domenica 7 febbraio 2016

La trasformazione dei valori nei prezzi in Marx e il problema delle crisi


Henryk Grossmann

La trasformazione dei valori nei prezzi in Marx e
il problema delle crisi
 

da Zeitschrift für Sozialforschung, 1 (1/2), 1932, pagg. 55-84.
Ringraziamenti a Rick Kuhn.
Transcrizione e versione html di Einde O’Callaghan per Marxists’ Internet Archive.



I. La realtà concreta come oggetto e obiettivo della conoscenza marxiana


Lo scopo di tutta la scienza sta nell’esplorazione e nella comprensione della totalità dei fenomeni concretamente dati, del loro collegamento e delle loro variazioni. La difficoltà di questo compito è sita nel fatto che i fenomeni non coincidono immediatamente con l'essenza delle cose. La ricerca dell’essenza costituisce quindi il prerequisito per la conoscenza del mondo fenomenico. Ma se Marx vuole conoscere, in opposizione all’economia volgare, “la natura nascosta” e “l’interdipendenza” della realtà economica (Marx, Il Capitale, III 2, pag. 352 [1]), questo non significa che i fenomeni concreti non gli interessino. Al contrario! Alla coscienza sono dati immediatamente solo i fenomeni, con il risultato (già pienamente metodologico) che si può giungere al loro “nocciolo” essenziale nascosto solo mediante un’analisi di tali fenomeni (cfr. Marx, Il Capitale, III 1, pagg. 17-22).

Ma i fenomeni concreti non sono importanti per Marx solo perché rappresentano il punto di partenza e il mezzo per la comprensione del “movimento reale”, ma anche perché questi stessi sono ciò che Marx in definitiva conoscerà e comprenderà nel loro contesto. Dunque egli non vuole in nessun modo, escludendo i fenomeni, limitarsi alla sola ricerca dell'essenza. Piuttosto, l’essenza conosciuta ha la funzione di renderci capaci di capire i fenomeni concreti. Quindi Marx si sforza proprio di trovare la “legge dei fenomeni” che domini “la legge dei loro cambiamenti” (Postfazione alla 2a edizione de “Il Capitale”). 

Incomprensibili e a prima vista assurdi sono, per Marx, solo i fenomeni per se stessi, sconnessi dalla “essenza nascosta” delle cose. Ma sarebbe un errore madornale della scienza economica se a questo punto la questione (cadendo nello sbaglio opposto a quello dell’economia volgare) restasse ferma all’analisi dell’“essenza nascosta” appena scoperta, senza trovare una via di ritorno ai fenomeni concreti, di cui comunque si discute la spiegazione, ossia senza ricostruire le molte mediazioni tra l’essenza e la forma fenomenica! Perciò anche Marx vede in questo cammino dall’astratto al concreto “il metodo scientifico ovviamente corretto”. Qui “le regole astratte conducono alla riproduzione del concreto secondo il modo di procedere del pensare” perché “il metodo di risalire dall’astratto al concreto è, solo lui, il modo del pensare per appropriarsi del concreto, per riprodurlo come un concreto dello spirito” (Introduzione alla Critica dell’Economia Politica, pag. XXXVI).

Marx fornisce qui un esempio pratico: non è sufficiente dire che nella produzione industriale il valore viene creato secondo la legge generale per cui “i valori delle merci sono determinati dal lavoro in esse contenuto”, poiché i processi empirici nella sfera della circolazione (p. e. l’influenza praticamente verificabile del capitale commerciale sui prezzi delle merci) mostrano “fenomeni che, senza un’analisi completa dei nessi intermedi, sembrano semplicemente presupporre una determinazione arbitraria dei prezzi”, cosicché nasce l’idea che “sia il processo di circolazione in quanto tale a determinare i prezzi delle merci, indipendentemente (entro certi limiti) dal processo produttivo”, ovvero dalle ore di lavoro necessarie alla produzione. Così provare il carattere illusorio di questa idea e stabilire la “connessione profonda” tra il fenomeno e “l’azione reale”, cosa “molto intricata e lavoro alquanto minuzioso”, “è un’opera della scienza che sa ricondurre il movimento visibile, ma solo apparente, al movimento reale interno” (Il Capitale, III 1, pag. 297), “proprio come il moto apparente dei corpi celesti viene ricondotto al loro moto reale ma impercettibile ai sensi” (Il Capitale, I 1, pag. 314).

Dunque “l’opera della scienza” d’importanza critica consiste nell’impegno a cercare “legami intermedi” che ci guidino dall’essenza ai fenomeni concreti, poiché senza questi legami intermedi la teoria, cioè l’ “essenza” delle cose, sarebbe contraria alla realtà concreta. Giustamente Marx ironizzava su quei “teorici” che si perdono in costruzioni irreali. Ma solo “il volgo ha quindi concluso che le verità teoriche sono astrazioni che contraddicono le condizioni reali” (Plusvalore, II 1, pag. 166).

Anche la struttura de “Il Capitale” di Marx, come ho già mostrato [2], corrisponde a questo principio metodologico marxiano e il “metodo delle approssimazioni” lì applicato ha trovato la sua espressione più pregnante nella costruzione degli schemi di riproduzione marxiani. Utilizzando numerose assunzioni semplificanti, viene in primo luogo effettuato il “viaggio” dal concreto all’astratto. Ciò è distinto dal mondo fenomenico, dalle forme parziali concrete, dove il plusvalore entra nella sfera dalla circolazione (utili d’impresa, interessi, profitti commerciali ecc.) e tutta l’analisi dei libri I e III de “Il Capitale” si concentra sul valore e sul plusvalore complessivi, sulla loro creazione e variazione nel corso dei processi di produzione e di accumulazione. Qui “la questione connessa al processo di circolazione” (“Il Capitale”, I 1, pag. 600) viene eliminata. L’oggetto dell’analisi del I e del III libro de “Il Capitale” è esplorare la creazione di plusvalore come essenza generale del processo economico e, successivamente (ciò forma, come ha enfatizzato Marx, precisamente lo scopo e il contenuto del III libro), la connessione interna tra l’essenza scoperta e le sue manifestazioni: stabilire le forme empiricamente date di plusvalore ossia “rintracciare e mostrare le forme concrete che emergono dal processo di movimento del capitale che abbiamo finora considerato nella sua totalità. Nel loro movimento effettivo i capitali si scontrano con tali forme concrete” (“Il Capitale”, III 1, pag. 1).

Qui, nel terzo libro, le assunzioni semplificanti prima effettuate (p. e. la vendita delle merci al loro valore, l’eliminazione della sfera della circolazione e della concorrenza, la trattazione del plusvalore nella sua globalità e l’esclusione delle parti in cui esso si suddivide ecc.) vengono abbandonate e, di conseguenza, in questo secondo livello del metodo approssimato sono gradualmente presi in considerazione i fattori intermedi, precedentemente ignorati, e vengono trattate le forme concrete di profitto nel modo in cui esse si rendono visibili nella realtà empirica. Solo in questo modo si chiude il cerchio dell’analisi di Marx e si verifica che la teoria del valore lavoro non è uno schema irrealistico, ma piuttosto una “legge fenomenica”, ossia forma la base che ci permette di spiegare il mondo reale dei fenomeni. Questa idea è formulata con chiarezza inequivocabile quando Marx dice: “Lo abbiamo dovuto fare nei libri I e II solo con i valori delle merci”…”Ora”, ossia nel libro III, “il prezzo di produzione emerge come una forma di valore modificata” (“Il Capitale”, III 1, pag. 142). E ancora:
“Gli aspetti del capitale, come noi li svolgiamo nel presente (terzo) libro, si avvicinano quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione” (“Il Capitale”, III 1, pagg. 33-34).


II. La contraddizione tra lo schema dei valori e la realtà

Così, come abbiamo mostrato, la riproduzione della realtà concreta nel modo di pensiero costituisce lo scopo della conoscenza marxiana; dunque la funzione degli schemi di riproduzione all’interno del metodo di ricerca marxista è chiaramente visibile: non si sostiene che siano isolatamente, in se stessi, un’immagine della realtà capitalista concreta; si tratta solo di un collegamento all’interno della procedura dell’approccio marxiano, che, insieme alle assunzioni semplificanti che soggiacciono agli schemi e alle loro successive modifiche nel senso di un progressivo aumento di concretezza, forma un’unità inseparabile. Qui ciascuna di queste tre parti (ossia, gli schemi, le assunzioni semplificanti e le modifiche successive) perde ogni importanza per la conoscenza della verità se presa a sé stante, senza le altre due, e può rappresentare solo un primo stadio conoscitivo nel processo di avvicinamento alla realtà concreta. 

Se si guarda chiaramente al carattere dello schema marxiano di riproduzione, e si capisce che questo è solo uno strumento per il pensiero e che non gioca nessun ruolo negli eventi concreti, allora non si hanno dubbi neanche sul carattere degli elementi individuali che compongono lo schema: i valori, i plusvalori e i diversi tassi di profitto nelle varie sfere produttive. Come ho mostrato altrove il plusvalore è una grandezza reale (H. Grossmann, La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, pag. 196). Ma ciò vale solo per la società nel suo insieme, nella quale valori e prezzi, e da essi plusvalori e profitti, sono grandezze quantitativamente identiche. Diverso è il caso relativo alle sfere produttive individuali. All’interno di questo ambito abbiamo, nella realtà capitalista, non valori, ma prezzi di produzione quantitativamente divergenti da essi; non abbiamo grandezze di plusvalore, ma grandezze di profitto. In breve, i valori e i plusvalori sono, nello schema di riproduzione, termini quantitativi, non categorie della realtà; non sono forniti direttamente nel mondo della realtà capitalista, piuttosto sono assunzione liberamente scelte per ragioni metodologiche di semplificazione, che, all’inizio, sembrano contraddire la realtà. Prendiamo i valori. È davvero necessario ricordare che in Marx la vendita delle merci al loro valore ha solo un carattere di assunzione teorica preliminare, ma che Marx non ha mai e in nessun luogo affermato che questa assunzione corrisponda alla realtà? Ciò è espressamente affermato nel I libro de “Il Capitale”:
"Partiamo dunque dal presupposto (...) che il capitalista che ha prodotto le merci le venda al loro valore" (“Il Capitale”, I, pag. 579). "Partiamo dal presupposto che le merci vengano vendute al loro valore" (“Il Capitale”, I, pag. 530). E anche nel II libro la natura teorica di questa condizione viene sottolineata, quando Marx dice: "Nel I libro (...) si è ipotizzato che il capitalista (...) abbia venduto il prodotto al suo valore" (“Il Capitale”, II, pag. 343). E da nessuna parte si suppone che questa ipotesi corrisponda alla realtà; al contrario si dice che con questo assunto ci si allontana dalla realtà e, a prima vista, ci si caccia in un’apparente contraddizione. Con insolita chiarezza, in effetti, Marx constatava già nel I libro de “Il Capitale” che la vendita delle merci al loro valore avviene solo nel caso di “andamento normale” teorico, “se” e “quando” il fenomeno “puro” ha luogo: “Nella sua forma pura il processo di circolazione implica lo scambio di merci equivalenti. Però nella realtà le cose non vanno in modo puro” (“Il Capitale”, I, pag. 136). Qui dunque il processo puro è contrapposto alla realtà. Solo nel primo, e non nel secondo, le merci sono sostituite dai loro valori. In una lettera a Kugelmann dell’11 luglio 1868, Marx critica con il suo caratteristico sarcasmo la confusione, che spesso capita nell’economia borghese, tra ipotesi teoriche ed esperienza: “L’economia volgare non ha la più pallida idea che le relazioni di scambio reali di tutti i giorni e le grandezze dei valori non sono immediatamente identiche”.
In una quantità innumerevole di altri posti in tutti i libri de “Il Capitale” e nelle “Teorie sul plusvalore”, Marx ripete più e più volte che le merci in realtà non sono vendute ai loro valori, ma ai loro prezzi di produzione, dove “i prezzi di produzione della maggior parte delle merci (…) devono differire dai loro valori” (“Plusvalore”, III, pag. 92). Questo è il motivo per cui polemizza con l’affermazione di Ricardo secondo cui le merci sono vendute ai loro valori: “Questa è la prima ipotesi errata (…). Le merci, solo in casi eccezionali, sono scambiate ai loro valori” (“Plusvalore”, II 1, pag. 191). E ad A. Smith all’opposto fa dire: “Come dimostrerò più avanti, persino il prezzo medio della merce differisce sempre dal suo valore” (“Plusvalore”, I, pag. 162).

Ciò che qui è stato detto sul valore si applica anche al plusvalore. Infatti nello schema di riproduzione abbiamo il plusvalore, ma non nella realtà. Quindi il plusvalore è “l’invisibile”, mentre nella realtà del capitalismo appaiono solamente molteplici forme di profitto quali: il profitto imprenditoriale, l’interesse, il profitto commerciale e la rendita. I plusvalori riportati in ogni sfera della produzione degli schemi sono quindi solo ipotesi provvisorie che non corrispondono alla realtà. Lo stesso è vero anche per gli ultimi elementi visibili nello schema di riproduzione, i tassi di profitto. In uno schema di riproduzione fondato sui valori, ossia assumendo che le merci siano vendute ai loro valori, nelle varie sezioni compaiono tassi di profitto diversi, benché l’esperienza del sistema capitalista mosso dalla concorrenza mostri che, in realtà, una tendenza generale alla convergenza dei diversi tassi di profitto nelle varie sfere verso un valore generale (ossia la prevalenza di un tasso di profitto medio) è già contenuta nel concetto di prezzo di produzione: “L’esistenza e il concetto del prezzo di produzione, e del saggio generale del profitto che esso include, si fondano sul fatto che le singole merci non sono vendute al loro valore(“Il Capitale”, III, 2, pag. 293) e viceversa: “La semplice esistenza di un tasso generale di profitto distinto dai valori condiziona i prezzi di produzione” (“Plusvalore”, II 1, pag. 17). Così emerge che lo schema di riproduzione, avendo solo valori, plusvalori e diversi tassi di profitto nelle varie sfere produttive, inizialmente contraddice la realtà concreta. Il carattere teorico provvisorio dello schema di riproduzione e, in particolare, dell’ipotesi che le merci si scambino secondo i loro valori, sono dunque chiari. Il processo reale ha luogo in modo molto diverso dallo schema di riproduzione. E in effetti qui non si tratta di qualcosa di casuale, di deviazioni temporanee dalle regole dello schema che possono esser trascurate dalla scienza, ma del fatto che il vero scopo della riproduzione è essenzialmente un altro, come mostra lo schema. Le differenze tra prezzi e valori, come si riscontrano nella realtà, non sono solo pure fluttuazioni temporanee, come per esempio nel caso dei prezzi di mercato, ma, al contrario, la trasformazione dei valori nei prezzi di produzione che ha luogo effettivamente “crea deviazioni durevoli dai valori” (“Plusvalore”, II 1, pag. 164). Nello schema i plusvalori prodotti dalle varie sfere sono realizzati all’interno di esse stesse: assai diversamente dalla realtà. A lungo termine si possono realizzare non i plusvalori, ma i profitti medi (che differiscono in modo stabile dai precedenti). “Tutti i capitali hanno la tendenza, senza riguardo al plusvalore da essi prodotto, a realizzare non il plusvalore, ma il profitto medio mediante i prezzi delle loro merci” (“Il Capitale”, III, 1, pag. 152). “Sembrerebbe, dice perciò Marx, che la teoria del valore sia a questo punto irreconciliabile con il processo reale, irreconciliabile con i fenomeni effettivi della produzione, cosicché dovremmo rinunciare al tentativo di comprendere questi fenomeni” (“Il Capitale”, III, 1, pag. 132).

III. I prezzi di produzione e il saggio generale di profitto come
“regolatori” della produzione capitalista



Per la comprensione del meccanismo capitalista, però, non è sufficiente limitarsi al fatto che lo schema dei valori del processo produttivo (e le categorie del plusvalore in esso contenute) non corrispondono alle singole sfere di produzione della realtà concreta. Dobbiamo continuare a chiederci: quali categorie sono dunque decisive per la realtà capitalista e risultano criticamente importanti per il “movimento reale” del meccanismo capitalista? Le risposte di Marx a questa questione (che formano il contenuto del III libro de “Il Capitale”) sono note. L’esperienza ha mostrato che i prezzi di produzione, e non i valori assunti teoricamente, danno una forma obiettiva al centro di gravità attorno a cui oscillano i prezzi di mercato giornalieri. Per i movimenti concreti di capitale non sono critici i diversi tassi di profitto teorici (contenuti nello schema), ma il tasso generale medio di profitto fornito dall’esperienza.

“D'altra parte, dice Marx, non vi è alcun dubbio che in realtà (a parte discrepanze insignificanti, accidentali e di riequilibrio) non esiste alcuna differenza tra i tassi medi di profitto dei diversi settori industriali e non potrebbe esistere, senza distruggere il sistema di produzione capitalista (“Il Capitale”, III, 1, pag. 132). Di questo saggio generale di profitto Marx dice: “è la forza trainante del modo di produzione capitalista” (“Il Capitale”, III, 1, pag. 241). Questo “saggio medio è da considerare (…), come è il caso del sistema capitalista di produzione, (“Il Capitale”, III 2, pag. 316), quale “legge di regolazione (...) della società capitalista” (“Il Capitale”, III 2 , pag. 355). Per lo stesso motivo secondo Marx è “la legge fondamentale della concorrenza capitalista, la legge che regola il saggio generale di profitto e, determinata da esso, regola i cosiddetti prezzi di produzione (“Il Capitale”, III 1, pag. 12). Della regolazione dice infine Marx, che “il movimento di questa regolazione (è la base, H. G.) su cui si fonda l’intera produzione capitalista (“Il Capitale”, III 1, pag. 422). Perché non i valori, ma i prezzi di produzione “sono i veri prezzi medi di mercato regolatori, ossia formano la base attorno alla quale oscillano i reali prezzi di mercato: “I prezzi di mercato oltrepassano o scendono al di sotto di questi prezzi di produzione regolatori(“Il Capitale”, III 2, pag. 396), dal momento che i prezzi medi regolatori non danno luogo ai valori, ma ai prezzi di produzione (distinti dai precedenti) per ciascuna sfera produttiva” (“Il Capitale”, III 2, pag. 409; cfr. “Il Capitale”, III 2, pagg. 181, 187, 364, 381, 396 e altre ancora).

Ma l’espressione “prezzi medi regolatori” non indica nient’altro che è il prezzo di produzione (e non il valore) a formare la condizione permanente di riproduzione, come espressamente indicato da Marx:
“In effetti è la stessa cosa (…) price of production e cost of production in Ricardo, i fisiocratici lo chiamano prix necessaire (…) poiché è la condizione permanente dell’offerta, della riproduzione delle merci in ogni particolare sfera di produzione” (“Il Capitale”, III 1, pag. 178).

Ma c’è di più! L’importanza pratica e il significato del saggio generale di profitto risulteranno più chiari se considereremo che su di esso si basa la comunità d’interessi della classe imprenditoriale. Infatti se le merci fossero scambiate ai loro valori, allora ogni imprenditore sarebbe interessato solo allo sfruttamento dei lavoratori da lui stesso assunti e il suo profitto sarebbe identico al plusvalore prodotto dai “suoi stessi” lavoratori. Soltanto la trasformazione del plusvalore nel profitto medio provoca:
“che ogni singolo capitalista, come la totalità dei capitalisti, (…) sia coinvolto nello sfruttamento di tutta la classe lavoratrice mediante il capitale totale e nell’intensità di questo sfruttamento, non solo per solidarietà di classe, ma anche per cause economiche dirette,  poiché (…) il tasso medio di profitto dipende dallo sfruttamento di tutto il lavoro da parte di tutto il capitale” (“Il Capitale”, III 1, pag. 177).
Rimanendo agganciati allo schema dei valori, dove la vendita delle merci ha luogo al loro valore e dove quindi sussistono anche diversi saggi di profitto nelle differenti sfere produttive, la concorrenza e i suoi risultati (l’esistenza dei prezzi di produzione regolatori) vengono ignorati [3] e il tasso medio di profitto, ossia la “forza guida” (“su cui si basa tutta la produzione capitalista”) è perso.

Ma poiché tale schema di valori non ci dice (e non può dirci) nulla sui prezzi di produzione e sul profitto medio nel suo complesso, esso ovviamente può spiegare ancor meno le singole forme parziali di profitto che risultano dalla suddivisione del plusvalore; quindi è inappropriato a rappresentare “le forme concrete (…) che, osservate dal processo dinamico del capitale nel suo complesso, si diramano verso l’esterno”. L’esistenza di tutte queste forme di profitto è incompatibile con lo schema dei valori e quindi, anche dal punto di vista della sua implicita teoria del valore, è inizialmente inspiegabile.

Lo schema dei valori comprende precisamente solo il capitale produttivo, ossia coinvolto nella produzione di valore e di plusvalore, ma non quello mercantile e monetario agente nella sfera della circolazione. Così, se i produttori industriali vendessero le merci al loro valore, ovvero, al “prezzo di valore”, che è quantitativamente identico al loro valore (“Il Capitale”, III 1, pag. 153) (come avviene nello schema dei valori), allora l’esistenza di un profitto commerciale, cioè del profitto del capitale mercantile, che addirittura non è coinvolto nella produzione, sarebbe un problema insolubile. “A prima vista sembra che il profitto commerciale puro e indipendente sia impossibile fin tanto che i prodotti sono venduti ai loro valori” (“Il Capitale”, III 1, pag. 313). “Le affermazioni, derivate immediatamente dall’osservazione del capitale industriale e concernenti la formazione del valore, del profitto ecc., non si accordano in modo diretto con il capitale mercantile (“Il Capitale”, III 1, pag. 308). Fin tanto che rimaniamo a considerare il valore, allora una parte grande e importante dei fenomeni della realtà capitalista (il profitto del capitale mercantile), specie nelle sue forme internazionali, ossia i fenomeni del mercato mondiale e del commercio internazionale, resta incomprensibile.

Però la trasformazione dei valori (o dei prezzi di valore) dello schema in prezzi di produzione, e la equalizzazione dei diversi tassi di profitto nei vari settori dello schema in direzione di un tasso generale di profitto, non sarebbero ancora affatto sufficienti a spiegare il profitto commerciale. Poiché in questo modo avremmo considerato solo i capitali produttivi, ossia quelli che partecipano alla creazione del plusvalore, alla formazione del tasso generale di profitto e alla trasformazione dei prezzi di valore in prezzi di produzione. Tale processo di compensazione sarebbe così soltanto “un primo aspetto” del tasso generale di profitto, ma in nessun modo la sua “forma definitiva(“Il Capitale”, III 1, pag. 322). Il capitale commerciale, non coinvolto nella creazione di plusvalore, rimarrebbe sempre fuori dalla nostra considerazione.

Per spiegare l’esistenza dei profitti commerciali è quindi necessario un altro passo nei metodi di approssimazione, ovvero serve che il primo processo di equalizzazione riguardante i soli capitali produttivi venga successivamente “completato” mediante “la partecipazione a questa equalizzazione del capitale commerciale”, ossia tramite un adeguamento di secondo grado (ibidem). Solo in questo modo viene raggiunta “la forma finale” del tasso medio di profitto, dopo di cui i prezzi di produzione soffrono di una “determinazione restrittiva” (“Il Capitale”, III 1, pag. 269) e successivamente vengono modificati in “prezzi mercantili” (“Il Capitale”, III 1, pag. 298), mentre il profitto medio è ora “all’interno di limiti più angusti” di prima” (“Il Capitale”, III 1, pag. 322). Vediamo che se si vuole comprendere la forma concreta ed empirica del profitto commerciale bisogna prima passare per una serie di trasformazioni del processo di equalizzazione dello schema dei valori. Sotto le condizioni dello schema dei valori, ossia senza la scoperta di questi intermediari che portano dai “prezzi di valore” ai “prezzi di produzione”, fino all’apparizione dei “prezzi mercantili”, l’esistenza stessa dei profitti commerciali non sarebbe né possibile, né comprensibile. E non solo questo! Aggiungerò il fatto ulteriore che l’andamento del processo di accumulazione che appare nello schema dei valori è fortemente modificato dall’esistenza del profitto commerciale, ossia dalla conversione dei valori nei prezzi di produzione o nei prezzi mercantili (a seconda del caso). Poiché è subito evidente che quella parte di plusvalore, mostrata nello schema dei valori, che spetta al capitale commerciale come profitto ed è accumulata nella sfera della circolazione (gli edifici delle imprese commerciali, le attrezzature per gli uffici, il capitale d’esercizio ecc.) rappresenta una detrazione dal profitto del capitale industriale(“Il Capitale”, III 1, pag. 270) e ”fino a un certo punto, un ambito ridotto in cui il capitale produttivo anticipato funziona produttivamente (“Il Capitale”, III 1, pag. 109). Più avanti questa parte del plusvalore è eliminata dall'accumulazione di capitale produttivo rappresentata nello schema dei valori e non è più coinvolta nella creazione di plusvalore, ma partecipa alla distribuzione dei profitti. Attraverso due fatti: riducendo il saldo attivo e ingrandendo quello passivo, il ritmo di accumulazione del capitale industriale è rallentato fino a una certa quota. "Più grande è il capitale commerciale in proporzione al capitale industriale, più piccolo è il saggio di profitto industriale" (“Il Capitale”, III 1, pag. 270). Allo stesso tempo è chiaro che parte del plusvalore (dal punto di vista di R. Luxemburg, parte del “plusvalore indetraibile”), tramite la realtà del profitto commerciale, viene spostata dalla sfera della produzione a quella della circolazione. La conversione dei prezzi di valore in prezzi di produzione (o, rispettivamente, in  prezzi di profitto) così ha l’effetto di un errore per tutte le proporzionalità calcolate nello schema dei valori!
Ciò che è stato detto qui per il capitale commerciale, si applica alla lettera e per le stesse ragioni anche al capitale bancario e monetario. Questi capitali agiscono esclusivamente nella sfera della circolazione, che è effettivamente quella della distribuzione, ma non sono coinvolti nella produzione di plusvalore. Se le merci fossero vendute al loro valore, ossia se gli industriali riuscissero a mantenere tutto il plusvalore di cui si sono inizialmente appropriati, allora “sarebbe impossibile, sotto questa ipotesi, (...) il capitale bancario, perché non farebbe profitti” [4]. In fine, sulla base dello schema dei valori, non solo sarebbe impossibile l’esistenza di “un costo del denaro”, ma sarebbe incomprensibile persino la variazione del tasso d’interesse. “Il tasso d’interesse è legato al tasso di profitto in modo simile a come il prezzo di mercato di una merce lo è al valore di quest’ultima. Nella misura in cui il tasso d’interesse è determinato dal tasso di profitto, il primo è sempre rappresentato da un tasso di profitto generale, non da specifici tassi di profitto che possono prevalere in settori industriali particolari.” (…) “Il tasso generale di profitto, quindi, riappare in pratica, come un fatto dato ed empirico, nel tasso medio d’interesse (“Il Capitale”, III 1, pag. 350). “In questo senso”, è detto altrove, “si può sostenere che il tasso d’interesse sia regolato dal tasso generale di profitto (“Il Capitale”, III 1, pag. 344). In uno schema dei valori, con i suoi diversi tassi di profitto nelle varie sfere e con il suo plusvalore generale, non sono spiegate né l’esistenza del tasso d’interesse, né la sua variazione; quindi anche i capitali bancari e finanziari, in quanto forme concrete di capitale (alle quali Hilferding giustamente conferisce un’importanza decisiva per gli sviluppi più recenti del capitalismo) sono impossibili.
E lo stesso vale per la rendita fondiaria nella sua moderna forma capitalista, che “esiste solo in una società la cui base è il modo di produzione capitalista (“Plusvalore”, III 1, pag. 454). Da uno schema dei valori, cioè partendo dal presupposto che tutte le merci sono vendute ai loro valori, non si può spiegare la rendita fondiaria [5].
Dalla precedente presentazione risulta sufficientemente chiaro che per la conoscenza del processo capitalista di produzione non sono immediatamente d’importanza cruciale le categorie contenute negli schemi di riproduzione: il valore, il plusvalore e i diversi tassi di profitto; ma quelle non contenute in essi: i prezzi di produzione, il profitto e le sue forme parziali e, in fine, il tasso medio di profitto. A queste ultime categorie deve esser riconosciuto il primato per la conoscenza immediata della produzione capitalista concreta, proprio perché il profitto medio è il “regolatore” e la “forza guida” di tale produzione e anche perché “tutta la dinamica capitalista” si basa sul movimento di equalizzazione dei tassi di profitto. Se si considera questi fatti, appare chiaro che uno schema dei valori, in cui queste categorie reali (su cui si basa l’effettivo movimento capitalista) sono assenti, probabilmente ci permette di riconoscere le tendenze storiche, ossia “le leggi generali dell’accumulazione capitalista”, come Marx le presenta già nel I libro del capitale; ma è impossibile che sia in grado di riprodurre le forme concrete del movimento del capitale nel nostro modo di pensare. Questa è la ragione per cui le conclusioni derivate dagli schemi dei valori concernenti la proporzionalità, o la sproporzionalità, delle sfere di produzione individuali non sono conclusive e sono, per lo meno, premature.


IV. Lo schema dei valori come un punto di partenza storico e teorico
 
Ma se l’esperienza ci mostra che le citate categorie del prezzo di produzione, del profitto medio e del saggio generale di profitto giocano il ruolo del regolatore e della forza guida della produzione capitalista, allora sorge la domanda: che funzione riveste dunque il valore? Uno schema di riproduzione basato sui valori non è forse inutile dato che non rappresenta un’immagine adeguata della produzione capitalista di merci e non ha una reale validità immediata? Tale conclusione sarebbe erronea. I valori mantengono, nonostante la realtà dei prezzi di produzione, un’importanza centrale nel capitalismo, come Marx ha effettivamente sottolineato, almeno sotto due punti di vista:
  1. sono innanzitutto il prius storico, valido per il periodo della semplice (ossia precapitalista) produzione di merci da parte di produttori indipendenti (artigiani, contadini ecc.) “fintanto che, in ciascun ramo della produzione, i mezzi di produzione stabiliti sono difficilmente trasferibili dalla propria sfera a un'altra” (“Il Capitale”, III 1, pag. 156); ossia fintanto che esistono ostacoli legali o pratici allo spostamento del capitale che impediscano la formazione di un tasso generale di profitto. Solo in questo periodo di produzione semplice di merci, lo scambio di merci secondo i loro valori (di mercato) non è solo un’ipotesi teorica, ma è una situazione effettiva nel senso che le fluttuazioni giornaliere dei prezzi di mercato oscillano intorno ai valori presi come centri di gravità” (“Il Capitale”, III 1, pag. 157).
  2. D’altro canto nella produzione capitalista di merci si è modificata la funzione attuale dei valori nello scambio: le merci ora si scambiano secondo i loro prezzi di produzione, che sono quantitativamente diversi dai loro valori, laddove i valori svolgono soltanto la funzione del prius teorico per la derivazione dei prezzi di produzione. Questi prezzi di produzione sono il regolatore del volume di produzione nel capitalismo, decidono sullo spostamento dei capitali, ossia sull’incessante investimento o disinvestimento nelle varie sfere della produzione, come anche sulla distribuzione societaria del capitale totale; essi,  non i valori, sono dunque responsabili pure della proporzionalità o della sproporzionalità di questa distribuzione. Però, mentre l’economia borghese accetta i prezzi di produzione come un fatto, senza esaminare ulteriormente la loro origine, Marx dimostra che proprio i prezzi di produzione devono esser derivati dai valori e che senza tale derivazione “il tasso generale di profitto (e da questo i prezzi di produzione delle merci) rimarrebbe un’idea priva di senso e di definizione (“Il Capitale”, III 1, pag. 136; “Plusvalore” II 1, pagg. 36 e 37). Per poter parlare di profitto medio, si devono conoscere le componenti su cui è calcolata la media. “Senza queste, il profitto medio è la media di nulla, una pura fantasia. Solo in questo senso la legge del valore governa (la) dinamica dei prezzi delle merci nel capitalismo” (“Il Capitale”, III 1, pag. 156; “Plusvalore” III, pagg. 91 e 92). Ma questo non impedisce che nelle varie sfere della produzione non i valori, ma i prezzi di produzione costituiscano i centri intorno a cui oscillano i prezzi giornalieri di mercato [6] e “verso cui in certi periodi questi ultimi convergono” (“Il Capitale”, III 1, pag. 159), e che inoltre i prezzi di produzione e non i valori della produzione regolino il volume di quest’ultima e l’allocazione di capitale e quindi definiscano quei momenti che sono d’importanza decisiva per comprendere le crisi (fintantoché queste sono dovute alla sproporzionalità della distribuzione di capitale) [7].
Vediamo che la vendita delle merci al loro valore non si applica alla realtà capitalista. “Lo scambio di merci al loro valore”, dice Marx, “richiede quindi un livello molto inferiore di quello dello scambio al prezzo di produzione, per cui è necessario un certo livello di sviluppo capitalista(“Il Capitale”, III 1, pag. 156). L’equalizzazione dei diversi saggi di profitto delle varie sfere industriali (da cui deriva la formazione dei prezzi di produzione) riesce al capitale tanto più “quanto più elevato è lo sviluppo capitalista di una certa comunità nazionale” (“Il Capitale”, III 1, pagg. 159 e 176). Da ciò segue che le prove di R. Luxemburg e dei suoi seguaci, ma ugualmente di Hilferding e Otto Bauer, devono esser sbagliate proprio dall’inizio, dato che essi s’ingegnano di dimostrare (o di negare) la regolarità delle crisi del capitalismo mediante uno schema che contempla la vendita delle merci solo al loro valore e che, secondo Marx, è espressione di un “livello inferiore di produzione, precisamente di una produzione di merci precapitalista. Con questo essi hanno ignorato l’importante schema dei prezzi di produzione per il capitalismo sviluppato, proprio in tutti quegli aspetti, come i prezzi di produzione e il profitto medio, che sono cruciali per la proporzionalità o la sproporzionalità della distribuzione di capitale nel capitalismo sviluppato. Le vere categorie che regolano il meccanismo totale vengono dimenticate; al contrario sono prese in considerazione categorie che sono irreali (la diversità dei saggi di profitto) e che, se fossero vere, “cancellerebbero l’intero sistema di produzione capitalista!”
L’inadeguatezza di tale procedimento è chiara. Se il summenzionato contrasto tra la teoria del valore e “i fenomeni effettivi della produzione”, tra lo schema dei valori e la realtà capitalista, fosse eliminato, allora non ci si dovrebbe fermare, nell’analisi del processo di riproduzione capitalista, allo schema dei valori con i suoi vari tassi di profitto; lo si dovrebbe considerare solo come un prius teorico, ossia come una teoria del valore, così da prendere lo schema dei valori soltanto come punto di partenza di un’analisi, da cui, con l’aiuto di un largo numero di legami intermedi, trovare un ponte che conduca ai fenomeni effettivi, ai prezzi di produzione e al tasso generale di profitto. In breve, lo schema dei valori deve esser trasformato con un’approssimazione graduale a vari livelli in uno schema di prezzi di produzione. “È chiaro che la rappresentazione, la realizzazione e la produzione del tasso generale di profitto necessitino della trasformazione dei valori nei prezzi di produzione da essi distinti(“Plusvalore”, II 1, pag. 161). In effetti Marx inizia, nel II libro de “Il Capitale”, la sua analisi del problema della crisi con lo schema dei valori. Ma il suo argomento fondato su questo livello di astrazione (lontano dalla realtà e inizialmente posto in contraddizione con essa) non è, e non può essere considerato, definitivo. Ha solo un carattere provvisorio e diviene completo con la teoria del III libro de “Il Capitale”, mediante la legge della trasformazione dei valori nei prezzi medi di produzione. Lo schema dei valori costituisce nell’analisi marxiana solo una forma embrionale, il primo passo nel processo di approssimazione che deve evolvere verso la forma prezzo attraverso una serie di metamorfosi!
Lo schema di Marx restringe la sua analisi alla sola creazione di valore e di plusvalore, intesi come un tutto, ossia nella forma in cui essi emergono dal processo di produzione in cui, inizialmente, sono immuni dalla concorrenza e dall’influenza della sfera della circolazione sulla distribuzione del plusvalore stesso. In seguito, però, gli elementi trascurati devono venir considerati e quindi l’analisi della creazione del plusvalore deve essere integrata dall’analisi dei suoi mezzi di distribuzione (ad opera della concorrenza) nel processo di circolazione. Dai summenzionati risultati per il problema delle crisi (in quanto legato all’interdipendenza e ai rapporti di proporzionalità delle diverse sfere di produzione) emerge la seguente conclusione, che allo stesso tempo indica anche un itinerario di ricerca da perseguire: se l’analisi della legittimità delle crisi nella realtà capitalista vuole essere rilevante, allora non può limitarsi allo schema dei valori, alla prima fase del metodo di approssimazione, ma piuttosto deve esser effettuata per tutte le sue fasi e verificata anche nello schema dei prezzi di produzione.

V. La problematica delle crisi e l’insegnamento del III libro de 
Il Capitale" di Marx

 
Il programma di ricerca appena formulato, tuttavia, è in stridente contrasto con la storia effettiva del problema delle crisi in campo marxista. “Nell'economia politica”,  dice Marx, “la tradizione non pensata è più potente che in qualsiasi altra scienza” (“Plusvalore” III, pag. 387). Vedremo che questo non si applica soltanto all'economia borghese, ma anche all'economia politica di alcuni epigoni di Marx. In primo luogo il significato degli schemi di riproduzione sviluppati nel II libro de “Il Capitale” non era stato affatto compreso. In un articolo del 1886, apparso sulla “Neue Zeit”,  circa un simposio sul II libro de “Il Capitale”, K. Kautsky cita i motivi per cui, a suo parere, questo volume ha meno interesse rispetto al primo per la classe operaia. Perché è importante solo la produzione di plusvalore nelle fabbriche. La questione ulteriore di come si realizza questo  plusvalore riguarda più i capitalisti che la classe operaia. E lo stesso giudizio, a volte anche con le stesse parole, lo ripete acriticamente dieci anni dopo (nel 1895) Ed. Bernstein, in occasione della pubblicazione del III libro de “Il Capitale” in una visione d'insieme dell'intero magnum opus di Marx, ormai completato. I militanti del movimento operaio hanno spesso letto solo il primo volume, non avendo avuto sotto mano per decenni i volumi successivi. "Tu vuoi sgobbare per capire i libri II e III de “Il Capitale”, scrive F. Engels ancora il 16 marzo 1895 a Viktor Adler a Vienna, "e io ti darò alcuni suggerimenti per aiutarti". Hilferding dice giustamente, pertanto, quando parla di “analisi del II volume trascurata” fino alla pubblicazione del libro di Tugan-Baranovskij nel 1901 (“Il Capitale Finanziario”, Vienna 1910, pag. 303) e poi aggiunge: “È merito di Tugan-Baranovskij l’aver (...) sottolineato nei suoi ben noti “Studi” l'importanza di queste ricerche per il problema delle crisi. Il fatto strano è solo che è stata necessaria questa sottolineatura” (ibid., pag. 304). Con la svolta che è avvenuta dopo la comparsa del libro di Tugan, si è caduti nell’estremo opposto. Fino a quel momento l’importanza degli schemi di riproduzione per il problema delle crisi non era stata vista per nulla, poi (come ho mostrato altrove [8]) si è cominciato a glorificare nel modo più sperticato la loro “esistenza sociale obiettiva” e a vederli come un’esatta replica dei processi di riproduzione capitalista, così da dedurre direttamente dai rapporti degli schemi di riproduzione delle conclusioni sui processi della realtà capitalista! Così, ad esempio, dice Rosa Luxemburg: “Dobbiamo domandarci quale significato abbia nella realtà lo schema del processo di riproduzione che abbiamo analizzato” (“L’Accumulazione del Capitale”, pag. 76). La sua risposta dice che le esatte proporzioni dello schema marxiano costituiscono “il fondamento generale e assoluto della riproduzione sociale” sia quella capitalista, sia quella socialista, sia di ogni altra produzione pianificata! (ibid., pagg. 56, 75 e 103). In un’economia socialista pianificata la produzione corrisponderebbe esattamente alle condizioni degli schemi.


“Nell’economia capitalista”, aggiunge Rosa Luxemburg, “manca ogni organizzazione sistematica dell’intero processo. Quindi (!, H. G.) niente segue il suo corso tranquillamente secondo le formule matematiche, come invece appare nello schema. Il ciclo di riproduzione procede, all’opposto, con continue deviazioni dalle condizioni dello schema” (ibid., pag. 76). “Nonostante tutte queste deviazioni, però, lo schema rappresenta quelle medie socialmente necessarie attorno alle quali avvengono questi movimenti e verso di esso tali movimenti ci riconducono una volta che ci si è allontanati” (ibid., pag. 77).
Non diverso è il caso di Otto Bauer. Anche per lui lo schema dei valori rappresenta quel punto di equilibrio tra accumulazione di capitale e popolazione attorno a cui oscilla la circolazione della riproduzione reale. Nonostante che la realtà mostri continue deviazioni cicliche dallo stato di equilibrio dello schema dei valori, con l’apparato produttivo che ha un eccesso di accumulo o un accumulo inferiore rispetto alla crescita della popolazione. Al contempo vi è una tendenza nel modo di produzione capitalista che (sebbene “tramite la mediazione delle grandi crisi”) “cancella automaticamente la sovra-accumulazione e la sotto-accumulazione, in modo che l’accumulazione del capitale continui ad adattarsi sempre alla crescita della popolazione” (“Neue Zeit”, 1913, vol. I, pag. 872), ovvero il movimento effettivo tende all’equilibrio calcolato teoricamente che è quello rappresentato dallo schema dei valori.
In stridente contrasto con la dottrina di Marx che abbiamo esposto pocanzi circa la funzione regolatrice del profitto medio e dei prezzi di produzione, in opposizione agli insegnamenti che fanno non dei valori, ma solo della loro forma modificata, ossia dei prezzi di produzione, il baricentro delle fluttuazioni dei prezzi del mercato, R. Luxemburg e O. Bauer attribuiscono questa funzione ai valori puri. I rapporti degli schemi dei valori non sono, per entrambi gli autori, solo il primo stadio nel processo di approssimazione, come in Marx, ma al contrario rispecchiano direttamente la realtà. Da questa divergenza nella concezione dello schema dei valori, da un lato in Marx e dall’altro in R. Luxemburg e O. Bauer, sorgono ulteriori conseguenze per l’analisi del problema delle crisi. Lo schema di riproduzione sviluppato nel II libro de “Il Capitale” con i suoi valori e i suoi diversi tassi di profitto (non equalizzati dalla concorrenza) non riflette la realtà. Se la teoria del valore non contraddice la realtà, ma la spiega, allora i valori devono essere convertiti (secondo gli insegnamenti del III libro de “Il Capitale”), con l’aiuto della concorrenza, in prezzi di produzione concreti, ovvero “una massa di connessioni intermedie” deve esser sviluppata in modo tale da condurre al tasso generale di profitto e, alla fine, alle date forme di profitto (l’interesse, la rendita fondiaria e il profitto commerciale). Poiché all’assunzione metodologica preliminare di Marx, secondo cui le merci sono vendute al loro valore, viene riconosciuto da R. Luxemburg e da O. Bauer un carattere realistico, lo schema dei valori viene ad essere considerato un riflesso della realtà e lo si usa per scavalcare fin da principio tutti i problemi connessi alla necessità di conversione dei valori in prezzi di produzione prima e in prezzi di mercato poi. Essi rinunciano al metodo della graduale concretizzazione delle relazioni raffigurate dallo schema, al metodo dell’aumento dell’accuratezza degli schemi di riproduzione. Non si ha più bisogno di comprendere la realtà gradualmente, poiché gli schemi, per R. Luxemburg e O. Bauer, già la rispecchiano!

Così è solo la logica conseguenza di questo errore cruciale se per R. Luxemburg e O. Bauer non soltanto il problema della trasformazione dei valori in prezzi, ma anche il problema connesso del tasso generale di profitto e quello della metamorfosi del plusvalore nelle forme speciali di profitto (profitti commerciali, interesse ecc.), quindi l’intera teoria del III libro de “Il Capitale” di Marx, non esistono! Questi autori rimangono alla “forma embrionale” dello schema dei valori, a un livello di astrazione lontano dalla realtà e non penetrano nelle “metamorfosi”, ossia nel percorso che guida verso la realtà capitalista concreta. Che a causa di una fatale incomprensione della metodologia marxista la relazione tra il problema della trasformazione dei valori in prezzi e il problema delle crisi non sia stata né vista, né trattata, è ovvio dopo ciò che abbiamo detto. In cosa risiedono questa connessione e la specifica funzione del calcolo dei prezzi? Per mostrarlo rivolgiamoci alla problematica così come si trova in R. Luxemburg. Attraverso la sua analisi critica degli schemi di riproduzione marxiani, ella pervenne proprio alla conclusione che all’interno di tali schemi (fin tanto che in entrambe le sezioni c’è una differente composizione organica di capitale) non è possibile una vendita di merci senza eccedenze, quindi un equilibrio, poiché “ogni anno (…) si deve formare un’eccedenza crescente di mezzi di consumo” (op. cit., pag. 306):
“Questo plusvalore residuo ineliminabile nella II sezione è ulteriormente rinforzato dalla considerazione dell’aumentata produttività del lavoro, poiché questa (…) rimanda a un’eccedenza molto maggiore di mezzi di consumo invendibili di quanto non risulti dalla somma dei valori di questa eccedenza” (op. cit., pag. 308).
Supponiamo per un attimo che R. Luxemburg avesse avuto successo nella sua dimostrazione. Cosa avrebbe effettivamente dimostrato? Soltanto il fatto che nella sezione II dello schema dei valori si trova un “residuo ineliminabile”, ossia sotto la condizione che le merci sono rimpiazzate secondo il loro valore. Ma sappiamo che questa condizione non corrisponde alla realtà. Nello schema dei valori su cui si basa l’analisi di R. Luxemburg ci sono, nelle varie sezioni, differenti tassi di profitto, che non sono compensati, per mancanza di concorrenza, con un tasso medio. Ciò d’altronde contraddice la realtà dove sussiste la tendenza all’equalizzazione dei diversi tassi di profitto in un saggio generale di profitto quale risultato della concorrenza. Che valore probante per la realtà hanno così le conclusioni di R. Luxemburg (la prova dell’ineliminabilità dei residui di consumo) se derivano da un sistema che non ha aderenza con la realtà? Come risultato della concorrenza, nello schema ha luogo la trasformazione dei valori in prezzi e dunque la redistribuzione del plusvalore tra le singole industrie, per cui necessariamente avviene anche un cambiamento nei precedenti rapporti di proporzionalità tra le diverse sfere dello schema, cosicché è assai possibile e probabile che “un residuo di consumo” nello schema dei valori sparisca poi nello schema dei prezzi di produzione e che, viceversa, un equilibrio originale nello schema dei valori si trasformi successivamente in una sproporzione nello schema dei prezzi di produzione. L’inadeguatezza della prova, che è limitata esclusivamente all’analisi dello schema dei valori, con i valori e i diversi tassi di profitto invece di operare con i prezzi di produzione e il tasso generale di profitto, è evidente. Dice la stessa R. Luxemburg: “Il capitale sociale totale con la sua controparte, il valore sociale totale, sono quindi non soltanto grandezze di evidenza obiettiva, ma il loro rapporto, il profitto medio, conduce e dirige (mediante il meccanismo della legge del valore) tutto lo scambio, precisamente i rapporti quantitativi di scambio di tutti i prodotti senza considerare i loro speciali rapporti di valore.” Il tasso di profitto è in effetti la forza guida, “che in pratica tratta ciascun capitale privato solo come una parte del capitale sociale totale, assegnandogli il profitto come una porzione adeguata del plusvalore estorto nella società, indipendentemente dalla quantità di plusvalore da esso effettivamente ottenuta” (op. cit., pag. 50).
Secondo questa presentazione di R. Luxemburg il profitto medio dirige l’intero scambio delle merci. Ciononostante ella analizza la questione se uno scambio senza residui sia possibile in uno schema che non conosce il profitto medio. Si può immaginare una contraddizione maggiore? Inoltre se, come nota R. Luxemburg, i rapporti di scambio delle singole merci hanno luogo “in modo non rispettivo ai loro particolari rapporti di valore”, se ogni capitale non realizza la quantità di plusvalore generata da se stesso, ma ne riceve solo una grandezza proporzionale al profitto medio, allora anche R. Luxemburg accetta indirettamente che la sua teoria della necessità della realizzazione del plusvalore è falsa; anche lei ammette che le merci non sono scambiate ai loro valori, ma ai loro prezzi, più rigorosamente ai loro prezzi di produzione, che si discostano in modo permanente dai valori perché, secondo Marx, “Il tasso medio di profitto è il solo che stabilisce il prezzo di produzione” (“Plusvalore”, II 1, pag. 78). Nel sistema marxiano lo stesso profitto medio e i prezzi di produzione che deviano dai valori sono dunque concetti correlativi! Perciò c’è una contraddizione logica quando R. Luxemburg non tira alcuna conseguenza nell’ulteriore corso della sua analisi dalla sua accettazione del dato empirico del profitto medio e del suo ruolo guida centrale, ovvero, è contraddittorio che benché ella riconosca l’esistenza del tasso medio di profitto, ciononostante resti attaccata all’idea che le merci siano vendute al loro valore! Il punto che abbiamo citato nel suo libro è infatti anche l’unico dove si parli di profitto medio e, in modo velato, di prezzi di produzione. Da nessuna parte, però, questa nozione è utilizzata per l’analisi del problema delle crisi.
Tuttavia R. Luxemburg, apparentemente, aveva persino percepito che lo schema dei valori fosse una costruzione irrealistica quando, nella sua “Anticritica”, dice del III libro de “Il Capitale” in relazione al I libro:
“Poiché qui c’è il cuore di una delle più importanti scoperte delle teoria economica di Marx, la teoria del profitto medio. Quest’ultima dà l’unico significato autentico alla teoria del valore del I libro” (pag. 38).
Si nota quindi che non gli insegnamenti sul valore del I libro, bensì soltanto i “prezzi di produzione” e il profitto medio del III libro hanno un “senso reale”. Ma nella sua opera sull’”Accumulazione” e nella sua “Anticritica” i prezzi di produzione non sono neppure citati e si accetta la falsa ipotesi che lo scambio di merci al loro valore tra I (v+s) e II c non sia solo un’assunzione metodologica, ma che sia il processo effettivo della realtà capitalista! Così ella dice, per esempio, che la richiesta di cibo per la sezione I dello schema, espressa attraverso il capitale variabile e il plusvalore di questa sezione, è ottenibile dalla produzione della sezione II “ma solo nello scambio con un uguale ammontare di valore del prodotto di I” (“L’Accumulazione”, pagg. 100 e 311). Persino nei suoi ultimi lavori pubblicati postumi, ella afferma che: “Tutte le merci sono scambiate secondo il loro valore” (“Introduzione all’economia politica”, pag. 239, Berlino, 1925) [9]. Questa opinione di R. Luxemburg, intimamente contraddittoria, attraverso cui ella cade nei peggiori errori del socialismo volgare, non è affatto una coincidenza. Nasce dalla sua falsa idea di una determinazione funzionale del plusvalore definita una volta per tutte attraverso forma naturale dello stesso, per agire o come mezzo di produzione nella sezione I, o come mezzo di consumo nella sezione II. Da questa predeterminazione funzionale ne deriva, per R. Luxemburg, che ogni spostamento del plusvalore s (o di una frazione di esso) dalla sezione II alla sezione I è impossibile. Tale spostamento di plusvalore secondo R. Luxemburg fallisce anche per una seconda ragione, ossia per l’equivalenza delle relazioni di scambio tra le due sezioni (“L’Accumulazione”, pag. 311). Questa asserzione basta a R. Luxemburg per negare l’intero contenuto del III libro de “Il Capitale” e, in particolare, la teoria dei prezzi di produzione e dell’emergere di un eguale tasso di profitto lì sviluppata. La sua ammissione verbale che il centro del III libro de “Il Capitale” sia “una delle più importanti scoperte delle teoria di Marx” non può oscurare il dato autentico che la dottrina del profitto medio è stata abbandonata; all’opposto, questa evidenza è ulteriormente enfatizzata dal fatto che R. Luxemburg definisce come impossibile l’unico modo in cui possa emergere un profitto medio omogeneo. Torniamo alle cifre dello schema marxiano di riproduzione semplice:
sezione I:   4000 c + 1000 v + 1000 m = 6000;  tasso di profitto = 20% 
sezione II:    2000 c + 1000 v + 1000 m = 4000;  tasso di profitto = 33%

Si vede bene che si sta seguendo lo schema dei valori, ossia lo scambio di equivalenti; quindi il fatto che i 1000 v + 1000 m della sezione I si scambino con un equivalente di 2000 c della sezione II significa che la teoria marxiana dei prezzi di produzione va alle ortiche dato che in entrambe le sezioni devono esistere tassi di profitto differenti. Il tasso di profitto della sezione I è il 20% e quello della sezione II il 33%. Come può emergere un tasso di profitto uguale (del 25%, nel nostro caso) per le due sezioni dello schema marxiano? Anche se può sembrare banale, ciò è possibile solo attraverso la formazione di prezzi di produzione, ovvero mediante il fatto che le merci della sezione I sono cedute alla sezione II al di sopra dei loro valori, mentre le merci della sezione II sono vendute alla sezione I al di sotto dei loro valori. Solo per il fatto che la sezione I per le sue (v+m)=2000 unità di valore ne ottiene di più (esattamente 2250 unità di valore) dalla sezione II,  può esserci un uguale tasso di profitto in entrambe le sezioni. In questo modo una parte del plusvalore della sezione II viene trasferita alla sezione I tramite lo scambio. Soltanto così un profitto maggiore (esattamente di 1250 unità di valore) di quello originariamente ottenuto (=1000 m) può venir ricavato nella sezione I, cosa che dà luogo a un saggio di profitto del 25% del capitale investito (c+v =5000 unità di valore). Alla sezione II resta, invece, del plusvalore originale (= 1000 m), solo un profitto di 750, che risulta da un identico saggio di profitto del 25% applicato al capitale investito di c+v=3000 unità di valore. Che la teoria di R. Luxemburg circa “l’ineliminabile residuo di consumo” della sezione II sia scossa fino alle fondamenta dalla tendenza all’equalizzazione dei tassi di profitto e dall’esistenza del trasferimento di una parte di plusvalore dalla sezione II alla sezione II, è senza dubbio chiaro dopo quanto abbiamo detto e la sua “posizione incrollabile” (Sternberg) si rivela essere una bolla di sapone che scoppia istantaneamente a contatto con la realtà. Se R. Luxemburg avesse voluto effettivamente dimostrare la sua idea di un residuo di consumo ineliminabile, avrebbe dovuto provarlo non solamente sulla base dello schema dei valori, ma ben oltre mediante lo schema dei prezzi di produzione e mostrare che un plusvalore ineliminabile deve nascere anche dopo la formazione di un tasso medio di profitto [10]. Ma questa prova ella non l’ha prodotta e non ha mai cercato di produrla.
La tendenza all’equalizzazione del saggio di profitto nei diversi rami della produzione è confermata dall’esperienza osservativa, che è stata unanimemente riconosciuta nel corso di un secolo intero da specialisti di vari orientamenti scientifici. In effetti, era stata riconosciuta già da Ricardo e da Malthus. Persino Marx parla di un “fatto dato empiricamente” (“Il Capitale”, III 1, pag. 350), di un “fatto pratico” (ibidem, pag. 149). “L’osservazione della concorrenza (ovvero i fenomeni della produzione) mostrano che capitali d’identica dimensione, in media, forniscono la stessa quantità di profitto” (“Plusvalore”, III, pag. 73). La tendenza al livellamento non è negata neppure dagli studiosi successivi, per esempio da Böhm-Bawerk e da vari altri, per il capitalismo fondato sulla concorrenza [11]. Soltanto nel modo di spiegazione di questo fatto le strade poi divergono e, per la difficoltà di questa delucidazione, fallisce particolarmente la scuola neo-ricardiana, poiché non sa come conciliare l’esistenza di un saggio di profitto omogeneo con la teoria del valore lavoro. Questo è il punto dove inizia l’impresa storica di Marx. Egli è riuscito, con la sua teoria della separazione tra prezzi di produzione e valori, a spiegare l’esistenza di un tasso di profitto identico, che sembra negare la legge del valore, a partire da questa stessa legge. Dal momento che R. Luxemburg nega, nonostante i dati dell’esperienza, la possibilità del trasferimento di una parte del plusvalore dalla sezione II alla sezione I, ossia la possibilità della formazione di prezzi di produzione e sostiene che lo scambio delle merci nelle varie sfere produttive avvenga secondo i loro valori, ella non può spiegare il saggio medio di profitto sulla base della teoria del valore lavoro; benché aderiscano in modo rigoroso alla teoria del valore, sono proprio qui le basi del sistema teorico marxiano dei prezzi. Poiché sotto le condizioni secondo cui le merci si scambiano come equivalenti tra le diverse sfere di produzione, l’esistenza di un tasso medio di profitto non può esser spiegata. E così invece di scartare la falsa ipotesi dello “scambio di equivalenti” tra le due sezioni dello schema e abbandonare l’impossibilità del trasferimento di valore dalla sezione II alla sezione I per spiegare i fatti, R. Luxemburg sacrifica i fatti per aderire alle false premesse dello scambio “equivalente” di merci! Quindi con un tratto di penna tutta la dottrina marxiana del profitto medio, secondo R. Luxemburg stessa “una delle più importanti scoperte della teoria economica di Marx”, viene  cancellata dal mondo.

VI. Invece di un ulteriore sviluppo oltre Marx, un regresso verso Ricardo
 
Quello che abbiamo detto in precedenza sulla disamina del problema delle crisi da parte di R. Luxemburg, si applica anche a tutti i teorici marxisti che hanno trattato delle crisi e del problema dell’accumulazione. Benché possa sembrare strano, è però un fatto che in tutta la citata discussione, iniziata con il libro di Tugan-Baranovskij del 1901 e durata più di 30 anni, circa la possibilità di uno svolgimento senza intoppi del processo capitalista di produzione, la vera questione (ossia dimostrare la problematica delle crisi in tutte le fasi del metodo di approssimazione) non è mai stata posta da nessuno. Che si tratti dei “neo-armonici” Kautsky, Hilferding e Otto Bauer, o di R. Luxemburg e dei suoi seguaci, o infine di Bucharin e di altri teorici del comunismo, tutti hanno trattato il problema solo marginalmente, maneggiando lo schema dei valori che contempla solo valori, plusvalori e differenti tassi di profitto, invece d’irrobustire le loro analisi e le loro conclusioni anche sulla base di uno schema dei prezzi di produzione, ossia di un meccanismo che mostri dunque le categorie regolatrici dei prezzi di produzione, della concorrenza e del tasso generale di profitto. Senza distinguere se s’invoca la necessità e l’inevitabilità delle crisi del capitalismo, o se, come fanno i “neo-armonici”, si sostiene la possibilità di un procedere senza crisi, è chiaro che le conclusioni derivate dallo schema dei valori sono premature e non definitive. Ma come possiamo insegnare l’analisi dello schema dei valori circa la necessità della proporzionalità o della sproporzionalità nello scambio capitalista di merci, se i quozienti di proporzionalità calcolati così faticosamente all’interno di questo schema sono successivamente capovolti dalla tendenza ineludibile all’equalizzazione dei tassi di profitto e, quindi, dalla conseguente redistribuzione del plusvalore?! Nessuno dei teorici citati ha riconosciuto l’importanza e la portata della trasformazione dei valori nei prezzi per la questione delle crisi, né l’ha mai citata con una sola parola o, meno che mai, l’ha discussa [12].
L’economia borghese conosce “la realtà pratica” (“Il Capitale”, III 1, pag. 149) dell’eguale saggio di profitto già dai tempi di Ricardo e Malthus. Ma né i classici, né la scuola post-ricardiana sono stati in grado di conciliarlo con la teoria del valore e sono quindi entrati in una stasi teorica, essendo obbligati o a sostenere la teoria a discapito dei fatti, o i fatti a discapito della teoria [13]. Per questa contraddizione tra teoria e fatti, per l’impossibilità di riuscire a derivare il tasso generale di profitto a partire dalla legge astratta del valore lavoro, la scuola post-ricardiana alla fine è perita e giustamente Marx ha fornito questo epitaffio come causa della scomparsa della scuola: “Costruzione del saggio generale di profitto (…) relazione non compresa tra valori e prezzi di produzione” (“Plusvalore”, III, pag. 280). Specialmente contro Ricardo Marx avanza la critica secondo cui l’economista inglese ha “introdotto” un tasso generale di profitto in accordo con la realtà, senza però “investigare quanto la sua esistenza sia in effetti compatibile con la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro”, mentre di fatto a prima vista la contraddice, e quindi l’esistenza di tale tasso dovrebbe esser spiegata mediante un gran numero di passaggi intermedi” (“Plusvalore”, II 1, pag. 14). Quindi Marx sottolinea “l’inadeguatezza scientifica” del metodo di Ricardo che conduce quest’ultimo a risultati errati e consiste nel fatto che Ricardo “inizia determinando le grandezze dei valori delle merci mediante il loro tempo di lavoro” e poi esamina se le altre relazioni e categorie economiche si accordano o meno con tali valori. L’inadeguatezza di questo metodo sta quindi nel fatto “che esso salta inevitabilmente i legami intermedi e cerca di dimostrare in modo immediato la congruenza delle varie categorie economiche tra loro” (“Plusvalore”, II 1, pag. 2).
Quando Marx ricostruisce questi "anelli intermedi" attraverso la sua teoria della formazione del saggio generale di profitto e della trasformazione dei valori nei prezzi di produzione (e, successivamente, nei prezzi mercantili), ha in effetti riconciliato la teoria del valore lavoro con i fatti empirici e ha ulteriormente sviluppato la teoria economica esattamente nel punto dove la scuola post-ricardiana era caduta. Ed è proprio questo specifico risultato della ricerca teorica di Marx a scomparire dalla recente discussione sulle crisi e sul problema dell’accumulazione. Ve n’è tanto poco in R. Luxemburg quanto in Otto Bauer, Hilferding o Bucharin. Tutti questi autori restano bloccati nella loro analisi della sfera, assai lontana dalla realtà, dello schema dei valori, senza preoccuparsi di chiedersi se lo schema rappresenti una prima approssimazione della realtà oppure la realtà stessa. Trascurano il fatto che questo schema, senza tutti gli altri legami intermedi, non è uno strumento adatto per studiare il modo di produzione del capitalismo avanzato e le forme concrete con cui i capitali si confrontano “nel loro movimento reale”. Poiché, come dice correttamente Engels nella prefazione al II libro de “Il Capitale”, “gli studi di questo secondo libro sono (…) solo la parte iniziale del contenuto del terzo libro, che ha sviluppato i risultati definitivi della rappresentazione marxiana del processo sociale di riproduzione della base economica capitalista” (“Il Capitale”, II, pag. XXIII). La rappresentazione, fornita nel II libro de “Il Capitale”, del processo di riproduzione sulla base dello schema dei valori contiene così solo la parte preliminare degli argomenti che si concluderanno nel III libro de “Il Capitale” con la teoria della conversione degli schemi dei valori in schemi dei prezzi di produzione. Solo con questa teoria il pensiero complessivo di Marx sarà concluso e il processo di convergenza, a cui si è giunti passando attraverso tutti gli stadi indotti dalla realtà concreta, sarà terminato. Tuttavia, vi è uno strano atteggiamento nella recente discussione su Marx: non si considera la totalità dei suoi argomenti sulle fasi intermedie, ma solo un brandello “preliminare” del suo pensiero compiuto, ossia l’adesione allo schema dei valori. Così, mentre i teorici marxisti che abbiamo ricordato pensano di oltrepassare Marx, in effetti tornano tutti indietro al punto dell’“incomprensione della relazione tra valore e prezzo di produzione”, su cui la scuola post-ricardiana si bloccò nel 1850 e alla fine soccombette.


Note
 

[1] In quel che segue i libri I e III de “Il Capitale” di Marx saranno citati secondo la terza edizione, mentre il libro II secondo la prima edizione. Le “Teorie sul plusvalore” saranno menzionate semplicemente come “Plusvalore”.
 
[2] H. Grossmann, La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, pag. VI e seguenti (Lipsia, 1929); H. Grossmann, La modifica dell'originale piano di costruzione de “il Capitale” di Marx e le sue cause (Arch. f. d. Gesch. d. Sozialismus, vol. XIV, 1929); H. Grossmann, La produzione dell'oro nello schema di riproduzione di Marx e Rosa Luxemburg, Festschrift für C. Grünberg, pag. 152 (Lipsia, 1932).


[3] L’obiezione di Sternberg contro la mia visione del valore, ossia che “essa tralascia l’importanza della concorrenza nel capitalismo” (“Lo sconvolgimento della scienza”, Berlino 1930, pag. 12), presenta i fatti in modo capovolto. Non sono io che ho trascurato la concorrenza, piuttosto non è stata presa in considerazione nella discussione trentennale sull’accumulazione e sul problema delle crisi. Nonostante il Sig. Sternberg parli della necessità di considerare la concorrenza, fa in modo simile agli altri autori, da Tugan-Baranovskij a Bucharin, dal momento che tutti utilizzano uno schema che contiene solo valori. Sia la differenza tra i tassi di profitto nelle diverse sfere, sia la conseguente eliminazione della concorrenza sono implicate dal concetto di valore, poiché “solo la concorrenza tra i capitali nelle diverse sfere dà luogo al prezzo di produzione ed equalizza i tassi di profitto tra le diverse sfere” (“Il Capitale”, III 1, pag. 156). Ma trattare le crisi come essenzialmente parziali, derivanti dalla sproporzione tra le singole sfere (come nelle opere di questi autori), significa considerare la concorrenza, vale a dire, la tendenza alla perequazione dei tassi di profitto, come assolutamente necessaria. La situazione è differente nel mio libro, dove c’è una spiegazione essenzialmente generale: tutte le sfere produttive rivelano la crisi di sovra-accumulazione. Per la società intesa come un tutto “si perde la distinzione tra valori e prezzi di produzione” (cfr. la mia “Legge dell’accumulazione ecc.”, da pag. 107 a pag. 211), dal momento che le due quantità sono identiche. Ugualmente errata è l'ulteriore obiezione secondo la quale l’effetto della concorrenza sarebbe già incluso nei valori stessi, poiché la concorrenza determina il valore, ossia il tempo di lavoro socialmente necessario. Questo punto di vista è del tutto incompatibile con le basi della teoria del valore di Marx. In effetti la funzione della concorrenza non è costitutiva del valore, ma solo denotativa. Essa non determina il tempo di lavoro socialmente necessario, piuttosto lo trova solo a posteriori. La concorrenza ha luogo esclusivamente nel mercato, ovvero, nella sfera della circolazione. Ma il valore è creato durante la produzione, che precede ogni tipo di concorrenza. “Il valore delle merci”, dice Marx, appare nei loro prezzi prima che esse “entrino in circolazione, come prerequisito e non come risultato della stessa” (“Il Capitale”, I, pag. 133. Similmente in “Per la critica ecc.” pag. 49). Già i fisiocratici Quesnay e Mercier de la Rivière sapevano che le merci hanno un valore di scambio prima di essere effettivamente scambiate sul mercato (“Il Capitale”, I, pag. 133 e in Aug. Oncken, Gesch. d. Nationalökon., Lipsia 1902, pag. 370).



[4] Lettera di Engels a Nikolai-on (pseudonimo di Nikolaj F. Daniel’son) del 15 ottobre 1888 (si vedano Le lettere di K. Marx e Fr. Engels a Danielson”, Lipsia 1929, pag. 45).



[5] Dunque la rendita assoluta è solo un “superprofitto”, ossia un “surplus rispetto al saggio medio di profitto” (“Plusvalore”, III, pag. 450; “Plusvalore”, II 2, pag. 4; “Il Capitale”, III 2, pagg. 174 e 316). “Così il surplus di questo valore (dei prodotti agricoli) rispetto al prezzo di produzione costituisce la rendita assoluta. Ma affinché questo surplus di valore rispetto al prezzo di produzione possa esser (misurato), il prezzo di produzione deve essere il prius, cosicché le leggi dell’industria s’impongano all’agricoltura.” (“Plusvalore”, III, pag. 114). “La rendita non è (…) assolutamente da spiegare quando il profitto industriale non domina su quello agricolo” (“Plusvalore”, III, pag. 113). “Per essere in grado di parlare di un surplus rispetto al profitto medio, questo stesso profitto medio deve essere definitivamente stabilito come riferimento e, come è il caso nel modo di produzione capitalista, come regolatore della produzione” (“Il Capitale”, III 2, pag. 316). Quindi a partire dallo schema dei valori, in cui questo regolatore non esiste, l’esistenza della rendita assoluta è incomprensibile.



[6] È quindi in errore K. Diehl, quando, assecondando apparentemente Marx, riconosce come legittima e necessaria la discrepanza tra i prezzi e i valori delle singole merci nella teoria marxiana, ma poi afferma che: “Per i prezzi medi di mercato Marx sceglie il valore del lavoro come centro di gravità” (K. Diehl, Sul rapporto tra valore e prezzo nel sistema economico di Marx”, Jena 1898, pag. 6 e anche nella 3a edizione delle “Spiegazioni scientifico-sociali delle leggi fondamentali dell’economia di D. Ricardo“, 1921, vol. I, pag. 96).

[7] “L’intero processo di produzione capitalista è regolato dai prezzi di produzione. Ma i prezzi di produzione regolatori sono, a loro volta, essi stessi regolati dall’equalizzazione del saggio di profitto e dalla distribuzione di capitale (ad essa corrispondente) nelle varie sfere societarie della produzione. Il profitto qui appare come il fattore principale, non della distribuzione dei prodotti, ma della loro stessa produzione” (“Il Capitale”, III 2, pag. 419).

[8] La produzione dell'oro nello schema di riproduzione di Marx e Rosa Luxemburg”, op. cit., pagg. 153 e seguenti.

[9] Similmente dice anche E. Heimann: “Nel mercato stesso le quantità delle merci si scambiano secondo uguali valori(Plusvalore ed economia sociale, pag. 10, Berlino, 1922).

[10] Nel ben noto schema di riproduzione di Otto Bauer, nel primo anno di produzione sono forniti dal plusvalore 10000 c e 2500 v in ogni sezione per scopi di accumulazione. L’effettiva accumulazione è però un’altra. È precisamente in maggioranza nella sezione I, con 14666 c e 3667 v, e meno nella sezione II, con 5334 c e 1333 v soltanto. Questo implica che Bauer ha trasferito una parte del plusvalore per l’accumulazione della sezione II nella sezione I, ma senza essere in grado di fornire una ragione scientificamente plausibile per giustificare tale trasferimento. Il tentativo di salvataggio da parte di Helene Bauer, ossia il suo suggerimento che tale trasferimento accada nei canali del credito, deve esser considerato come un ingenuo sotterfugio. I trasferimenti nei canali creditizi (che possono giocare un ruolo importante nella realtà) non sono permessi nell’analisi teorica dei processi di riproduzione. Si tratta dopo tutto di una delle molte assunzioni semplificatrici degli schemi di riproduzione di Marx: l’assunto metodologico che si astrae dal credito. L’obiettivo dello schema è in pratica solo quello di mostrare le relazioni di scambio tra le sue due sezioni e di considerare se delle vendite senza residui siano o meno possibili. A uno che ha delle difficoltà a risolvere il problema, non è lecito modificare successivamente le condizioni originariamente stabilite. Quindi Fr. Sternberg potrebbe trionfare su Bauer con fin troppa facilità. Se il trasferimento di una parte di plusvalore dalla sezione II alla sezione I costituisce per O. Bauer una difficoltà insormontabile su cui è inciampato, questo fatto non è solo lecito e giustificato dal punto di vista rappresentato nel presente testo, ma è addirittura necessario. Nella discussione precedente si è infatti dimenticato il dato per cui nelle sezioni dello schema di Bauer sussistono tassi di profitto distinti (nella sez. I p=29.4%, nella sez. II p=38.4%). Se si formasse un eguale tasso di profitto, ossia un tasso medio del 33.3%, allora verrebbero trasferite dalla sezione II alla sezione I non solo (come per O. Bauer) 5833 unità di valore, precisamente 4666 c e 1167 v, ma addirittura 6667 unità di valore. E questo trasferimento avverrebbe semplicemente attraverso lo scambio! Però sarebbe uno scambio ineguale in cui le merci di entrambe le sezioni sarebbero scambiare non secondo i valori, ma secondo i loro prezzi di produzione.
[11] Così Böhm-Bawerk parla di “un dato di fatto indubitabilmente fissato, l’assunto che si realizzi un’equalizzazione nei guadagni da capitale” (“Capitale e Interesse”, 3a edizione 1914, vol. I, pag. 537); similmente S. Budge: “L’esperienza mostra che i tassi di profitto (…) tendono dunque a equalizzarsi e quindi nello stato immaginario di equilibrio dell’economia, la cosiddetta “statica”, sono uniformi” (“Il profitto del capitale”, Jena 1920, pag. 6).

[12] Questo è vero anche per J. J. Rubin, che nel suo libro “Schizzi sulla teoria marxiana del valore” (4a edizione, Mosca, 1929) tuttavia afferma: “La teoria del valore lavoro e quella dei prezzi di produzione non rappresentano teorie diverse per due tipi di economia, ma un’unica teoria per la stessa economia capitalista, ma a due livelli distinti di astrazione scientifica” (pag. 217); però non affronta in modo più approfondito la questione della trasformazione dei valori nei prezzi di produzione, né le conseguenze che ne derivano per la problematica della crisi, anche se, secondo Rubin, i tassi di produzione sembrano rappresentare un livello più concreto di astrazione rispetto ai valori. Lo stesso vale per molti altri autori come: K. Diehl (“A proposito del rapporto tra valore e prezzo nel sistema economico di Karl Marx”, Jena 1898), Tugan-Baranovskij (“I fondamenti teorici del marxismo”, Lipsia 1905, in particolare pag. 174 e seguenti), von Bortkiewicz (“Calcolo del valore e calcolo del prezzo”, Archivio per le Scienze Sociali, 1907 e “Per la correzione della struttura teorica di base di Marx nel III libro de ‘il Capitale’”, Annuario Conrad per l’Economia Politica e la Statistica, 1907) e, poco tempo fa, Hans Zeisel (“Un'obiezione alla teoria di Marx del valore, Der Kampf, Vienna 1930) e Emil Walter (“Liquidazione della teoria del valore-lavoro?”, ibidem). Anche se tutti costoro hanno posto il problema dei valori e dei prezzi di cui parliamo al centro del loro interesse, tuttavia lo hanno fatto esclusivamente dal punto di vista di come la derivazione marxiana dei prezzi di produzione dai valori sia corretta e compatibile con i fondamenti della teoria del valore di Marx. Nessuno di questi autori, tuttavia, ha riconosciuto l'importanza della trasformazione dei valori nei prezzi per il problema della crisi.

[13] Secondo Marx questa “confusione dei teorici” consiste nel fatto “che (…) l’economia contemporanea forzatamente astrae dalle differenze tra plusvalore e profitto, tra saggio di plusvalore e saggio di profitto, per poter rimanere agganciata alla determinazione del valore come base, oppure rinuncia, insieme a questa determinazione del valore, a tutto l’insieme dell’atteggiamento scientifico per rimanere legata a quelle vistose differenze relative all’aspetto esteriore” (“Il Capitale”, III 1, pag. 147).

Traduzione a cura dei membri italiani del SPGB.


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