giovedì 6 gennaio 2011

Il capitalismo e la qualità della vita

Il capitalismo è una società in cui quasi tutte le cose che gli esseri umani necessitano o vogliono sono articoli di commercio, cose fatte per essere comprate e vendute. Questa non è una definizione completa dato che sotto il capitalismo una cosa in particolare diventa una merce – la capacità umana di lavorare e creare cose, ciò che Marx chiamava “forza lavoro” – e ciò è di fatto la caratteristica di definizione del capitalismo. Esso è una società delle merci in cui la forza-lavoro è una merce.

Ciò ha due conseguenze. La prima è che non c’è semplicemente produzione per la vendita ma produzione per il profitto. E in secondo luogo, per la maggior parte le cose che gli esseri umani necessitano o vogliono tendono a diventare merci, cioè devono essere acquistate. Non è difficile vedere il perché. Il sistema delle retribuzioni significa che la maggior parte della gente è dipendente, per soddisfare i loro bisogni, dal denaro con cui sono pagati per la vendita dell’unica merce vendibile che possiedono (la loro forza lavoro), denaro che poi usano per comprare ciò che devono avere per vivere. Così la “mercificazione” della forza lavoro significa la mercificazione del cibo, dei vestiti, dell’alloggio, e di altro, anche di esigenze meno materiali.

Una delle cose che l’espansione del capitalismo ha significato, in termini concreti, è stata l’espansione delle relazioni denaro-merce. È un processo che sta ancora continuando in alcune parti del mondo e di cui anche gli economisti convenzionali ne parlano favorevolmente come integrante in passato dei coltivatori in gran parte autosufficienti per i mezzi di sussistenza in Asia, Africa e America Latina nell’”economia del denaro”.

Quello di cui stiamo parlando qui è la mercificazione dei bisogni materiali della gente. Alcune persone potrebbero non trovare ciò discutibile. Qualcuno perfino la trova uno sviluppo progressistico, addirittura di liberazione. Di fatto questa è una delle difese tipiche del capitalismo – che l’economia del denaro dà alla gente la libertà di scegliere che cosa consumare per mezzo di come spendono il loro denaro e che questo è il modo più efficiente di organizzare la soddisfazione dei bisogni e delle esigenze materiali della gente. Certamente questo non è vero, poiché parte dal presupposto che l’economia risponda alla domanda dei consumatori, laddove in realtà risponde ai cambiamenti nel saggio di profitto, mentre la maggior parte della “domanda” della gente è limitata dalla grandezza della loro busta paga o assegno salariale.

Che il capitalismo non sia il modo più efficiente di provvedere ai bisogni materiali della gente – e che il socialismo come un sistema di proprietà comune, di controllo democratico e di produzione soltanto per l’uso farebbe questo molto meglio – è la tradizionale causa socialista contro il capitalismo. E mantiene tutta la sua validità. Ma, dopo l’ultima Guerra Mondiale, il capitalismo degli anni 1950 e 1960 in Nord America e in Europa Occidentale sembrava essere all’altezza della sua promessa della prosperità materiale per la maggior parte della gente attraverso l’emersione della cosiddetta “società dei consumi”. Ma poi un’altra, differente critica del capitalismo è apparsa: che mentre poteva aver risolto più o meno adeguatamente il problema del “pane”, dell’esigenza materiale pressante, per la maggior parte della gente in queste parti del mondo, non aveva ancora creato una società soddisfacente.

Cominciarono ad apparire libri in America con titoli come The Lonely Crowd [La Folla Triste], The Organization Man [l’Uomo dell’Organizzazione], The Hidden Persuaders [Il Persuasore Occulto], The Waste Makers [I Creatori di Spreco], One-Dimensional Man [l’Uomo Superficiale], tutti critici di vari aspetti della “società dei consumi” come una società in cui la gente era incoraggiata a considerare l’acquisizione di sempre più beni di consumo come lo scopo principale nella vita. In Europa, tale criticismo intraprese una più esplicita forma anticapitalista. In Francia i libri critici partorirono titoli come Una Critica della Vita di Ogni Giorno e della Società dello Spettacolo. L’argomento era che nella “società dei consumi” (chiamata invece, più accuratamente, “società delle merci”) la logica di acquistare qualcosa da consumare passivamente si era diffusa dall’acquisto dei beni materiali ad altri aspetti della vita di ogni giorno – a come le persone spendevano il loro tempo libero e a come esse si relazionavano reciprocamente.

Questo tipo di criticismo aggiunse un’altra dimensione alla causa socialista contro il capitalismo: che esso non solo ha fallito nell’organizzare la soddisfazione dei bisogni materiali in modo appropriato ma che ha anche degradato – disumanizzato – la “qualità della vita”.

Non è chiaro a chi il credito per lo sviluppo di questo “criticismo culturale” del capitalismo dovrebbe andare. La Scuola di Marxismo di Francoforte (Fromm, Marcuse e altri), i situazionisti, perfino i giornalisti radicali in America come Vance Packard, sarebbero tra i candidati. In ogni caso stavano tutti lavorando sulle base del fatto osservabile dell’effetto degradante che il capitalismo stava avendo sulla qualità della vita di ogni giorno diffondendo i valori commerciali sempre più estesamente.

È un criticismo potente del capitalismo. Forse perfino in questi giorni, in questa parte del mondo, un criticismo più potente di quello socialista tradizionale che il capitalismo procura povertà materiale alla maggior parte della gente. Senza dubbio, su scala mondiale, ci sono centinaia di milioni di persone in terribile povertà materiale. E ci sono alcuni milioni di persone in questo paese – intorno al 15 percento della popolazione – che sono materialmente private. Ma non possiamo dire questo della maggioranza della popolazione qui. La maggior parte della gente in Gran Bretagna [come in Italia, ndr] non ha problemi riguardo all’avere tre pasti al giorno, vestiti decenti, riscaldamento, non deve andare dai prestatori su pegno o a vivere in locali assediati da insetti. Di fatto, la mercificazione delle “esigenze della mente” è basata sul fatto che la maggior parte della gente abbia denaro da spendere per soddisfate le esigenze che stanno al di sopra di quelle dello “stomaco”. Se le persone non avessero questo potere d’acquisto discrezionale dopo aver soddisfatto i loro bisogni materiali, allora non ci sarebbe alcun mercato riguardante i prodotti culturali e d’intrattenimento per il capitalismo da stimolare, manipolare e sfruttare. (Per quanto riguarda il perché le persone hanno questo denaro “extra” da spendere nell’intrattenimento, avrà qualcosa a che fare con l’aumentata intensità e l’aumentato stress al lavoro che richiede più rilassamento – più evasione dalla realtà – per le persone per ricreare la loro particolare capacità di lavorare.)

Il criticismo della “società dei consumi” non ha riguardato solo il fatto che ha rappresentato l’invasione e la colonizzazione di ogni aspetto della vita sociale da parte delle relazioni denaro-merce, ma che ha anche incoraggiato il consumo passivo piuttosto che la partecipazione attiva. C’è moltissima fondatezza in questo punto – che la “società dei consumi” è una dove, qualche volta letteralmente, le persone siedono su poltrone guardando lo spettacolo di passaggio previsto per loro. Questa è una critica della mancanza di partecipazione delle persone che sta foggiando le loro vite, una mancanza che era anche riflessa politicamente dove la “democrazia” è concepita come soltanto lo scegliere ogni quattro o cinque anni fra aspiranti élite rivaleggianti (usando di fatto tecniche di marketing per attrarre appoggio). Le persone invece di creare il proprio sport o il proprio intrattenimento – o la propria politica – li consumano come una merce preconfezionata.

Ci deve essere qualcosa di sbagliato in una società in cui le persone invece di vivere le proprie vite e interagire con i loro vicini di casa in un modo umano, siedono di fronte a uno schermo guardando attori che realizzano scene artificiali basate sulle esagerazioni della vita di ogni giorno e si identificano con i personaggi fittizi di questi programmi. E in cui i giornali più ampiamente letti non discutono degli eventi reali tanto quanto quelli artificiali ritratti in questi programmi e le vite e gli amori degli attori più importanti che vi recitano – come pure quelli di altre cosiddette “celebrità” del mondo dello sport e dell’intrattenimento.

Finché esisterà il capitalismo, la qualità della vita continuerà a declinare. Non c’è niente che possa essere fatto per fermare questa tendenza nel contesto del capitalismo poiché è causato dal capitalismo, che rappresenta, per quello che fa, gli effetti dissolventi sulla società dell’espansione delle relazioni denaro-merce in tutti gli aspetti della vita. Così, nonostante il lento, ma innegabile aumento nei livelli di vita materiali in certe parti del mondo la causa per il socialismo come una società non-commerciale in cui il benessere umano e i valori umani saranno il principio guida mantiene tutta la sua rilevanza. Con la proprietà comune dei mezzi di vita, ci potrebbe essere e ci sarebbe produzione direttamente per soddisfare i bisogni e le esigenze umane e non per la vendita con lo scopo del profitto – la morte della merce, la fine di ciò che William Morris chiamava “società commerciale” – e una comunità senza classi con un genuino interesse comune in cui gli esseri umani possano relazionarsi l’un l’altro come esseri umani e non come atomi sociali che si scontrano reciprocamente sul mercato come compratori e venditori di merce.

(Traduzione da Socialist Standard, gennaio 2006)

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