ancora i calcoli economici. Il sistema di equazioni rappresentante i rapporti fra compratori e venditori deve essere ancora bilanciato. Come afferma Pachter: «in un regime di scarsità, beni e servizi hanno prezzi che sono determinati dai costi di produzione (...) quale che sia il loro sistema di equazioni, esso deve comportare una soluzione simultanea, il servizio dev’essere pagato; il capitale dev’essere ammortizzato e deve produrre interesse; anche se la produzione può essere nazionalizzata, i rapporti di proprietà governano ancora tutti i calcoli economici».

Conclusione

Nella serie di interpretazioni del capitalismo di Stato nell’Unione Sovietica, vi sono due punti d’arrivo fondamentali. Uno ritiene che esiste capitalismo dove i lavoratori non possono controllare il meccanismo economico che governa le loro vite. Quindi un sistema di proprietà statale senza democrazia pratica significa capitalismo di Stato. L’altro punto d’arrivo ritiene che il capitalismo, cioè il sistema sociale fondato sul capitale, significa società basata sul salario, sulla moneta, sui prezzi e sulla proprietà privata sostenuta dal potere statale. La differenza fra le due maniere di trattare la questione si riferisce al significato fondamentale di capitalismo e socialismo nell’età moderna. Poiché la nostra presentazione vuol essere principalmente una storia della teoria del capitalismo di Stato sovietico, non abbiamo discusso il merito di questa teoria nelle sue varie versioni. A questo punto è opportuno considerare il punto di vista di Milovan Gilas. Dapprima egli accetta la teoria, ma poi avvertì che questa definizione era causa di confusione, perché la nuova classe dirigente occupava una posizione differente dall’antica.
Egli ammette che sotto il regime sovietico «le relazioni sociali somigliano al capitalismo di Stato» e che i governanti si comportano come se stessero attuando un sistema di capitalismo di Stato; ma sottolinea che la classe dominante nel regime sovietico è una nuova classe, «prima sconosciuta alla storia». Nonostante la sua osservazione che la proprietà è nient’altro che il diritto al profitto e al controllo, egli conclude: «se si definiscono i benefici di classe con questo diritto, gli Stati comunisti hanno visto, in ultima analisi, la nascita di una nuova forma di proprietà o di una nuova classe dominante e sfruttatrice».
 La sua conclusione non ha bisogno di esplicitazione. Se proprietà è uguale a controllo, a se i burocrati controllano la proprietà di stato, allora essi sono de facto proprietari. Forse per «profitto» Gilas pensa ai «dividendi», nel senso di una ripartizione formale del profitto. Tuttavia se il profitto è considerato nel senso marxistico di plusvalore, e se i burocrati estraggono o consumano il plusvalore attraverso il sistema di mercato, allora essi sono capitalisti nel senso marxista tradizionale.
L’esitazione di Gilas fa risaltare una difficoltà concernente le teorie del capitalismo di Stato. Se le relazioni nell’Unione Sovietica sono le stesse di quelle delle classiche società capitalistiche (lavoro salariato di fronte a capitale), in cui i lavoratori sono costretti dalla necessità economica a vendere ai proprietari dei mezzi di produzione la loro forza-lavoro in cambio di salario, tuttavia la classe dominante sovietica ha una posizione legale differente da quella dei capitalisti. Nei paesi comunisti tutti i burocrati hanno un reddito costituito da retribuzione. Per acquistare questo reddito essi, come qualsiasi lavoratore, vendono la loro forza lavoro. Quindi, a prima vista, i burocrati sembrano essere soltanto lavoratori, non differenti sotto questo rispetto fondamentale, dagli altri salariati. Dunque? Abbiamo forse un sistema capitalista e relazioni sociali capitalistiche, ma non una classe capitalistica legalmente distinta dalle altre classi?
I sostenitori della teoria del capitalismo di Stato potrebbero dire che è vero che, legalmente, i burocrati non posseggono individualmente tale posizione. Tuttavia è la sostanza, non la forma, che è decisiva, e le forme legali non sempre riflettono la sostanza. Nel medioevo la nobiltà non era proprietaria dei mezzi di produzione (terra). Essa non aveva un titolo di proprietà basato sul feudo, ma un usufrutto; cioè non poteva alienare la terra (mediante lascito, vendita, etc.) ma solo usarla. Il diritto dei nobili a controllare la terra era subordinato all’adempimento dei loro doveri verso i loro superiori feudali. Il clero superiore era parte della classe dominante, e molti membri del clero avevano più ricchezza e potenza che il nobile laico. Tuttavia papi, vescovi, abati, etc. non erano proprietari secondo un loro diritto proprio. Piuttosto essi controllavano le organizzazioni corporative — diocesi, abbazie, etc. — che disponevano del titolo di proprietà. In maniera simile, si argomenta, i burocrati dell’URSS formano una classe dominante. Col controllare il potere politico che possiede la proprietà, essi, in effetti, controllano la proprietà: la burocrazia di Stato possiede lo Stato come proprietà privata. Il concetto di una classe dominante che non possiede titolo legale alla proprietà che controlla non è così inconcepibile come può apparire a prima vista.
W. Jerome e A. Buick



Postilla


di Rodolfo Mondolfo

Gli autori di questa rassegna storica delle vane correnti socialiste, che han considerato il regime sorto dalla rivoluzione russa come un capitalismo di Stato (ben diverso dalla vantata realizzazione del socialismo e delle sue esigenze caratteristiche) han ricordato, fra gli altri, anche il ramo italiano del marxismo tradizionale, rappresentato dalla Critica Sociale, affermante che la nazionalizzazione e pianificazione, solo se associate alla democrazia politica, possono costituire il socialismo, ma dissociate da essa costituiscono un capitalismo di Stato. Chiamati così in causa personalmente da questo breve accenno alle discussioni critiche svolte in questa rivista sul disputato argomento, sentiamo la necessità di un breve commento all’interessante rassegna compiuta da Jerome e Buick, al fine di mettere in maggior luce il punto che a noi pare essenziale a questo proposito.
Rileviamo anzitutto che, pur nella diversità di orientamenti fra le tre correnti (dei marxisti ortodossi, dei comunisti dei consigli e dei leninisti dissidenti), che gli autori dello studio distinguono, l’interpretazione del regime sovietico quale capitalismo di Stato è comunemente accolta — benché con motivazioni in parte differenti, che tuttavia discendono essenzialmente da un riconoscimento dello stesso Lenin, che gli autori giustamente segnalano. E non si tratta (come pure taluno dei critici qui citati par credere) di una conseguenza dedotta dalle concessioni che Lenin faceva al capitalismo privato con la NEP e con le offerte al capitalismo straniero, ma della stessa funzione assunta dallo Stato bolscevico, di compier esso quella accumulazione del capitale e quello sviluppo industriale che in occidente era stato compiuto dalla borghesia, la cui eliminazione operata dallo Stato sovietico, poneva questo nella necessità di sostituirsi ad essa.
Ma questa medesima considerazione portava la maggior parte degli assertori di un capitalismo di Stato nella Russia sovietica ad una impostazione del problema che riguardava l’economia in se stessa, nella sua realtà oggettiva per sé stante, separata dalla considerazione degli uomini come soggetti umani, con i loro problemi e le loro esigenze di umanità. Forse, fra tutti gli autori passati in rassegna in questo studio storico di Jerome e Buick, quello che si è avvicinato a questo aspetto umano del problema è stato il primo dei leninisti dissidenti, Zinoviev, che dichiarava appunto di allacciarsi alle distinzioni leniniane delle varie forme di capitalismo di Stato. Cito qui testualmente la sintesi del pensiero di Zinoviev data dagli autori di questa rassegna storica.
«Il suo argomentare (essi dicono) s’imperniava sulle relazioni fra operai e direzione. L’industria di Stato nell’Unione Sovietica non era socialista, ma capitalista di Stato. Il socialismo significa, più che la nazionalizzazione dell’industria, un cambiamento fondamentale nelle relazioni fra uomo ed uomo. L’industria di Stato e sfruttatrice come l’industria privata. Il socialismo implica un cambiamento nelle relazioni fra lavoratori e direzione industriale; lavoratori devono avere il controllo della direzione. Nuove vie, diceva Zinoviev, devono trovarsi per difendere i lavoratori russi contro Io sfruttamento dello Stato russo».
Dobbiamo porre nella meritata evidenza lo stretto vincolo che lega questa impostazione di Zinoviev col problema che gli scritti giovanili di Marx collocavano alle radici di ogni aspirazione ed esigenza socialista: il problema dell’uomo e del lavoro alienati, il problema del superamento dell’alienazione. II socialismo si trova agli antipodi di ogni alienazione dell’uomo e del lavoro; dove esista simile alienazione si deve parlare di capitalismo che è appunto la negazione dell’uomo e della sua umanità (Unmenschlichkeit), che il socialismo vuole superare (aufheben) nella negazione della negazione.
Ora da questo punto di vista, specialmente, deve esser guardato il problema della classificazione dello stato sovietico in Russia e altrove. Non ci si deve porre dall’angolo visuale dell’organizzazione economica considerata in se stessa e nella formazione di una nuova classe (la classe dirigente dei burocrati) di cui si è preoccupato specialmente Milovan Gilas. Impostando in questo senso la questione, sorge il problema della differenza fra la classe dominante burocratica nei paesi comunisti e la classe capitalistica in senso proprio. La nuova classe ha il controllo dei mezzi di produzione nazionalizzati, ma non ne ha la proprietà (con diritti di eredità, di vendita, etc.) che ne hanno i capitalisti in regime di capitalismo privato; e per la sua sussistenza e per tutti i privilegi e lussi di cui può usufruire dipende dal salario che ricevono le sue prestazioni di opera. Sotto questo aspetto i burocrati sono anch’essi lavoratori salariati (per quanto privilegiati) anziché capitalisti. Si può dire bensì, con Gilas, che «la burocrazia di Stato possiede lo stato come proprietà privata»; ma questo è vero della burocrazia come corpo collettivo, non dei burocrati individualmente. Altrimenti si avrebbe il capitalismo privato, non il capitalismo di Stato; il quale ultimo in certo senso potrebbe considerarsi un capitalismo senza capitalisti.
Ma se sotto questo aspetto la designazione di capitalismo di Stato può presentare problemi e difficoltà, ciò dipende dall’aver impostato la questione da un punto di vista che non è il vero ed essenziale. Non è il problema della classe dominante, dei burocrati, quello che deve stabilire la differenza ed opposizione tra socialismo e capitalismo, ma è invece il problema della classe dominante, del proletariato, del lavoro alienato e dell’umanità allenata, quello decisivo in proposito. Ora l’alienazione del lavoro e dell’uomo vige in pieno nella Russia bolscevica dominata da una dittatura onnipotente e inesorabile, alla cui organizzazione non è aliena neppure l’imposizione del lavoro forzato, e dove i consigli operai non hanno funzioni di tutela del lavoratori e di conquista progressiva dei loro diritti, come accade invece nei paesi del capitalismo privato, ma solo di strumento del dominio dello Stato sui lavoratori individualmente e collettivamente. Perciò il perdurare dell’autoestraniazione del lavoratore — più dura anzi e inesorabile che sotto il capitalismo privato, perché tutta l’organizzazione del potere politico e la forza dei suoi strumenti sono usate per dominare materialmente e spiritualmente gli individui e le masse — ci obbliga a riconoscere al regime sovietico il carattere di capitalismo di Stato. Impostato il problema sulla questione decisiva, della situazione del proletariato lavoratore, che soggiace tuttora in pieno (ancor più che nel capitalismo privato) all’alienazione del lavoro e dell’uomo, la caratterizzazione dello Stato sovietico come capitalismo di Stato non ammette più dubbi o restrizioni; e contro questo perdurare dell’alienazione, appunto, insorge l’esigenza di rivendicazione dell’uomo, che caratterizza il socialismo.
Buenos Aires,
Marzo 1967
Rodolfo Mondolfo


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