mercoledì 19 febbraio 2020

Antonio Labriola

Introduzione

Sono ormai passati 130 anni dall’ingresso di Antonio Labriola nella scena socialista italiana e mondiale. Nonostante non sia mai stato un nome di spicco nel firmamento marxista, Labriola ha avuto picchi di popolarità seppur in circuiti molto ristretti. Probabilmente nonostante sia stato considerato da diversi studiosi del marxismo uno dei suoi filosofi più rigorosi, il suo pensiero filosofico, appunto, è risultato poco accessibile ed è rimasto pressoché sconosciuto ai molti.

Ad ogni modo, mentre in vita aveva un certo ascendente su alcuni socialdemocratici tedeschi, era infatti in relazione epistolare tra gli altri con Bebel e Kautsky. Diviene perciò comprensibile come possa una giovane Angelica Balabanoff, ancora studentessa universitaria in Germania, decidere di trasferirsi in Italia dopo averne sentito parlare così bene da compagni di corso vicini alla Socialdemocrazia. La Balabanoff in una lettera al Mussolini “socialista” teneva molto a precisare la differenza che passava tra Antonio, il professore di filosofia e marxista ortodosso e Arturo, il sindacalista rivoluzionario, che Engels chiamava argutamente “Labriolino”. 

Quando all’età di 47 anni decide di scrivere a Engels, Labriola è già professore ordinario di filosofia e didattica all'Università di Roma, proveniente dalla scuola di Bertrando Spaventa filosofo neo-hegeliano di spicco. Labriola era stato aiutato a più riprese dai fratelli Spaventa nel trovare una degna occupazione, presso i circuiti governativi post-unitari. Prima di approdare al socialismo Labriola aveva già studiato a fondo, oltre Hegel, anche Feuerbach e la scuola di Herbart. Aveva vinto onorificenze nella trattazione degli antichi greci, di Spinoza e di Giambattista Vico. Nel 1871, ben 19 anni prima di diventare socialista, Labriola entra in politica come pubblicista. Scrive dapprima ne «Il Piccolo» e nella «Gazzetta di Napoli», giornali liberali, quindi nell’ «Unità Nazionale» e nella «Nazione» di Firenze. A quel tempo era vicino alla Destra storica, ma per il superamento della vecchia politica risorgimentale, fino a quando nel 1886 tentò di presentarsi come candidato, senza nessuna appartenenza partitica, su posizioni radical-progressiste contro il trasformismo di Depretis. Quindi, soprattutto dopo un viaggio in Germania allo scopo di studiarne il sistema educativo, si avvicina al socialismo scientifico. Inizia quindi un rapporto epistolare con Engels e Turati.

Come marxista, Labriola prese parte al dibattito scaturito dalla pubblicazione del III libro de “Il Capitale”, si occupò della critica di Böhm-Bawerk, ma, soprattutto, delle “sciocchezze” di Achille Loria e dei suoi ammiratori sulla Critica Sociale, tra i quali Turati stesso. La critica di Labriola si riferisce allo schema di riproduzione semplice, il quale evidenzia come la dimensione temporale (ossia il momento dell’acquisto è distinto da quello della vendita) del ciclo produttivo con la conseguente usura dei macchinari, spieghi la discrepanza tra valore contenuto e valore realizzato. Engels nella prefazione al III libro, si trova costretto a criticare la confusione di Loria tra massa del plusvalore e profitto e l’idea di quest’ultimo che il capitale commerciale possegga il “magico potere” di assorbire in sé tutto il plusvalore eccedente il saggio generale di profitto. Si torna quindi al punto esplicitato da Marx, anni prima in una lettera ad Engels, secondo cui Loria interpreta il capitalismo come una sorta di proprietà terriera intesa sotto forma di rendita fondiaria. Marx scrive: “ero divertito e soddisfatto dal suo [di Loria] modo di scusarsi apertamente dell’avere antiquato ‘Il Capitale’ con la sua proprietà fondiaria. Per tutto ciò, riserbo ancora seri dubbi sul carattere di questo giovane” [1]. Labriola, seppur con i suoi limiti in campo economico, enfatizza l’ignoranza di Loria nel non considerare il ciclo produttivo come un elemento dinamico temporale contenente l’usura dei macchinari.

L’apporto originale al marxismo di Labriola fu quello filosofico. Come descrive lui stesso a Engels “vissi per anni con l’animo diviso fra Hegel e Spinoza”. Sempre a Engels, Labriola confessa “Forse - anzi senza forse - io sono diventato comunista per effetto della mia educazione (rigorosamente) hegeliana, dopo essere passato attraverso la psicologia di Herbart, e la Volkerpsychologie di Steinthal e altro”.

Volgendomi al Socialismo, non ho chiesto a Marx l’abicì del sapere. Al marxismo non ho chiesto, se non ciò che esso effettivamente contiene: ossia quella determinata ‘critica dell’economia’ che esso è, quei ‘lineamenti del materialismo storico’ che reca in sé (...). Non chiesi al marxismo nemmeno la conoscenza di quella filosofia, che esso suppone, e, in un certo senso, continua, superandola per inversione dialettica; ed è l’Hegelismo che rifioriva (...). Per intendere il socialismo scientifico non mi occorreva, dunque, di avviarmi per la prima volta alla concezione dialettica, evolutiva o genetica, che dir si voglia, essendo io ho vissuto sempre in cotesto giro di idee, da che pensatamente penso”.

Labriola era un professore di filosofia e in quanto tale egli spiega che l’essenza del materialismo storico è “la filosofia della praxis [prassi o pratica], in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d’idealismo.” Una filosofia che non è confinata alla comprensione del pensiero e della società che l’ha generato, ma, alla sua trasformazione, attraverso la presa di coscienza dei meccanismi di trasformazione del pensiero stesso.
Specifica ad Engels che in italiano sarebbe più opportuno parlare di metodo genetico invece di metodo dialettico, in quanto il termine dialettico “è denigrato nell’uso comune all’arte retorica ed avvocatesca” mentre il metodo vuole intendere “le cose che divengono” (ovvero la loro genesi).

Vede la storia come processo di creazione di un terreno artificiale che media il divenire delle cose tra cui il capitalismo e quindi il socialismo.

 Le idee non cascano dal cielo, e anzi, come ogni altro tipo di prodotto dell’attività umana, si formano in date circostanze (…). Anche le idee suppongono un terreno di condizioni sociali, ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una forma del lavoro.

Lo stato è (...) messo al suo posto (...) in quanto forma che è effetto di altre condizioni, e a sua volta, poiché esiste, reagisce naturalmente sul resto. (...). Codesta forma sarà mai superata? [Sì] ma come risultato dell’immanente processo della storia. (...). La premessa di tale previsione è nelle condizioni stesse della presente produzione capitalistica [che] concentra di giorno in giorno sempre più la proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di pochi, (...) azionisti e negoziatori (...) la cui direzione passa all’intelligenza. Col crescere della coscienza di tale situazione nei [lavoratori] e col decrescere della capacità nei detentori del capitale a conservare la privata direzione del lavoro produttivo, si verrà a un punto in cui, di un modo o dell'altro, con la eliminazione di ogni forma di rendita, interesse e proprietà privata, la produzione passerà all'associazione collettiva, ossia sarà comunistica. (...). Il governo tecnico e pedagogico dell’intelligenza sarebbe l’unico ordine della società.”

Nell’opera In memoria del Manifesto, Labriola indica che la previsione storica del comunismo critico è una previsione morfologica, ovvero che rivela la forma delle cose, quali le classi sociali.

Qui sotto riportiamo un brevissimo articolo uscito sul Socialist Standard (Febbraio 2016) sul Labriola Socialista più che filosofo. In aggiunta abbiamo digitalizzato una sua lettera ad Engels in merito alla fondazione del Partito Socialista Italiano.



“Quando solo alcuni individui più o meno socialisti si rivolgono a ignoranti proletari che sono apolitici e in gran parte reazionari, è quasi inevitabile che quegli individui vengano considerati utopisti e demagoghi”.
  Antonio Labriola


[1] per approfondire il discorso dei difficili rapporti (sia umani che intellettuali) tra Marx ed Engels da un lato e Achille Loria dall’altro, si puo leggere l’utile artico di G. M. Bravo “Engels e Loria: relazioni e polemiche”, Studi Storici, Anno 11, No. 3 (Luglio - Settembre 1970), pp. 533-550.




Antonio Labriola: un marxista rigoroso


Il pensatore politico italiano Antonio Labriola (1843-1904) fu descritto da Friedrich Engels come "un rigoroso marxista". Tuttavia si avvicinò al marxismo piuttosto tardi. Menzionò per la prima volta Marx nel 1883 in una recensione del libro di Bärenbach sulle scienze sociali (Die Socialwissenschaften).

Labriola iniziò a corrispondere con Engels nel 1890; nello stesso anno con Filippo Turati, fondatore del “Partito Socialista Italiano”, scrisse l’indirizzo di saluto dei socialisti italiani al congresso del “Partito Tedesco dei Lavoratori Socialdemocratici” ad Halle.
Quando il “Partito dei Lavoratori Italiano” fu fondato al Congresso di Genova due anni dopo, Labriola fu critico nei confronti della sua piattaforma e quando tale organizzazione divenne il "Partito Socialista Italiano" nel 1894 sotto la guida di Turati, Labriola si lamentò con lui nei seguenti termini:

"I socialisti devono ... essere chiari ... devono smettere di essere piccoli giacobini e politicanti ... Voi volete rendere simpatico il socialismo; Dio vi aiuti in tale filantropica impresa. In quanto a me i borghesi li credo buoni soltanto a farsi impiccare. Non avrò la fortuna d’impiccarli io, ma non voglio nemmeno contribuire a dilazionarne l’impiccagione.

Secondo Labriola il partito della classe operaia avrebbe dovuto avere “Maestri” (nel senso di insegnanti) e sembra che avesse in mente persone come Marx, Engels e se stesso. Ma per Labriola era chiaro che il partito non avrebbe dovuto avere quella che egli chiamava "una minoranza giacobina al potere".

Inoltre vedeva Turati come un riformista, come spiegò nel 1891:

L'eclettismo di [Turati] non è una conseguenza della [sua] intelligenza, né della [sua] immaturità, ma è necessariamente un riflesso del mondo in cui viviamo, dove tutto è soggettivo, arbitrario, incidentale, e quindi non c'è spazio per la scienza organizzata, per la disciplina del partito ".

Nel 1892, in una lettera a Engels, ripeté questo concetto:

L'eclettismo non scomparirà presto. Non è solo l'effetto di una confusione intellettuale, ma è l'espressione di una situazione. Quando solo alcuni individui più o meno socialisti si rivolgono a ignoranti proletari che sono apolitici e in gran parte reazionari, è quasi inevitabile che quegli individui vengano considerati utopisti e demagoghi ".

Ma Labriola pensava anche che, attraverso una combinazione di educazione e necessità per i lavoratori di rovesciare il capitalismo, questo “eclettismo” (ovvero il revisionismo opportunistico e il riformismo) sarebbe scomparso nel lungo termine. In questo senso Labriola era un ottimista e si distingueva da altri rivoluzionari come Lenin e Gramsci che sostenevano l’opinione pessimistica secondo cui l'autodeterminazione della classe operaia era impossibile e solo la coercizione sarebbe stata in grado di guidare le masse.

Labriola divenne la fonte "preferita" di Engels e, in risposta a un’amara lettera di Turati, Engels scrisse:

Quanto a (...) Labriola, la malalingua che gli attribuisci potrebbe avere una certa giustificazione in un paese come l'Italia, dove il partito socialista, come tutte le altre parti, è stato invaso, come la piaga delle locuste, da quella “gioventù borghese senza classe”, di cui Bakunin era così orgoglioso”.

Nell'ottobre 1892 Labriola informò Engels dello scandalo bancario della Banca Romana che coinvolgeva anche alcuni membri del Partito Socialista Italiano. L’anno seguente Labriola fu fortemente critico nei confronti del partito per la sua posizione ambigua riguardo alla rivolta di contadini, artigiani e operai industriali in Sicilia, nota come “Fasci Siciliani”. Il partito descrisse questo evento come “una rivolta di anime povere”, mentre Labriola vide in esso il primo esempio di socialismo italiano in azione.

Il contributo principale di Labriola al pensiero marxista non arrivò che diversi anni dopo, nel 1895, quando pubblicò il suo primo importante lavoro sulla filosofia del materialismo storico: In memoria del Manifesto dei Comunisti. In questo Labriola scrisse:

“Bisogna insistere sull'espressione di ‘democratica socializzazione dei mezzi di produzione’, perché l’altra di ‘proprietà collettiva’, oltre a contenere un certo errore teoretico, in quanto che scambia l’esponente giuridico col fatto reale economico, nella mente poi di molti si confonde con l’incremento dei monopoli (...) e del sempre rinascente ‘socialismo di stato’, il cui segreto è di aumentare in mano alla classe degli oppressori i mezzi economici dell'oppressione (...) la massa proletaria, in somma, o sa, o s’avvia ad intendere, che la ‘dittatura del proletariato’, la quale dovrà preparare la socializzazione dei mezzi di produzione, non può procedere da una sommossa di una turba guidata da alcuni, ma deve essere e sarà il risultato dei proletarii stessi, che siano, già in sé, e per lungo esercizio, una organizzazione politica”.

In seguito, Labriola pubblicò un’ulteriore analisi del materialismo storico da un punto di vista filosofico (La concezione materialista della storia, 1895) e nel 1898 rispose alle opinioni dello scrittore francese George Sorel in Discorrendo di socialismo e filosofia. Continuò sempre a criticare attivamente la politica “eclettica” di Turati e il suo PSI, scrivendo ad esempio che “in Italia non esiste un'organizzazione della classe operaia e quindi la lotta di classe e il partito politico con una base di lavoratori sono prematuri”.

In questa éra di politica "revisionista", Labriola fu attivo nel combattere, ad esempio, Enrico Ferri che cercò di definire il marxismo come una forma derivata dell'evoluzionismo darwiniano, e il socialdemocratico tedesco Eduard Bernstein che prese una posizione simile a quella di Turati.

Labriola aveva già capito in anticipo che il cosiddetto “comunismo agricolo” della Russia non avrebbe potuto essere un percorso verso la rivoluzione socialista e, in accordo con Engels, che la Russia avrebbe dovuto inizialmente attraversare una fase di sviluppo borghese (ossia, di produzione di merci) prima di poter ospitare un vero emergere di idee socialiste. Le sue opinioni sul sottosviluppo russo, tuttavia, portarono a ciò che molti hanno visto come una sorta di macchia morale sul suo pensiero: la sua posizione sul colonialismo. Labriola immaginò il sottosviluppo risolto tramite la colonizzazione da parte delle nazioni sviluppate, che avrebbero così portato le nazioni sottosviluppate a un livello materiale in cui le idee socialiste avrebbero potuto iniziare ad avere una certa risonanza. Va anche detto che cambiò idea diverse volte su questo punto e sembrava, prima della morte di Engels nel 1895, che concordasse con lui sul fatto che i governi fossero troppo corrotti e legati ai finanzieri e al mercato azionario per impedire agli investitori di impadronirsi delle colonie e sfruttarle in misura maggiore del numero di persone che avrebbero potuto migliorare le condizioni di tali territori.

Tuttavia, nel 1897, sulla questione della colonizzazione della Libia, Labriola sembrò tornare alla sua precedente posizione, sostenendo che i socialisti avrebbero dovuto sostenere i tentativi del governo italiano di colonizzare la Libia sulla base del fatto che “non può esserci progresso del proletariato in cui la borghesia è incapace di progredire”. Questo fu un anatema per i marxisti del tempo.

Labriola fu letto e influenzò filosofi idealisti italiani come Benedetto Croce e Giovanni Gentile, nonché da altri che affermavano di essere nella tradizione marxista, come Rodolfo Mondolfo, Antonio Gramsci e Lelio Basso e, fuori dall'Italia, da Trotsky, Lenin e Plekhanov.

(tradotto dall’originale: ANTONIO LABRIOLA: A STRICT MARXIST? di Cesco, Socialist Standard, issue 338, February, 2016. https://www.worldsocialism.org/spgb/socialist-standard/2016/2010s/no-1338-february-2016/antonio-labriola-strict-marxist/)




Lettera di Antonio Labriola a Fredrich Engels


Napoli, 2 settembre 1892
(180, Riviera)

Egregio Signore,

pregai Lafargue di rimetterle una mia lettera. In quella dicevo in poche parole come le cose erano andate a Genova. Avrà visto il resto dai giornali, e a quest’ora si sarà fatta una esatta idea di tutto.
lo sono sempre cauto nello scrivere all’estero delle cose d’Italia. Pochi, o forse nessuno dei socialisti viventi, si trovano nella posizione sua. Cinquant’anni di vita rivoluzionaria, la conoscenza delle lingue, della storia e degli uomini di tanti paesi, e l’abito schiettamente scientifico della mente, le danno il modo di intendere le cose dal vero, dalle fonti e senza illusioni. Per lei la critica è l’essenziale della conoscenza, ma per le moltitudini l’illusione è necessaria, e come per essi l’illusione è una forza, lasciamo che l’abbiano. E diremo col Socialiste, col Vorwärts e con l'Arbeiterzeitung: finalmente il socialismo, come partito politico, è nato anche in Italia!
D’altra parte, per ragioni di prudenza e di tattica, il socialismo internazionale non può fare a meno di riconoscere come suoi alleati i secessionisti, i pentiti, i convertiti all’ultima ora, che a Genova hanno «more italico» fabbricato un partito, quali che siano le cause, e i probabili effetti del pentimento e della conversione. C'è almeno questo di guadagnato, che nel prossimo Congresso di Zurigo [1] non potrà partire dall’Italia una schiera di rompiscatole, che facciano da alleati degli Hans Müller, dei Domela e di altri simili schiamazzatori.
Non mi meraviglia che in Francia e in Austria non si pensi a criticare le cose d’Italia. Hanno i socialisti di quei due paesi troppi guai a casa propria. Ma il contegno della stampa tedesca è imperdonabile. Con un partito così numeroso e così forte, sicuro di sé e dello avvenire, con tanti giornali diffusi e forniti di mezzi economici, con tanto credito di precursori mondiali, i socialisti tedeschi avrebbero il dovere della chiaroveggenza e il diritto ancora d’insegnare agli altri. Invece si prestano alla réclame. Ha visto come è finita la commedia di De Amicis nell'articolo di Maurizio [2], che non diceva nemmeno tutto, perché al Kautsky non conveniva che si dicesse tutto? La lezione che venisse dai tedeschi avrebbe grande effetto in Italia. Qui da noi si ha un’idea quasi superstiziosa della scienza e del valore dei tedeschi. Non potrebbe sorgere, per esempio, a Zurigo un giornale di carattere internazionale, che garantisse la misura e la sincerità delle comunicazioni internazionali?
Ed ora torniamo a noi, eccole in breve i motivi della mia incredulità sugli effetti di quel che è accaduto a Genova. Può darsi che m’inganni - desidererei quasi di aver torto - ma questo è il mio sentimento ora. Da due anni sostengo una polemica privata epistolare col Turati, assai curiosa. Cominciò dal momento che io proposi, lui quasi renitente, l’indirizzo al Congresso di Halle [3]. Pigliando argomento dalle lotte tra legalitari ed antilegalitari, dal suo modo di scrivere nella Critica Sociale, dalla smania che aveva di abbracciar tutto e di contentar tutti, e dalla voglia di lodare e di biasimare un po' capricciosamente, io lo esortavo a prendere una via, a decidersi, ad adottare una dottrina od una linea di condotta. E lui a darmi del marxista, del tedesco, dell’ideologo, dell’ignaro della vita, dell’amante della linea logica. La cosa è andata così fino al 25 del passato luglio, che io mi rifiutai di andare a Genova, perché Turati e gli altri di Milano mi scrivevano: essere cosa impossibile un programma netto; convenire barcamenarsi tra anarchici, socialisti ed operai puri; non essere gli operai italiani maturi per la politica; doversi attendere; andassi io a Genova a difendere le mie idee.
Intanto la sollevazione degli operai puri contro socialisti politici, accaduta a Milano, trasformava le cosiddette mie idee in programma della Lotta di classe, diventata di botto organo critico del programma che si aveva impegno di sostenere a Genova. Il resto è stato un pasticcio all’italiana, con le solite commediole e burlette, e con buona dose di malafede. Gli opportunisti della vigilia, diventati di botto «marxisti, tedeschi ed amanti della linea logica», abbandonarono il proprio programma ai loro avversari, e dalla sera alla mattina divennero fondatori del partito socialista, per via di un emendamento [4].
Molti particolari mi sfuggono, perché sono lontano da Roma, ma dal complesso delle lettere ricevute, e dai giornaletti che ho letto, desumo che ci furono molti pettegolezzi e che la soluzione inaspettata è frutto di puntigli e di gare di capitani.
Ma comunque la cosa sia nata - e quasi tutte le cose umane nascono male, e quasi per caso, almeno nell'apparenza - si tratta ora di sapere se potrà avere effetti utili e duraturi, o se dovrà degenerare in una delle solite vanità ‘consortesche’ alla italiana. Eccole i dati:
Gli anarchici sono relativamente molti, e arditi parecchio. Non sono anarchici per le dottrine che professano, che anzi le poche volte che ragionano parlano da comunisti. Ma riflettono la tradizione cospiratoria dei Carbonari: sono dei comunardi fuori luogo e dei blanquisti ignoranti; hanno presa sulla moltitudine dei disperati, sensibili sempre all’idea della insurrezione, che chiamano rivoluzione. Potranno essere assorbiti o eliminati da una forte organizzazione, quando verrà, ma non possono essere vinti da un manipolo di socialisti, i quali fanno di tutto per parere non rivoluzionari, e ci tengono a passare per legalitari.
Quei tali operai puri che non vogliono sentir parlare di politica, rappresentano una non irragionevole diffidenza contro la demagogia d’ogni maniera, compresa quella dei socialisti. Il loro astensionismo anemico talune volte s’accorda con l’astensionismo rivoluzionario degli anarchici e dei mazziniani, altra volta viene manipolato dalla borghesia a scopi elettorali, per via di transazione. Il secondo caso si è sempre verificato a Roma, fino alle ultime elezioni comunali, come le scrissi.
Il concetto della «lotta di classe» è tanto elastico, tanto aereo, tanto metaforico ancora nella testa degli italiani, che i mazziniani (“Dio e Popolo”) se lo son quasi appropriato dopo il Congresso di Palermo. Il Maffi è entrato nel Comitato socialistico di Milano per fare gli interessi delle «Società affratellate». Queste sperano di assorbire tutto il movimento operaio nel prossimo Congresso di Bologna (pare che Sombart lo sperasse). C'è una gara a farsi le mosse, come si dice in buon toscano.
Tutto porta all'impossibilità di organizzare delle grandi masse. Ciò non può un Comitato residente a Milano, senza mezzi, e fatto di gente che non si può muovere. Nel Comitato ci sono Croce e Lazzari. Ora io la prego di leggere la relazione sulla «Borsa del lavoro» che le mandai segnata in più punti di matita rossa; e dica se queste egregie persone, che scrivono quella roba da servitori, abbiano il diritto di parlare di lotta di classe e di conquista dei poteri.
Rimane il giornale, come unico risultato plausibile del Congresso. Bisogna che esista, ed io farò quanto è in me per aiutarlo. È il solo mezzo per illustrare il programma votato alla rinfusa, e per esplorare dove sono gli elementi che dovranno costituire il partito. Ma il guaio è che non vi sono i danari, e mentre il Vorwärts annunziava assicurata la esistenza del giornale per due anni, la cosa è tanto in aria che il Prampolini mi scrive che lui non va a Milano perché non c’è di assicurato almeno 150 lire il mese. E il Prampolini è un povero impiegato della Camera del Commercio di Reggio a 93 lire il mese.
Questo lo stato vero delle cose, e giudichi lei. Veda se non c’è da ridere dei gridi di vittoria, usciti dalle colonne della Lotta di classe, dei ragionamenti a base di ipotesi fatti in tanti giornaletti, e delle promesse alquanto vane. Ma questo ridere non è un piacere. Là ad ogni modo c'è un gruppo di persone impegnate a seguire una linea di condotta; c'è un Comitato responsabile per lo meno di quello che non farà; c’è, spero, un giornale di propaganda; c’è l'embrione di qualche cosa. Forse avremo delle persone impegnate ad acquistare il credito della meritata popolarità, prima di conquistare il potere, dei deputati che non vendono il veto (come Moneta e Maffei) o che mancano alla Camera intenzionalmente (come Agnini e Prampolini l’11 giugno u.s.) in momenti solenni, e dei consiglieri comunali che non arrivano al potere per favorire gli amici affamati (come è accaduto per anni in Romagna ed a Catania). Può darsi che il piccolo partito sorto di sorpresa, e il programma votato alla rinfusa, facciano nascere l’amore della disciplina e il pudore della responsabilità.

Mi creda suo sempre

A. Labriola


[1] Il III Congresso della II Internazionale che ebbe luogo nell’agosto 1893.
[2] È l’articolo di Maurizio Adam, De Amicis und sein Sozialismus (“De Amicis e il suo socialismo”), che fu ispirato indubbiamente da Labriola e comparve sulla Neue Zeit, anno 1892, pp. 626 e sgg.
[3] Labriola aveva redatto l'indirizzo rivolto nell'ottobre 1890 dai socialisti italiani Alla democrazia sociale di Germania radunata in Congresso ad Halle. L'Indirizzo. Sulla preparazione, pubblicato in Scritti vari, op. cit., pp. 245-248; cfr. Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti (1880-1925), Laterza, Bari, 1947, p. 57.
[4] Il Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori italiani, eletto al congresso operaio di Milano (1891), aveva pubblicato alla vigilia del Congresso di Genova un progetto di statuto e di programma del partito. Su La lotta di classe (nn. 2 e 3, 6-7 e 13-14, agosto 1892) se ne era discusso e si erano respinte alcune frasi generiche in quanto espressione di un socialismo non scientifico.

(Biblioteca del movimento operaio italiano: Antonio Labriola. Lettere ad Engels, edizioni Rinascita, Roma, 1949).



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