sabato 20 agosto 2016

Il giovane Bordiga parte seconda

Questa seconda parte, che si chiuderà con i commenti di Bordiga sulla Rivoluzione di Ottobre in Russa, rivela degli aspetti interessanti. Una prima posizione sulla leadership. Bordiga si esprime chiaramente contro un movimento guidato da pochi capi. Questo è confermato anche dal suo commento in merito al lavoro di Lenin e Trotskij dove Bordiga scrive sia puerile attribuire meriti o demeriti a soli due uomini. Nonostante non fosse direttamente coinvolto nella Conferenza di Zimmerwald, organizzata principalmente dai socialisti Italiani, svizzeri e russi, Bordiga commenta sul fallimento della Seconda Internazionale, nella quale egli ancora un po’ di speranze riservava, dettato dall’ingresso in guerra della Francia e della Germania con il bene placito dei partiti socialisti di queste due nazioni, e separatamente formula una sua idea sulla questione nazionale distinguendo le guerre di unificazione nazionale da quelle imperialiste. Secondo Bordiga l’identità culturale, non combacia con il concetto di nazione che ha lo Stato borghese, il quale si cura degli interessi economici e non del rispetto dell’identità culturale. Infine Bordiga chiaramente esalta l’uso della violenza rigettando la rivoluzione legalitaria dei riformisti.    
Nel marzo e nell’aprile del 1913 “L’Avanguardia” pubblica una serie di articoli di Bordiga intitolati “Per la concezione teoria del socialismo” … qui Bordiga esprime chiaramente la sua visione politica che se da un lato è marxista rivoluzionaria dall’altro ha del sapore fortemente di azionismo anarchico: non dobbiamo essere filosofi ma uomini d’azioneil proletariato è ancora alla ricerca del suo programma e non lo troverà definitivamente che dopo una lunga serie di lotte e inevitabili errori commessi nell’azione. Il pensiero socialista si era messo con Marx al di fuori della filosofia.  Il marxismo pone in luce il rapporto di causalità che fa derivare dal fatto economico trasportando nella scienza economica l’origine della scienza sociale. Il socialismo è e deve essere materialista. Noi abbiamo un programma di fatto: l’abolizione della proprietà privata e del regime del salariato. Ci si deve guardare dagli inganni del pensiero borghese e particolarmente delle forme idealistiche che vogliono distrarre l’attenzione del proletariato da quei problemi economici che esso tende a risolvere con la soppressione violenta del dominio di classe. Il nostro pensiero di rivoluzionari è un grande atto di sincerità, contro tutto il pensiero politico della borghesia che è falsificazione e speculazione. Engels diceva che le basi della scienza del socialismo erano gettate, e ora non restava che da svilupparle nei dettagli… Può il pensiero proletario assumersi il carico enorme di questo sviluppo teorico completo? Ecco il problema, secondo Bordiga la risposta era negativa. Faremmo nuovamente dipendere l’azione proletaria dall’intellettualismo borghese, sosteneva. Il Bordiga di questi primi anni era quindi per l’azione.
“Per la cultura socialista” è un articolo uscito su “L’Avanguardia” nel luglio del 1913, dove Bordiga commenta l’opera di Albert e Duchene “Il socialismo rivoluzionario” e la prefazione fattane da Mussolini sull’“Avanti”. Vi sono degli elementi interessanti in questo articolo. In primis Bordiga è un po’ deluso dal poco tempo dedicato da Mussolini alla prefazione. Quindi, c’è un passaggio sulla critica al pensiero anarchico e sindacalista. Secondo Bordiga troppo spesso questi (gli anarchici e i sindacalisti) sono criticati dal punto di vista riformista, ovvero, rigettandone la violenza e ispirandosi invece alla rivoluzione legalitaria. Invece per Bordiga le deficienze del movimento anarchico e sindacalista stavano proprio nel come volevano raggiungere lo scopo rivoluzionario, gli anarchici troppo astratti e i sindacalisti troppo semplicisti nel credere che il sindacato basti a tutto. In più Bordiga dissentiva dagli autori sul fatto che il Marxismo sia fatalista. Il marxismo non limita la portata della rivoluzione ai soli fatti economici ma stabilisce solo un rapporto di causalità che a noi pare innegabile, tra la questione economica e la questione sociale nel solo intento di trovare più facilmente le vie risolutive della seconda. Poi sulla tattica parlamentare, sempre in questo articolo, si trovava un elemento chiave di quello che sarà il pensiero del Bordiga futuro. Egli concordava con la critica ai motivi sballati dell’astensionismo anarchico, e riconosceva la critica di Albert e Duchene all’azione parlamentare in quanto soffocatrice di ogni altra attività. Bordiga commenta – non può negarsi che i fatti sembrano dargli ragione – ma per Bordiga a questo punto si tratta di vedere se il parlamentarismo giova o no al programma massimo del socialismo. Pochi anni più tardi la sua risposta sarà no e la giustificazione sarà la medesima di Albert e Duchene, e da qui il suo astensionismo. Già nel novembre del 1913 Bordiga usciva con delle considerazioni sulla battaglia elettorale appena conclusasi. E’ infatti indiscutibile che le conquiste del Socialismo, dalle massime alle immediate, devono essere opera di grandi masse che si siano formata una coscienza collettiva dei propri interessi e del proprio divenire e siano convinte che, per garantirli ed affermarli efficacemente, non debbono abdicare la tutela nelle mani di pochi dirigenti; come non debbono chiedere aiuti di sorta alla classe economicamente avversa. Il Partito Socialista deve coltivare e diffondere questa coscienza collettiva… Nessuno può negare la verità dell’osservazione che l’uomo costretto al lavoro manuale è propenso a delegare ad altri, agli intellettuali, la gestione e quindi il dominio della vita sociale. Anche le masse quasi coscienti di una qualsiasi finalità tendono ad affidarne la realizzazione ad un uomo o a pochi uomini, che seguono poi troppo ciecamente… Vogliamo dedurne che nelle attuali condizioni ogni forma di azione di classe – non le sole elezioni, ma anche l’azione sindacale e perfino la rivolta di piazza – presenta il rischio che le masse rinunzino all’effettivo controllo dei propri interessi e lo affidino ad un certo numero di “capi”. Bordiga allora non era contrario alle elezioni, ma già vedeva con che facilità nelle lotte elettorali si perdeva di vista ogni scopo che non sia il risultato numerico. Da “Democrazia e Socialismo” è chiaro che per Bordiga le elezioni erano una buona occasione per fare propaganda nelle piazze ove si vuole anche nei seggi di consiglieri comunali e provinciali, o di deputati, ma nulla di più.               
Al XIV Congresso Nazionale del PSI di Ancona aprile del 1914 Bordiga tenne la relazione politica della Direzione e sul socialismo meridionale. Fece un discorso sulla tattica del Partito nelle elezioni ammnistrative. Anche in questo caso Bordiga si batté per una politica di intransigenza assoluta contro ogni tipo di coalizione con i partiti borghesi anche per il Sud Italia, contro i blocchisti. E nonostante le condizioni speciali del Sud Italia, invitava il PSI ad affrontare la questione ammnistrativa con una direttiva unitaria, e a fare dei comuni socialisti un’arma contro lo Stato capitalista e borghese. Il 7 giugno del 1914 in onore della festa dello Statuto Albertino (carta costituzionale della monarchia sabauda) sempre ad Ancona fu organizzata una manifestazione presenziata da repubblicani ed anarchici dove accorse una folla numerosa. I carabinieri aprirono il fuoco sulla folla accorsa uccidendo tre persone. I lavoratori di tutta Italia risposero a questo atto di violenza con dimostrazioni di piazza, i capi del sindacato, Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), socialisti riformisti, furono costretti a proclamare lo sciopero generale. L’epilogo di questa insurrezione fu tipica della storia italiana come commentò Bordiga negli anni 60. Ma il 12 giugno, quando già i poteri statali e la borghesia sbigottivano, la CGdL rese loro uno dei suoi innumerevoli servigi; ordinò la fine dello sciopero generale. Era fresca la tradizione anarchica e sindacalista soreliana, secondo cui il sindacato ha per sua funzione l’azione diretta e violenta e il partito quella legale. Bordiga fu colpito personalmente dalla reazione del governo, ma non spenderà mai una parola sulla sua vicenda personale. Fu in fatti licenziato dalle Ferrovie dello Stato dove lavorava come ingegnere per aver partecipato alla dimostrazione di Napoli. In quei giorni, il 25 giugno, pubblicò in merito un ordine del giorno breve su “Il Socialista” dove salutava i rivoltosi a nome della Sezione Napoletana del PSI.
Nel già citato “Democrazia e Socialismo” uscito il luglio del 1914 su “Il Socialista” si intende come Bordiga si riferisca alla democrazia borghese e quindi si intende la sua frase che il socialismo si affermò come solenne denunzia del fallimento storico della formola democratica, e degli inganni che questa conteneva. E argutamente scrive – La democrazia [aggiunta nostra: borghese] vede nel sistema rappresentativo il mezzo per risolvere ogni problema di interesse collettivo; noi vediamo in esso la maschera di una oligarchia sociale, che si avvale dell’inganno dell’uguaglianza politica per mantenere oppressi i lavoratori. – e ancora più interessante questo altro concetto che – il socialismo è nel campo amministrativo per la massima autonomia locale –. Altro passaggio fondamentale presente in questa serie di articoli è quello su cosa voglia dire essere socialista… vuol dire ritenere oggi, in base all’esame delle condizioni economiche sociali presenti, possibile un’azione di classe tendente a distruggere il capitalismo per sostituirvi un nuovo ordinamento sociale. Agire da socialisti, significa dare opera a che la coscienza di una tale possibilità si diffonda in un numero sempre maggiore di proletari, con la maggiore simultaneità possibile nei diversi paesi e nelle diverse nazioni. Chi, pur riconoscendo che la distruzione del capitalismo sarà una belle cosa, non ritiene giunto il momento di agire in tal senso, ma crede opportuno prima risolvere ben altri problemi, non è un socialista. Sempre in questa serie di articoli poi Bordiga delinea una tesi municipalista, vicina a quella sostenuta da Mussolini sull’“Avanti”. Secondo Bordiga non si poteva saltare lo stadio della solidarietà dei lavoratori nella loro città, ovvero nei loro Comuni, ma il ruolo del Partito era sempre di propaganda, proselitismo e di preparazione all’urto finale delle classi.
In tema di neutralità: al posto nostro” esce sull’“Avanti” nell’agosto del 1914, dove percepisce da subito una di quelle che definisce correnti pericolose ovvero un sentimento di simpatia per la Triplice Intesa, giustificando non solo, ma esaltando l’atteggiamento dei socialisti francesi fino a sostenere che i socialisti italiani dovrebbero accorrere a battersi in difesa della Francia. Questa anche se in sordina fu poi la linea presa da Mussolini. Mentre per Bordiga il concetto di patria era per definizione anti-socialista e non poteva esistere nessuna guerra di difesa. Poi nel settembre, dalle pagine de “Il Socialista”, si riferì apertamente all’atteggiamento di Mussolini in “L’Avanti e la guerra”. In questo articolo criticava l’ambiguità della linea data da Mussolini nei confronti della guerra, nonostante ci tenesse a precisare la sua stima per il direttore dell’Avanti, concludendo con – il Partito deve rendersi sempre più autonomo delle singole persone: e lo stesso Mussolini lo ha tante volte sostenuto! – A seguire vi fu la pubblicazione del manifesto della Direzione e del Gruppo parlamentare del PSI contro la guerra, del quale Mussolini ne rivendicò la paternità. Fino ad arrivare al famoso articolo di Mussolini sulla neutralità attiva ed operante che spingerà il Partito a dimetterlo da direzione dell’“Avanti”. Bordiga rispose al famoso articolo di Mussolini, con un editoriale su “Il Socialista”, “Per l’antimilitarismo attivo ed operante”, dove definiva quelle di Mussolini, balorde esagerazioni. Qui Bordiga però si trovava in una posizione poco lineare – Il concetto di neutralità ha per soggetto non i socialisti, ma lo Stato. Noi vogliamo che lo Stato resti neutrale nella guerra, assolutamente, fino all’ultimo, checché avvenga. Per ottenere ciò noi agiamo su di esso, contro di esso, nel campo e coi mezzi della lotta di classe. Da questa non vogliamo disarmare. La nostra guerra è permanete. – Quando poi Mussolini dal suo nuovo giornale interventista, contro le sue stesse posizioni di pochi mesi prima, incominciò ad attaccare il PSI, Bordiga da “Il Socialista” lanciò l’appello di boicottarlo. In fine nel dicembre del 1914 si concluse la vicenda Mussolini socialista, che per i continui attacchi al PSI venne espulso dallo stesso; Bordiga sempre da “Il Socialista” riportò soddisfatto la notizia, e rimarcò che le condanne contro i traditori sono senza appello.
Un’altra serie di articoli apparvero su “L’Avanguardia” intitolati “Il socialismo di ieri dinanzi alla guerra di oggi”. Qui vi sono diversi spunti molto interessanti: la guerra … è certo una distruzione di capitali, ma alla borghesia intesa come classe, più che il possesso materiale dei capitali, interessa la conservazione dei rapporti giuridici che le consentono di vivere sul lavoro della grande maggioranza. Questi rapporti, interni alle nazioni, consistono nel diritto di monopolizzare gli strumenti di lavoro, che a loro volta sono frutto di altro lavoro della classe proletaria. Quindi per il proletariato la guerra è disastrosa sotto ogni rapporto mentre per la borghesia ne vede intaccata la sua ricchezza materiale, ma conservati e forse rafforzati i rapporti potenziali per ricostruirla, poiché la lotta di classe si assopisce e si spegne nell’esaltazione nazionale. Gli Stati moderni con il loro regime di democrazia mantengono quindi in schiavitù economica la classe dei lavoratori che può essere mobilitata in 24 ore sul fronte essendo la democrazia borghese di fatto la miglior tirannide, insiste Bordiga. In più egli notava che un moto rivoluzionario avrebbe sempre maggiore possibilità di successo in tempo di pace che alla vigilia della guerra. Bordiga il quale riservava ancora qualche fiducia nella Seconda Internazionale dei lavoratori, constatò il vero insuccesso del Socialismo nell’adesione dei partiti socialisti nazionali, di Francia e Germania, alla guerra. I capi di questi Partiti spesso per la loro maggior cultura, borghese intende Bordiga, hanno troppi legami con le ideologie borghesi e si sentono più rappresentati della Nazione che dal Socialismo. Il Socialismo deve quindi rimettere su più salde basi l’azione antimilitarista, rivedere in senso più rivoluzionario la sua azione parlamentare…. Sulla questione nazionale, poi sviluppa la nozione che le guerre ora venivano fatte dagli Stati e non dalle Nazioni. Distingue quindi le guerre di unificazione nazionale da quelle imperialiste. E anche la scusa, ancora in voga oggi per altro, di diffondere la democrazia con le baionette, per Bordiga è ovviamente una scusa borghese. Sul principio di nazionalità pubblica anche un articolo sull’“Avanti” nel gennaio del 1915. La sua posizione in merito è interessante se si mette nel contesto della polemica tra la Luxemburg e Lenin, che Bordiga al tempo ignorava. Bordiga fa qualche riferimento a Zimmerwald, ma non vi partecipò direttamente. Poi in netto contrasto con i riformisti di sinistra, dichiara – Pacifismo? No. Noi siamo fautori della violenza. Siamo ammiratori della violenza cosciente di chi insorge contro l’oppressione del più forte, o della violenza anonima della massa che si rivolta per la libertà... Ma la violenza legale, ufficiale, disciplinata all’arbitrio di autorità,… questa violenza… ci fa schifo e ribrezzo –
Bordiga prese come riferimento Karl Liebknecht per il suo discorso al Reichstag il 2 dicembre 1914 contro l’aumento dei crediti di guerra approvati dalla socialdemocrazie tedesca. Citando più volte Karl Liebknecht per le sue parole contro il militarismo e contro la guerra. Bordiga riallacciò esplicitamente il suo antimilitarismo a quello internazionale proprio di Karl Liebknecht, dei deputati socialisti russi, dei compagni serbi, del riformista Independent Labour Party d’Inghilterra (probabilmente riferendosi ad un Articolo dell’Avanti di J Bruce Glasier, che si riferiva al pacifismo di Keir Hardie all’interno del Partito Labourista) e dell’anarchico Sébastien Faure in Francia. Quindi chiaramente senza tenere in considerazione la loro linea politica, ma solo il loro antimilitarismo. Il caso Frederich Adler, esponente socialista internazionalista austriaco che uccise in un atto anarchico il Primo Ministro Austriaco Stürgkh, suscitò reazioni contrastanti tra i socialisti anche estremisti. Vi era chi condannava questo tipo di atti e chi lo giustificava come atto di esasperazione. Bordiga si schierò con questi ultimi. Fedele alla dottrina socialista internazionale, commenta Bordiga, interprete sicuro, come il suo fratello ideale Carlo Liebknecht, della vera tattica proletaria, si dette alla battaglia contro la borghesia e l’imperialismo nel suo paese. Federico Adler è nostro, rivendicava Bordiga.        
Sulla rivoluzione Russa ci limiteremo ad analizzare qui agli articoli scritti nel 1917, in quanto il pensiero bordighiano post-leninista necessiterebbe una trattazione a parte. Bordiga scrisse una serie di articoli dal titolo “La rivoluzione Russa nell’interpretazione socialista” su “L’Avanguardia” proprio nel 17. Bordiga riconosceva che la rivoluzione russa fosse un fenomeno in atto da già 50 anni. Ma a differenza dal primo commento di Gramsci, il quale pur sostenendo la rivoluzione senza riserve ne individuava le contraddizioni con il pensiero marxiano, Bordiga commentò che nonostante potesse sembrare che  l’applicazione più rigorosa (interessante notare che Bordiga ne critichi il rigore) delle linee del sistema marxistico si adattassero male ad un paese arretrato politicamente, dal punto di vista borghese, come la Russia, qui si era formato un forte Partito socialista marxista – forse il più ortodosso del mondo – riferendosi soprattutto alla frazione bolscevica. Infatti aggiunse, qualche riga dopo, l’estrema (la corrente bolscevica) è la più genuina … vuole la pace, rifiuta la collaborazione anche transitoria di classe, e invoca la presa del potere per attuare il Programma Comunista. Ma notava d’altro canto, come molti altri socialisti, che i metodi socialisti mal si applicavano ad un paese maggiormente costituito da immense masse contadine. Bordiga concludendo in dicembre questa serie di articoli commentava sul trionfo massimalista, utilizzando la terminologia più consona al socialismo italiano, intendendo però la frazione maggioritaria, ovvero bolscevica. Finalmente il governo è rovesciato, scriveva Bordiga, ed il Soviet in cui gli estremisti sono diventati l’enorme maggioranza assume il potere. Mentre scriviamo, fra la ridda di notizie contradditorie e tendenziose che giungono a noi, si comprende che i socialisti lavorano all’attuazione di un programma dalle linee semplici e grandiose – quello stesso del Manifesto dei Comunisti – cioè la espropriazione dei privati detentori dei mezzi di produzione, mentre procedono logicamente e conseguentemente a liquidare la guerra. Un quadro più dettagliato viene riportato nell’articolo del 16 dicembre “Il caos” su “L’Avanguardia”. Qui commentava Bordiga che Lenin e Trotskij con tutti i massimalisti, in quanto sarebbe puerile attribuire tutto …a due persone, potranno essere giudicati i salvatori della Russia proletaria od i traditori della civiltà mondiale. Non possono essere imputati di non sapere che cosa vogliono, di non avere un programma preciso e di non attuarlo con piena coscienza dei mezzi e delle responsabilità. Il caos non è dunque in Russia, dove le cose si vanno assestando.           
Il Bordiga pre-Lenin aveva quindi già un’idea molto chiara di socialismo rivoluzionario marxista, era intransigente, impossibilista per molti aspetti, con una propensione però per l’attivismo, talvolta anarcoide, esaltando l’uso della violenza, si veda il suo commento su caso Adler e post-Lenin per il centralismo blanquista, dai quali non possiamo che prendere le distanze.

Il giovane Bordiga parte prima

Amadeo Bordiga con i dovuti distinguo del caso ha probabilmente rappresentato in Italia ciò che si avvicina di più al marxismo rivoluzionario come inteso dal WSM. La sua costante lotta al riformismo, al revisionismo, al militarismo, e al nazionalismo anche di “sinistra” è sicuramente in linea con le nostre posizioni, mentre la sua esaltazione della violenza rivoluzionaria, l’avversione verso pressoché ogni tipo di forma democratica, e l’adozione del centralismo sono punti di profonda divergenza. Secondo Michele Fatica nel giovane Bordiga era presente l’antitesi tra il socialismo e la democrazia con le sue istituzioni simbolo: la caserma e la fabbrica. Sempre secondo Fatica questo era dovuto per la sua identificazione della democrazia con la massoneria, che lo spinse più tardi a respingere il centralismo democratico formulando il centralismo organico. Dove la direzione del Partito sarebbe diventata un’entità astratta custode della dottrina marxista. Ad ogni modo, la sua posizione giovanile sull’uso del parlamento fu molto vicina al nostro approccio. Il giovane Bordiga non vedeva la via parlamentare come l’unico mezzo di lotta, e prima delle varie delusioni elettorali con il PSI, la sosteneva solo come un mezzo di propaganda e proselitismo socialista.
A causa della ampia censura che il pensiero e l’opera di Bordiga hanno ricevuto dal Partito Comunista Italiano, molto poco si sa sul lavoro di Bordiga, eccettuato il periodo attorno alla scissione del 1921, dove per forza di cose non poteva non figurare nei resoconti storici anche della sinistra stalinista. Per questa ragione in questi due articoli analizzeremo i suoi primi anni di vita politica, ovvero il periodo che va dal 1911 al 1917.
Bordiga nacque nel 1889 a Resina, oggi Ercolano, vicino a Napoli. Suo nonno materno, il conte Michele Amadei di origine toscana ma residente a Roma fu anche egli un ribelle, diventando, nonostante il suo titolo nobiliare, un patriota Risorgimentale oppositore del Papa Re, e affiliato alla Massoneria. Il conte Amadei fu anche Sottosegretario del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio e al Parlamento del Regno d’Italia per ben otto legislature dal 1874 al 1897. Anche da parte paterna la famiglia Bordiga era attiva politicamente. I due fratelli Oreste, il padre, e Giovanni, lo zio, di origine piemontese, furono due affiliati alla Massoneria. Lo zio Giovanni, matematico, Professore all’Università di Padova, era un irredentista veneto. Il padre Oreste, lavorò come Professore di economia agraria, a Portici nel napoletano, dove Amadeo crebbe e iniziò la sua vita politica.
Amadeo Bordiga entrò a far parte del Partito Socialista Italiano (PSI) nella sezione di Portici all’età di 21 anni nel 1910 ancora giovane studente di ingegneria, si laureò due anni più tardi. Secondo una ricostruzione dello stesso Bordiga sessantenne, la sua iscrizione al PSI fu una reazione all’emissario del Grande Oriente d’Italia quando gli chiese di entrare nella Massoneria. La situazione all’interno del PSI quando Bordiga ne fece ingresso era alquanto complessa. In linea di principio il PSI era organizzato seguendo l’esempio della socialdemocrazia tedesca; con la differenza che avendo pochissimi fondi, mancava di funzionari, ovvero politici di professione, stipendiati dal partito. Vi era una Direzione con a capo il Segretario di Partito e un Gruppo Parlamentare eletto dai membri con diritto di voto. Questi due gruppi non sempre coincidevano e spesso non concordavano sulla linea politica. Il Gruppo Parlamentare “guidato” da Filippo Turati, il principale artefice della creazione del PSI nel 1892, era pressoché riformista, nonostante Turati si reputasse e fosse riconosciuto spesso come marxista ortodosso.
Nonostante gli anarchici furono stati espulsi durante il secondo congresso del partito nel 1892 a Reggio Emilia, e i sindacalisti rivoluzionari nel 1907 a Ferrara, nel 1910 il PSI raccoglieva ancora diverse correnti. I riformisti “di destra” alla Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, i riformisti “di sinistra” turatiani, come Giuseppe Modigliani e la frazione rivoluzionaria intransigente, guidata dall’ex-operaista, Costantino Lazzari. Quest’ultimo secondo Luigi Gerosa avrebbe influenzato molto l’intransigenza di Bordiga con l’opuscolo “I principi e i metodi del Partito Socialista Italiano” uscito nel 1911, dove il leader degli intransigenti, Lazzari appunto, si rifaceva al programma costitutivo del 1892 e lamentava le varie degenerazioni da esso. Come citato in un mio precedente articolo dedicato ad Antonio Labriola è discutibile anche che questo programma costitutivo fosse pienamente in linea con il socialismo marxista (http://www.worldsocialism.org/spgb/socialist-standard/2010s/2016/no-1338-february-2016/antonio-labriola-strict-marxist), ma per Bordiga fu più il principio di intransigenza che contava, ovvero rimanere fedele al programma del partito dal fine massimo che si poneva la sovversione del capitalismo e l’istituzione del socialismo, in opposizione al fine minimo di cambiare il capitalismo con le riforme.  E’ anche importante notare che già da qui si incominciava a sviluppare in Bordiga l’idea di Partito che non ha bisogno di una vera e propria direzione di individui, ma che il programma fosse così chiaro ed immutabile che sarebbe stato solo questione di seguirlo alla lettera. 
Da subito Bordiga si trovò a lottare, scrivendo su “L’Avanguardia”, contro la politica coloniale italiana e l’anticlericalismo massonico. Nell’ottobre del 1911 l’Italia infatti invase la Libia, parte dell’Impero Ottomano ormai in disfacimento. Bordiga si scagliò subito non solo contro la borghesia italiana che sosteneva il militarismo, ma anche sui presunti socialisti e revisionisti di destra e sindacalisti rivoluzionari come Arturo Labriola, (da non confondere con il marxista ortodosso di cui abbiamo scritto e accennato in precedenza Antonio Labriola) che seguendo tesi loriane (da Achille Loira, economista borghese italiano, si veda prefazione di Engels al secondo volume de Il Capitale) le quali vedevano nell’espansione coloniale un’opportunità per la causa socialista. Bordiga individuò da subito nel nazionalismo una ideologia capitalista che non poteva essere giustificata dal socialismo che per definizione è anti-patriottico. Non si allontanerà mai da questa idea anche quando affronterà faccia a faccia il socialismo nazionalista di Stalin.  
Bordiga insieme ad altri compagni intransigenti del napoletano si impegnò soprattutto dal 1911 al 1914, a smascherare elementi borghesi, massoni detti anche anticlericali borghesi e blocchisti, ovvero per una politica di coalizioni con gli altri partiti borghesi, che controllavano ancora la sezione di Napoli del PSI. Bordiga lottò contro questi revisionisti che in molti casi erano rientrarti ambiguamente nel PSI nonostante la loro espulsione del 1907. Bordiga scrisse in questo periodo molti articoli sulla situazione del Partito nel napoletano, chiedendo più volte l’intervento della Direzione del Partito a mettere fine a questa ambiguità. Bordiga faceva parte al contempo della frazione intransigente e della Federazione Italiana Giovanile Socialista (FIGS) come rappresentante campano. 
Nell’aprile del 1912 Bordiga fondò il Circolo “Carlo Marx” atto a fare attività di propaganda e di studio delle opere marxiane. Nel marzo del 1912 denunciava già l’atteggiamento di alcuni esponenti del gruppo parlamentare, come Bissolati, Cabrini e Bonomi per aver reso omaggio al Re d’Italia ferito in un attentato alla sua vita, chiedendone l’espulsione dal Partito, cosa che avvenne poi durante il congresso e che in virtù di questo episodio vide l’ascesa di Benito Mussolini tra le file del Partito. Al Congresso di Reggio Emilia la sezione di Portici nominò Bordiga loro rappresentante con le seguenti mozioni: 1. Estendere la tattica intransigente alle elezioni amministrative e 2. Escludere dal Partito i membri di associazioni politiche borghesi, quale la massoneria. 
Durante il Congresso della Federazione Giovanile di Bologna nel settembre del 1912 venne discussa “La questione della cultura e della gioventù socialità”. Mentre una parte dei congressisti (Angelo Tasca) riconoscevano al movimento giovanile un semplice scopo di preparazione e di cultura volendo che la Federazione dipendesse dal Partito e il giornale facesse divulgazione elementare, Bordiga propose, ed ebbe la maggioranza, che la Federazione Giovanile mantenesse un indirizzo autonomo e il giornale un carattere di battaglia contro la borghesia. Rispondendo a Gaetano Salvemini direttore dell’Unità, Bordiga osservava che se la nostra “Avanguardia” (nome della rivista sulla quale scriveva Bordiga) assumesse l’indirizzo di cultura, dopo quattro numeri gli operai non la leggerebbero più… il movimento socialista è movimento di preparazione di una parte degli individui alla necessaria trasformazione della società, ma è assurdo giungere alla preparazione con metodi scolastici, anzi occorre cercare nell’azione le fonti di tale preparazione educativa e continuava Bordiga La democrazia dice al popolo: sei sfruttato perché ignorante: studia, educati, liberati dal prete e diverrai libero. Il socialismo dice al proletariato: sei ignorante e vile perché sei sfruttato, sei sfruttato perché chini la testa al giogo: rivoltati, e sarai libero, e potrai allora diventare civile. In quanto per Bordiga Il socialismo era basato non tanto sulla cultura quanto sul sentimento di solidarietà proletaria.
Nel novembre del 1912 Bordiga scriveva “Il socialismo meridionale e le questioni morali” pubblicato sull’“Avanti”, qui egli descriveva l’arretratezza e l’inadeguatezza della borghesia meridionale dalla quale originava il problema morale. Puntualizzava che lo Stato essendo maneggiato dalla oligarchia capitalista del Nord non intendeva sviluppare capitalisticamente il Sud, in quanto lo sviluppo economico, agricolo e industriale del Mezzogiorno non potrebbe che nuocere agli attuali gruppi monopolistici della grandi industrie protette che hanno nel Mezzogiorno il mercato naturale di consumo. Questa inettitudine della classe dirigente del Sud e la conseguente corruzione della sue amministrazioni portava al malcontento sfruttato dai partiti locali, quasi sempre personali, senza alcun contenuto politico a base di clientele e di odi inveterati, in ottimi rapporti con il clero, ancora molto influente. Gli oppositori di questo degrado politico era rappresentato dai borghesi anticlericali, spesso massoni infiltrati anche nel PSI che puntavano sulla questione morale ovvero per un’amministrazione borghese onesta. Questi vendevano quindi un falso socialismo che per loro non era altro che il capitalismo borghese non corrotto ed efficiente. A questo Bordiga oppone il suo commento materialista, ladri od onesti i borghesi si equivalgono. Il PSI avrebbe dovuto essere ultraintransigente contro questi moralisti, perché il socialismo era altra cosa. L’analisi di Bordiga sulla questione morale di allora è stata ed è terribilmente attuale, nel senso che coglie a pieno quello che sarà la linea politica del PCI nel secondo dopoguerra, il partito moralista per antonomasia, che si batterà talvolta concretamente contro l’istitualizzazione della mafia, e dopo il crollo del PCI, la politica che è stata portata avanti da questo e da quel partito politico all’occorrenza.
La riscrittura dell’Opuscolo “Il soldo al soldato” secondo Michele Fatica fu affidata a Bordiga, e viene riportata nella raccolta delle sue opere. Questo opuscolo era stato discusso durante il congresso giovanile di Bologna. Qui Bordiga si scaglia contro la caserma come istituzione della democrazia borghese. La posizione del giovane Bordiga sulle elezioni era generalmente in linea con quella della fazione intransigente del PSI, ovvero a favore del suo utilizzo, ma contro ogni tipo di blocco con i partiti borghesi. La sfiducia dello strumento elettorale però si andrà maturando in Bordiga, con il succedersi delle sconfitte elettorali del PSI e l’eccessivo sforzo che questi ne riservava. Interessante è notare come in un articolo pubblicato sull’“Avanti” del gennaio del 1913, firmato a.b. intitolato “Forza e diritto”, presumibilmente, Bordiga citi come, i nostri maestri Marx, Engels, Lassalle, Antonio Labriola, e Bebel. Questo è interessante in particolare per la presenza di due socialdemocratici tedeschi come Ferdinand Lassalle, che marxista non era, e August Bebel tutt’altro che un intransigente di sinistra, ma più vicino a quello che poteva rappresentare un Turati in Italia. Questi due molto probabilmente scelti da Bordiga superficialmente perché padri fondatori del Partito Socialdemocratico tedesco. In più questo articolo potrebbe sfatare il mito che Bordiga fosse completamente indifferente al pensiero di Antonio Labriola.  
In merito all’organizzazione del Partito, argomento che segnerà più tardi, negli anni 20 e nel secondo dopoguerra uno dei contributi più originali quanto discussi, ovvero il centralismo organico, che Bordiga opponeva al centralismo democratico di Lenin, il giovane Bordiga presentava già nei suoi primi anni di vita politica, degli interessanti punti di partenza, ovvero la formazione naturale della coscienza di classe, la difesa del programma rivoluzionario, e l’antimilitarismo di classe. Bordiga affermava che il PSI non è un partito operaio né operaista, questi deve difendere il programma rivoluzionario… il partito socialista ha degenerato, il riformismo lo ha affogato… la scuola sindacalista ha giustamente reagito ma esagerando e deducendo l’inutilità del partito socialista formulando il dogma che il sindacato deve ignorare l’azione politica. Bisogna mostrare tutte le insidie del garibaldinismo che ritorna di moda.    
Ne “La Nostra missione”, articolo del febbraio del 1913, Bordiga ritorna sul ruolo del movimento giovanile, dove esplicitamente vede nel PSI l’avanguardia del proletariato nella lotta di classe. In questo articolo è interessante notare la citazione all’opera dell’anarchico russo Peter Kropotkin sul principio del mutuo aiuto. Qui Bordiga ribadisce l’indole altruista del proletariato e delinea una intuizione preziosa, ovvero che è pregiudizioso credere che la borghesia domini per mezzo dell’ignoranza: essa invece domina per mezzo della cultura, della sua cultura. L’educazione, borghese, diventa il freno morale.

lunedì 8 febbraio 2016

Stato Islamico: una creatura del capitalismo petrolifero

Il fondamentalismo islamico ha colpito nuovamente il cuore del mondo occidentale. Per la loro vicinanza e imprevedibilità questi eventi hanno lasciato un profondo senso di urgenza e insicurezza. I mezzi d’informazione di massa intanto buttano benzina sul fuoco gridando alla guerra tra culture, “guerra santa” ecc. I nazionalismi vecchio stile alla “Fratelli d’Italia” e “Lega Nord” in Italia; Front National della Le Pen in Francia, Partij voor de Vrijheid di Geert Wilders nei Paesi Bassi e, in chiave più moderna, moderata ed europeista, dei partiti maggiori (dei vari Renzi, Hollande, Cameron ecc.) vengono venduti come la risposta a questi attacchi. E allora si aumenta la presenza delle forze dell’ordine nelle strade, si approvano raid aerei. E nel caso dell’Italia, si firmano un paio di espulsioni di elementi “pericolosi”, anche se contro il giudizio della magistratura. Insomma, di tutto, basta che si ristabilisca la sicurezza. E ci si stringe tutti attorno alla bandiera, a prescindere dai problemi contrattuali, di disoccupazione e del caro vita perché in fondo non ci sono classi sociali di fronte al terrorismo. O ci sono?                   
Beh sì, a guardar bene le classi sociali ci sono anche in questo caso. Così come gli interessi delle grandi compagnie petrolifere in Medio Oriente e la politica coloniale degli ultimi 200 anni. Ma allora non è che rischiamo di saltare in aria, sempre per la solita ragione, che 75 anni fa vedeva i nostri nonni andare a morire al fronte? E un secolo fa i loro padri?
Sì, la ragione è sempre la stessa, il profitto. E la cosa che dovrebbe far imbestialire noi lavoratori è che il sistema del profitto, ovvero il capitalismo, ha una classe di pochissimi privilegiati che detengono il potere economico e politico e una classe più eterogenea di gente, (che è la stragrande maggioranza della popolazione mondiale) che deve ringraziare la fortuna, o qualche dio, per chi ci crede, se ha un lavoro retribuito. Ora, sì, c’è ancora la fortunata élite di lavoratori dei paesi economicamente avanzati che hanno più opulenza degli altri. Ma non facciamoci illusioni; solo un stolto sarebbe così ottuso da non essersi accorto della caduta del potere contrattuale sofferto da questa élite negli ultimi 45 anni.
Il fondamentalismo islamico odierno altro non è che una risposta indipendentista alla politica coloniale dei paesi occidentali nel mondo islamico. Già nel ‘300, l’elemento religioso era stato usato in quella che è l’odierna Siria per giustificare il rovesciamento dell’invasore Mongolo, Ghāzān Khān, miscredente. Di fondamentalismo, ma non solo, islamico fu ed è caratterizzata la partizione artificiosa dell’India Britannica in Pakistan mussulmano e India induista e buddhista, proprio da parte dei britannici. Questa partizione fu un processo molto tormentato e conflittuale iniziato formalmente nel 1947 che in pratica dura tutt’oggi. Vi furono interminabili guerre tra Pakistan e India per il possesso del Kashmir e del Bangladesh. Di punto in bianco intere popolazioni dovettero emigrare perché si trovarono dalla parte “sbagliata” del confine. Ed ecco che il gruppo pakistano fondamentalista islamico Jamaat-e-Islami divenne un ottimo esempio, di come, la legge coranica, Sharia, e il concetto di guerra santa, Jihād, siano stati (e sono) usati a fini indipendentistici.
Se da un lato i gruppi fondamentalisti pretendono di preservare gli usi e i costumi islamici e per far ciò devono combattere l’Occidente “cristiano” ed ebreo corrotto, oppure gli infedeli induisti, buddhisti o chi che sia; non si faccia l’errore di pensare che gli stessi islamici fondamentalisti siano immuni dal dio denaro. La loro non è una lotta contro il capitalismo, ma la politica coloniale capitalista fatta a loro danno. Il fatto che siamo qui a commentare tragici attacchi terroristici è proprio riconducibile direttamente al dio denaro.
Senza fare un giro troppo lungo. Si consideri come fosse diviso il Nord Africa e il Medio Oriente ai primi del Novecento. L’Impero Ottomano era ridotto ormai all’odierna Turchia, parte della Bulgaria meridionale, parte della Grecia e dei Balcani, la provincia di Beirut (Libano e Siria), il distretto di Zor (Siria), la provincia di Siria, il distretto di Gerusalemme, la provincia di Mosul (Iraq), la provincia di Bagdad (Iraq), la provincia di Basra (Iraq e Kuwait, Qatar, Arabia Saudita), la provincia di Hejaz (Arabia Saudita), il sultanato d’Egitto e lo Stato di Tripolitania (Libia). Questo colosso moribondo era sotto continue pressioni coloniali di vari paesi europei. E se l’Impero Ottomano era in completo disfacimento, l’Impero Persiano (oggi chiamato Iran) aveva perso da secoli ogni prestigio ed era sotto il protettorato di Russia e Gran Bretagna. La presenza Britannica si allargò quindi non solo in India (e Pakistan), ma ormai a diverse province perse dall’Impero Ottomano, quali Iraq, Kuwait, Oman, Palestina, Qatar, ed Egitto soprattutto dopo la fine della prima guerra mondiale. L’attività coloniale francese in Nord Africa non fu da meno, presente in Marocco, Algeria, e Tunisia. Senza citare la breve parentesi italiana e quindi britannica in Tripolitania. Aggiungiamo a tutto questo l’inizio del progetto Stato di Israele quando la Palestina era ancora sotto controllo britannico e diventa abbastanza evidente quanto fosse artificiosamente divisa e sfruttata la gente delle terre da dove oggi pullulano questi fanatismi. Unica azione contro tendenza in rifermento al dominio e all’influenza occidentale sulla regione mediorientale, fu la conquista da parte di Ibn Sa‛ud nel 1932 di quella che oggi è l’Arabia Saudita. Ibn Sa‛ud riuscì nel giro di 30 anni a unire un vastissimo territorio sotto il suo dominio. Per spiegarci, attorno agli anni ‘20 la Gran Bretagna si trovava a contrattare con Ibn Sa‛ud i confini di quello che diventerà poi l’Iraq.
A quell’epoca a nessuno sarebbe venuto in mente di pensare che tale divisione di terre fosse legata a una particolare religione, si trattava di puro e semplice imperialismo, ovvero colonizzazione di nuove terre per sfruttarne le risorse. Possiamo immaginare la gioia degli inglesi nello scoprire che nelle loro colonie e zone di influenza medio-orientali vi fosse il petrolio. In Persia il petrolio venne scoperto nel 1908 da parte di quella che oggi è la British Petroleum (BP), in Iraq nel 1925 da parte della Turkish Petroleum Company (TPC) controllata da Germania, Gran Bretagna e Turchia, e in Arabia Saudita nel 1938 da parte statunitense. Le cose dal punto di vista degli interessi economici non si potevano fare più interessanti. Eccezion fatta per l’Arabia Saudita, che avendo una dinastia forte e radici religiose (wahhabita) rigorose non ebbe grandi problemi a mantenere il controllo sulle sue tribù e quindi sui suoi giacimenti, per l’Iraq, l’Iran, e l’Egitto l’influenza (o sfruttamento) europea era ancora pesante. Tutti e tre questi paesi, per non menzionare la Siria, la Libia, e l’Algeria, hanno pensato a un certo punto d’iniziare a utilizzare le proprie risorse “in proprio”.
Nel 1928 viene fondata l’organizzazione dei Fratelli Musulmani in Egitto che ben presto divenne reazionaria fino a quando il regime di re Faruk nel 1949 assassinò il suo fondatore al-Banna. Sayyid Qutb, anch’egli egiziano, dopo l’assassinio di al-Banna, prendendo spunto dagli insegnamenti di Mawdudi, fondatore in Pakistan della Jamaat-e-Islami, scrisse dei testi basilari per i movimenti fondamentalisti a seguire, in quanto criticava i governi islamici filo-occidentali. Tra tutti in testa si possono immaginare l’Iran e l’Iraq dell’epoca. Altro elemento importante è il putsch di Nasser nel 1952, appoggiato inizialmente per il suo nazionalismo dalla Fratellanza Mussulmana, per poi rivolgervisi contro pochi anni dopo. A questo fa seguito la Guerra dei Sei Giorni del 1967, di espansione di Israele, che dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale, si mise chiaramente in testa di fondare una nazione israeliana ai danni di Egitto, Siria e Giordania. Lo smacco fu così grave da indurre Nasser alle dimissioni. La migrazione di massa di palestinesi e l’occupazione israeliana dei territori in Libano catalizzò la nascita della resistenza fondamentalista islamica degli Hezbollah (anni ‘80), che faceva uso di attacchi suicidi e atti di guerriglia.   
Il regime al contempo repressivo e filo-occidentale dello Scià di Persia venne destituito nel  1979 con la rivoluzione dell’Ayatollah Khomeini. Questo fu un momento molto importante perché Khomeini parlò di movimento pan-islamico, quindi giustificava la cacciata degli occidentali dal punto di vista religioso, mentre questo implicava in pratica prendere il controllo delle risorse nazionali. Questo modello verrà seguito in futuro da altri movimenti fondamentalisti tra i quali oggi lo Stato Islamico d’Iraq e Siria (ISIS).
Tornando alla prima metà del secolo scorso, gli interessi britannici nelle risorse petrolifere in Iraq furono preservati, con il solito governo fantoccio, fino all’inasprirsi delle condizioni causate dalla Seconda Guerra Mondiale, precipitando in un colpo di stato nel 1958. L’Iraq uscì man mano dalla sfera di influenza britannico-statunitense propendendo negli anni ‘70 più per quella sovietica. Intanto, negli anni settanta, l’Arabia Saudita ebbe una prova concreta del suo peso geopolitico con la crisi del 1973, accrescendo l’influenza dell’islam wahhabita sul mondo mussulmano. Negli anni settanta quindi i tre stati più grandi del Medio Oriente, Iran, Iraq e Arabia Saudita, avevano già mostrato all’Occidente di voler far valere la propria voce quando si parlava del loro petrolio.
E quindi, la Guerra degli 8 anni (1980-88) tra Iraq e Iran fu una guerra per il petrolio e per uno sbocco importante sul Golfo Persico. L’Iraq di Saddam venne appoggiato dagli Stati Uniti così come dall’Arabia Saudita, contro i persiani. Poco importa se Khomeini inneggiava al movimento pan-islamico. La dinastia saudita non considerava e considera i persiani come arabi e sicuramente non come wahabiti. La guerra non la vinse nessuno e vi furono centinaia di migliaia di morti, pochi dei quali petrolieri possiamo dire con certezza. Le cose però si misero male per Saddam quando ebbe la felice idea di rifarsi dei costi di guerra occupando il Kuwait. Le ragioni di questa invasione furono le stesse di prima: petrolio e uno sbocco importante sul Golfo Persico. A differenza che con l’Iran, dove a causa di Khomeini, gli interessi statunitensi erano compromessi, per il Kuwait gli Stati Uniti e alleati organizzarono la Guerra del Golfo (1991), alla quale fece seguito l’invasione anglo-statunitense del 2003. Quest’ultima giustificata dal fatto che il gruppo fondamentalista islamico Al-Qaeda aveva attaccato gli Stati Uniti con sanguinosi ed eclatanti attentati su suolo statunitense. Al-Qaeda era attiva già dalla guerra di liberazione dell’Afghanistan dai sovietici, con appoggio statunitense negli anni ‘80. Questo gruppo si era differenziato per l’uso degli attacchi terroristici di massa. A questi attacchi seguì l’invasione degli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq. Anche se per fare i pignoli Saddam e Al-Qaeda c’entravano davvero poco tra loro.     
L’eliminazione del regime di Saddam, che è ovviamente giustificabile dal punto di vista dei diritti umani e della morale borghese, ha però avuto l’effetto collaterale di lasciare un vuoto di potere in Iraq. A questo vuoto si è aggiunta la cosiddetta Primavera Araba che a voler di popolo ha eliminato diversi regimi, paradossalmente stabilizzatori, ovvero quello di Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia, quello di Hosni Mubarak in Egitto e quello di Muhammar Gheddafi in Libia. Questo ha determinato altrettanti vuoti di potere che i pan-islamici non si vogliono far scappare. In Siria le cose non sono andate così linearmente e la Primavera Siriana per eliminare il tiranno di turno Bashar al-Assad, si è trasformata in una feroce guerra civile. Ovviamente i fondamentalisti pan-islamici di tutto questo traballamento ai vertici hanno approfittato. Non è un caso che l’ISIS sia costituito da ufficiali e mercenari che servivano i regimi dei tiranni di Iraq, Tunisia, e Libia, ora destituiti.  
Paradossalmente le grandi potenze, ovvero Iran, Arabia Saudita e simili, Stati Uniti e alleati, e Israele hanno tutti interessi economici e quindi politici sugli esiti della lotta al potere che sta avvenendo in Siria e Iraq. L’Iran promotrice del pan-islamismo vede in un effettivo califfato islamico un vicino scomodo, molto meglio avere un Iraq fiacco. L’Arabia Saudita ha foraggiato l’ISIS perché potrebbe essere un vicino scomodo per Iran e Israele, a patto che non si allarghi troppo, s’intende. Infatti ora che gli attacchi estremisti diventano un problema di politica interna non ci pensa due volte a giustiziare i terroristi. A Israele, che è alla costante ricerca di terra per poter consolidare lo Stato, il caos creato dall’ISIS potrebbe giocare a favore a patto che le mire espansionistiche del califfato si limitino all’Iraq e alla Siria. Per Israele in fondo fondamentalisti palestinesi, libanesi o dell’ISIS son nemici a cui sanno rispondere a tono quando necessario. Per gli Stati Uniti, primo produttore di greggio al mondo, e per i suoi alleati, l’ISIS è un effetto collaterale dell’invasione dell’Iraq che sta diventando alquanto spiacevole, se si considerano gli investimenti nel ricreare un governo fantoccio in Iraq e gli attacchi imprevedibili di cellule impazzite nel vivo dell’Occidente.     
E quindi lo Stato Islamico altro non è che una creatura del capitalismo petrolifero. È un’espressione del potere che, come ogni fascismo o mafia che si rispetti, deve incutere timore e controllare i mezzi di produzione. La matrice culturale fa parte del gioco; così come i fascisti, i nazisti, gli stalinisti avevano bisogno della loro ideologia e della propaganda per radicalizzare i propri seguaci, anche questo cosiddetto Stato Islamico ha bisogno della sua dottrina del terrore. Ma sempre di soldi si tratta!
E allora, grave sarebbe l’errore dei lavoratori nel farsi confondere dal senso di urgenza completamente comprensibile quando la propria incolumità potrebbe essere in pericolo, e cadere nella xenofobia, nel nazionalismo. Noi lavoratori oggi più che mai dobbiamo cercare l’unità internazionale.
Per chi legge l’inglese due link di approfondimento su cosa sia lo “Stato Islamico” e il mondo islamico:
Fonte:
“Fondamentalismo islamico” di Luca Ozzano

domenica 7 febbraio 2016

La trasformazione dei valori nei prezzi in Marx e il problema delle crisi


Henryk Grossmann

La trasformazione dei valori nei prezzi in Marx e
il problema delle crisi
 

da Zeitschrift für Sozialforschung, 1 (1/2), 1932, pagg. 55-84.
Ringraziamenti a Rick Kuhn.
Transcrizione e versione html di Einde O’Callaghan per Marxists’ Internet Archive.



I. La realtà concreta come oggetto e obiettivo della conoscenza marxiana


Lo scopo di tutta la scienza sta nell’esplorazione e nella comprensione della totalità dei fenomeni concretamente dati, del loro collegamento e delle loro variazioni. La difficoltà di questo compito è sita nel fatto che i fenomeni non coincidono immediatamente con l'essenza delle cose. La ricerca dell’essenza costituisce quindi il prerequisito per la conoscenza del mondo fenomenico. Ma se Marx vuole conoscere, in opposizione all’economia volgare, “la natura nascosta” e “l’interdipendenza” della realtà economica (Marx, Il Capitale, III 2, pag. 352 [1]), questo non significa che i fenomeni concreti non gli interessino. Al contrario! Alla coscienza sono dati immediatamente solo i fenomeni, con il risultato (già pienamente metodologico) che si può giungere al loro “nocciolo” essenziale nascosto solo mediante un’analisi di tali fenomeni (cfr. Marx, Il Capitale, III 1, pagg. 17-22).

Ma i fenomeni concreti non sono importanti per Marx solo perché rappresentano il punto di partenza e il mezzo per la comprensione del “movimento reale”, ma anche perché questi stessi sono ciò che Marx in definitiva conoscerà e comprenderà nel loro contesto. Dunque egli non vuole in nessun modo, escludendo i fenomeni, limitarsi alla sola ricerca dell'essenza. Piuttosto, l’essenza conosciuta ha la funzione di renderci capaci di capire i fenomeni concreti. Quindi Marx si sforza proprio di trovare la “legge dei fenomeni” che domini “la legge dei loro cambiamenti” (Postfazione alla 2a edizione de “Il Capitale”). 

Incomprensibili e a prima vista assurdi sono, per Marx, solo i fenomeni per se stessi, sconnessi dalla “essenza nascosta” delle cose. Ma sarebbe un errore madornale della scienza economica se a questo punto la questione (cadendo nello sbaglio opposto a quello dell’economia volgare) restasse ferma all’analisi dell’“essenza nascosta” appena scoperta, senza trovare una via di ritorno ai fenomeni concreti, di cui comunque si discute la spiegazione, ossia senza ricostruire le molte mediazioni tra l’essenza e la forma fenomenica! Perciò anche Marx vede in questo cammino dall’astratto al concreto “il metodo scientifico ovviamente corretto”. Qui “le regole astratte conducono alla riproduzione del concreto secondo il modo di procedere del pensare” perché “il metodo di risalire dall’astratto al concreto è, solo lui, il modo del pensare per appropriarsi del concreto, per riprodurlo come un concreto dello spirito” (Introduzione alla Critica dell’Economia Politica, pag. XXXVI).

Marx fornisce qui un esempio pratico: non è sufficiente dire che nella produzione industriale il valore viene creato secondo la legge generale per cui “i valori delle merci sono determinati dal lavoro in esse contenuto”, poiché i processi empirici nella sfera della circolazione (p. e. l’influenza praticamente verificabile del capitale commerciale sui prezzi delle merci) mostrano “fenomeni che, senza un’analisi completa dei nessi intermedi, sembrano semplicemente presupporre una determinazione arbitraria dei prezzi”, cosicché nasce l’idea che “sia il processo di circolazione in quanto tale a determinare i prezzi delle merci, indipendentemente (entro certi limiti) dal processo produttivo”, ovvero dalle ore di lavoro necessarie alla produzione. Così provare il carattere illusorio di questa idea e stabilire la “connessione profonda” tra il fenomeno e “l’azione reale”, cosa “molto intricata e lavoro alquanto minuzioso”, “è un’opera della scienza che sa ricondurre il movimento visibile, ma solo apparente, al movimento reale interno” (Il Capitale, III 1, pag. 297), “proprio come il moto apparente dei corpi celesti viene ricondotto al loro moto reale ma impercettibile ai sensi” (Il Capitale, I 1, pag. 314).

Dunque “l’opera della scienza” d’importanza critica consiste nell’impegno a cercare “legami intermedi” che ci guidino dall’essenza ai fenomeni concreti, poiché senza questi legami intermedi la teoria, cioè l’ “essenza” delle cose, sarebbe contraria alla realtà concreta. Giustamente Marx ironizzava su quei “teorici” che si perdono in costruzioni irreali. Ma solo “il volgo ha quindi concluso che le verità teoriche sono astrazioni che contraddicono le condizioni reali” (Plusvalore, II 1, pag. 166).

Anche la struttura de “Il Capitale” di Marx, come ho già mostrato [2], corrisponde a questo principio metodologico marxiano e il “metodo delle approssimazioni” lì applicato ha trovato la sua espressione più pregnante nella costruzione degli schemi di riproduzione marxiani. Utilizzando numerose assunzioni semplificanti, viene in primo luogo effettuato il “viaggio” dal concreto all’astratto. Ciò è distinto dal mondo fenomenico, dalle forme parziali concrete, dove il plusvalore entra nella sfera dalla circolazione (utili d’impresa, interessi, profitti commerciali ecc.) e tutta l’analisi dei libri I e III de “Il Capitale” si concentra sul valore e sul plusvalore complessivi, sulla loro creazione e variazione nel corso dei processi di produzione e di accumulazione. Qui “la questione connessa al processo di circolazione” (“Il Capitale”, I 1, pag. 600) viene eliminata. L’oggetto dell’analisi del I e del III libro de “Il Capitale” è esplorare la creazione di plusvalore come essenza generale del processo economico e, successivamente (ciò forma, come ha enfatizzato Marx, precisamente lo scopo e il contenuto del III libro), la connessione interna tra l’essenza scoperta e le sue manifestazioni: stabilire le forme empiricamente date di plusvalore ossia “rintracciare e mostrare le forme concrete che emergono dal processo di movimento del capitale che abbiamo finora considerato nella sua totalità. Nel loro movimento effettivo i capitali si scontrano con tali forme concrete” (“Il Capitale”, III 1, pag. 1).

Qui, nel terzo libro, le assunzioni semplificanti prima effettuate (p. e. la vendita delle merci al loro valore, l’eliminazione della sfera della circolazione e della concorrenza, la trattazione del plusvalore nella sua globalità e l’esclusione delle parti in cui esso si suddivide ecc.) vengono abbandonate e, di conseguenza, in questo secondo livello del metodo approssimato sono gradualmente presi in considerazione i fattori intermedi, precedentemente ignorati, e vengono trattate le forme concrete di profitto nel modo in cui esse si rendono visibili nella realtà empirica. Solo in questo modo si chiude il cerchio dell’analisi di Marx e si verifica che la teoria del valore lavoro non è uno schema irrealistico, ma piuttosto una “legge fenomenica”, ossia forma la base che ci permette di spiegare il mondo reale dei fenomeni. Questa idea è formulata con chiarezza inequivocabile quando Marx dice: “Lo abbiamo dovuto fare nei libri I e II solo con i valori delle merci”…”Ora”, ossia nel libro III, “il prezzo di produzione emerge come una forma di valore modificata” (“Il Capitale”, III 1, pag. 142). E ancora:
“Gli aspetti del capitale, come noi li svolgiamo nel presente (terzo) libro, si avvicinano quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione” (“Il Capitale”, III 1, pagg. 33-34).

sabato 25 aprile 2015

Dove ci guidano i leader

Traduciamo questo interessante articolo dei compagni del “Socialist Party of Great Britain” rivolto criticamente a uno dei vari gruppi britannici della cosiddetta “estrema sinistra”, poiché le considerazioni dell’autore si applicano in maniera abbastanza puntuale anche a quello che accade nel nostro paese per ciò che concerne la galassia dei partitini leninisti, trozkisti, stalinisti e maoisti: da “Lotta Comunista” al “Partito Comunista dei Lavoratori”, da “FalceMartello” fino al “Partito Comunista - Sinistra Popolare” e al “Bolscevico”. Con in più l’aggravante che in certi casi al discutibile metodo di Lenin se ne è sostituito da noi uno ancora peggiore: il cosiddetto “centralismo dialettico”, dove non vi sono più né congressi né votazioni, ma tutto avviene per pura cooptazione da parte della dirigenza. Direttamente la prassi di una setta esoterica o religiosa...
 
Piuttosto noto nel Regno Unito per le sue imprese, per i suoi banchetti in strada e per il suo attivismo studentesco, il Socialist Worker Party (SWP, https://www.swp.org.uk/) britannico soffrì un paio di anni fa di un notevole arretramento che condusse a un vero e proprio esodo dei suoi militanti. Uno di questi era Ian Birchall, biografo del fondatore del gruppo Tony Cliff e già componente della dirigenza del partito. Era stato membro dell’SWP e del suo gruppo predecessore, l’International Socialism (IS), per oltre cinquant’anni. Lo scorso dicembre ha pubblicato nel suo blog alcune riflessioni [1] su cosa è andato storto nel partito.
Quando venne formato negli anni ’50 come gruppo trotzkista che riconosceva la natura capitalista della cosiddetta URSS (cosa che noi ben sapevamo da parecchio tempo...) l’IS era organizzato allo stesso modo di molti altri gruppi di sinistra del Regno Unito: i suoi membri erano tutti affiliati al Partito Laburista e si definivano “laburisti di sinistra”. Poi negli anni ’60 le cose iniziarono a cambiare: uscirono dal Partito Laburista e nel 1968 Cliff decise che era il momento di riorganizzare il gruppo secondo linee guida leniniste più rigorose. Era stato lo sciopero generale in Francia di qualche mese prima a spingerlo in questa direzione. Tipicamente, da buon trotzkista, Cliff attribuiva l’impossibilità di arrivare alla rivoluzione socialista all’assenza di un partito rivoluzionario che guidasse i lavoratori in sciopero (non che la rivoluzione socialista fosse il reale obiettivo dello sciopero, tuttavia esso era effettivamente un successo da un punto di vista sindacale). Concluse quindi che ciò che i “rivoluzionari” dovevano fare alla luce di questo evento era di organizzarsi apertamente secondo le linee guida del partito bolscevico di Lenin, che, per lui e per la leggenda trotzkista, aveva condotto a una rivoluzione socialista vittoriosa (benché questa fosse successivamente degenerata in un brutale capitalismo di stato...).
Lenin aveva esposto le sue idee su come doveva essere organizzato un partito rivoluzionario nel noto opuscolo del 1903 intitolato “Che fare?”, dove proponeva un partito di rivoluzionari professionisti a tempo pieno che dovevano cercare di guidare i lavoratori e i contadini formulando parole d’ordine populiste che riflettessero il livello di comprensione che “le masse” erano considerate in grado di raggiungere. Ciò poteva avere un senso come strategia per rovesciare un regime retrogrado e autocratico quale lo zarismo. Come accadde, il regime zarista collassò per conto suo sotto la pressione della Prima Guerra Mondiale, ma la forma organizzativa di Lenin contribuì non poco alla presa del potere politico da parte dei bolscevichi dopo il crollo dello zarismo. Tale successo spinse Lenin a proclamare che quello bolscevico era l’unico modo in cui i rivoluzionari si dovevano organizzare, anche nei paesi capitalisti sviluppati là dove esisteva una stabile democrazia politica.
Così nel 1968 i membri dell’IS cambiarono nome sui loro documenti ufficiali da “lavoratori laburisti” a “lavoratori socialisti” e, più importante, abbandonarono la loro precedente struttura organizzativa dove la linea politica era decisa da una congresso di delegati di sezione che votavano mozioni proposte dalle sezioni e dove i membri del comitato esecutivo erano eletti individualmente. Tutto questo fu messo da parte e venne introdotto il sistema della “lista bloccata” che aveva usato il partito bolscevico e che era stato ereditato dal PCUS in Russia (sì, anche in questo il leninismo condusse allo stalinismo...). Con tale sistema la dirigenza (l’“ufficio politico”,il  “comitato centrale” o come vogliamo chiamarla) viene eletta in blocco al congresso di partito. I delegati non votano per i singoli candidati, ma per la lista (o “blocco”) che contiene tanti nomi quanti sono i posti vacanti. In teoria ci potrebbero essere più liste, ma in pratica non ce ne sono (e non ce ne sono mai state). Nell’SWP (come nell’URSS) ce n’era una sola, quella proposta dalla dirigenza uscente. Piuttosto che proporre una lista rivale, gli oppositori della dirigenza preferivano abbandonare il partito e formare un altro gruppo organizzato nello stesso modo (questo spiega la proliferazione di gruppi trotzkisti...). Si può vedere facilmente come sia una ricetta per la nascita di una dirigenza che si auto-replica. Cosa che infatti è puntualmente accaduta, come nota Birchall:
“Gli eventi recenti hanno mostrato i limiti del sistema della ‘lista bloccata’. È diventata un metodo con cui il Comitato Centrale può riproporsi per la rielezione all’infinito, cooptando singole persone designate quando serve.”
Ma anche nell’SWP vi è un’altra conseguenza:
“Inoltre è emersa pure l’idea della carriera: compagni, in generale ex-studenti, diventano funzionari a tempo pieno e, se hanno successo, entrano nell’apparato e divengono membri del Comitato Centrale. Così abbiamo un Comitato Centrale quasi interamente composto da persone che hanno speso la gran parte della loro carriera politica come funzionari a tempo pieno e hanno quindi una limitatissima esperienza lavorativa e sindacale.”Il sistema delle liste bloccate era applicato persino per eleggere i delegati di sezione al congresso di partito:
“Negli anni ’80, quando esistevano direttivi di sezione vigorosi, tali direttivi stabilivano le liste dei delegati al congresso di partito. Se ovviamente in teoria era possibile per i membri proporre liste alternative, questo era malvisto e, in pratica, era alquanto raro far porre all’ordine del giorno del congresso di sezione il punto in cui si raccoglievano le candidature per divenire delegati al congresso di partito. In pratica andava bene quello che faceva il direttivo: era ciò che accadeva normalmente.” Così l’SWP finì per essere un’organizzazione verticista gestita da un gruppetto di dirigenti che si auto-replicava.
Forse sorprende che Birchall non concluda che questo fosse il risultato inevitabile del sistema delle “liste bloccate”, un punto chiave nel concetto di partito leninista di avanguardia. Egli pensa ancora a un partito di rivoluzionari di professione organizzato in modo leninista. Non ce l’ha con la teoria, ma con come è stata applicata nell’SWP: burocraticamente invece che democraticamente. Però per lui “democrazia” non significa una procedura decisionale, ma soltanto un mezzo per informare la dirigenza in modo tale che possa formulare la politica migliore da perseguire e le parole d’ordine più adeguate da proporre ai lavoratori affinché le seguano:
“...una dirigenza rivoluzionaria necessita di sapere cosa accade nella classe lavoratrice. Non lo può fare leggendo il ‘Financial Times’; deve ascoltare i compagni radicati nella varie sezioni della classe che possono riportare quello che succede nella base. Come diceva Cliff: ‘...devono imparare dai loro compagni lavoratori quanto più possibile e persino in misura maggiore di quanto devono insegnare loro. Ripetendomi: il compito è dirigere e per dirigere dovete comprendere in pieno quelli che state dirigendo’.” Questa non è democrazia in nessun senso compiuto. Si sta ancora dicendo che la classe dei salariati e degli stipendiati è incapace di liberarsi da sé e che quindi necessita di un’avanguardia che si è autonominata. Si rifiuta ancora l’idea che il socialismo, in quanto società completamente democratica, possa esser stabilito solo democraticamente, sia nel senso di esser quello che vuole la maggioranza, sia nel senso di utilizzare metodi democratici. Per arrivare al socialismo la classe dei salariati e degli stipendiati necessita certamente di organizzarsi per conquistare il potere politico, per esempio in un partito politico, ma in un partito democratico, e non di seguire un partito di avanguardia o altri possibili capi.
Però c’è una cosa che Birchall sembra aver capito dopo più di cinquant’anni vissuti da trozkista-leninista:
“La cosa importante in questo momento è la battaglia delle idee, come disse William Morris: ‘il nostro compito particolare sarebbe quello di creare dei Socialisti’.” È una citazione dallo “Statement of Principles of the Hammersmith Socialist Society” stilato nel 1890. Ed è ciò che andiamo dicendo noi del “Socialist Party of Great Britain” da più di cento anni.

ADAM BUICK

tratto da “Socialist Standard”  pp. 16 e 17 , n. 1326, vol. 111, febbraio 2015. Tradotto in italiano il 12 aprile 2015.

NOTE
[1] http://grimanddim.org/political-writings/2014-so-sad/


K. Marx o V. I. Lenin? Il primo nel 1864 scrisse che “l'emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi”, mentre il secondo nel 1903, con l’opuscolo “Che fare?”, inventò il partito bolscevico di avanguardia: costituito da sedicenti “rivoluzionari di professione” (in genere studenti o intellettuali stipendiati con le quote dei lavoratori) sarà il germe di tutta la futura nomenklatura sovietica, rapace, repressiva e autoritaria. Il marxismo-leninismo non esiste: è una contraddizione in termini!

sabato 27 settembre 2014

Il capitale nel XXI secolo

Recensione del saggio “Capital in the Twenty-First Century” di Thomas Piketty (Harvard University Press, 700 pagine, 2014)

Il capitalismo è basato sul possesso e il controllo dei mezzi di produzione della ricchezza da parte di una minoranza. Ciò può prendere varie forme, ma, storicamente, la più usuale (che potremmo chiamare la forma classica) si è realizzata mediante titoli di proprietà privata conferiti a singoli individui e fatti osservare dai tribunali e, in generale, dallo stato. Un’altra forma è consistita nel controllo dello stato da parte della minoranza, laddove il possesso della gran parte dei mezzi di produzione era riservata allo stato, come nella vecchia URSS.
 
Dove il possesso avviene attraverso diritti di proprietà privata, il possesso da parte della minoranza può esser esplicitato a partire dal grado di concentrazione di tali titoli di proprietà. Ciò può essere ottenuto analizzando le tasse di successione, i testamenti e perfino i sondaggi domestici. I risultati di tutti i paesi mostrano una distribuzione molto diseguale della ricchezza tra la popolazione. Il possesso dei mezzi di produzione della ricchezza da parte della minoranza si riflette anche sulla diseguale distribuzione del reddito, dovuta all’enorme reddito da proprietà (e non da lavoro) dei maggiori possessori immobiliari.
 
In questo libro molto discusso, l’economista francese Thomas Piketty ha messo insieme i dati sulla distribuzione della ricchezza e del reddito nell’arco di due secoli, principalmente per la Francia, la Gran Bretagna e gli USA, ma anche per altri paesi europei e per alcuni in Asia e in America del Sud. L’autore avanza una legge economica: la distribuzione della ricchezza tende a divenire tanto più diseguale, ovvero il 10% più ricco della popolazione va a possedere in proporzione sempre di più, quanto maggiore è la differenza tra ciò che egli chiama il “tasso di remunerazione del capitale” (r) e il tasso di crescita (g).

Che cos’è il capitale (e il capitalismo)?

Benché Piketty esponga due “leggi fondamentali del capitalismo”, non definisce mai cosa intenda con questo termine. Però definisce cosa intende per “capitale”:
 
«In questo libro, il capitale è definito come la somma di tutti i cespiti (asset in inglese) non umani che possono essere posseduti e scambiati su qualche mercato. Il capitale comprende tutte le forme di proprietà immobiliare (inclusa quella residenziale) come pure il capitale finanziario e quello professionale (impianti, infrastrutture, macchinari, brevetti e così via) usati dalle imprese e dalle agenzie governative.» (pag. 46).
 
Questa non è né la definizione dell’economia convenzionale, né quella dell’economia marxiana, poiché include sia la terra che le case occupate dai rispettivi proprietari. Così il suo “tasso di remunerazione del capitale” non coincide con il tasso di profitto, che è il rapporto tra il profitto ottenuto e la ricchezza investita nella produzione in vista di questo profitto. Lo stesso Piketty lo riconosce:
 
«… il tasso di remunerazione del capitale misura la resa del capitale per ogni singolo anno, senza considerarne la forma legale (profitti, rendite, dividendi, interessi, royalty, guadagni da capitale ecc.), espressa come percentuale del valore del capitale investito. È quindi un concetto più vasto del “tasso di profitto” e molto più vasto del “tasso d’interesse”, benché li includa entrambi.» (pag. 52).
 
È in realtà minore del tasso di profitto il quale di norma è ben più alto del 4-6% che Piketty calcola come l’intervallo tipico del suo tasso di remunerazione.
    
C’è un’altra particolarità del suo “tasso di remunerazione del capitale”: in alcuni dei suoi grafici egli lo applica anche ai periodi precapitalistici, cosicché questa grandezza finisce per indicare ogni remunerazione, in qualsiasi forma, che i detentori di proprietà ottengono in virtù del possesso di tali proprietà, comprese le corvè dei signori feudali o le attività servili dei padroni di schiavi nella Grecia e nella Roma antiche, e non solo i redditi finanziari derivanti dalla ricchezza commerciabile come avviene nel capitalismo.
 
Questo significa che l’affermazione che egli fa a un certo punto, ovvero che r > g sia la «contraddizione strutturale fondamentale del capitalismo» (pag. 572) non può esser sostenuta. Non è neppure una contraddizione, ma sarebbe piuttosto un tipo di misura dello sfruttamento dei produttori in tutte le società basate sulla proprietà privata, sia che tale proprietà o il reddito a essa connessi siano commerciabili o meno.
    
Piketty non fornisce una spiegazione su come e perché ci dovrebbe essere una “remunerazione” del capitale, ma semplicemente considera la sua esistenza come ovvia. Non c’è la comprensione che questa remunerazione emerge solo in società fondate sulla proprietà privata e che equivale a una tassa estorta ai produttori (nel capitalismo, ai lavoratori salariati e stipendiati) da parte di coloro che monopolizzano i mezzi di produzione.
    
La stessa cosa accade con il termine “crescita”, che egli definisce come l’aumento annuo del reddito nazionale più l’aumento della popolazione. Semplicemente accetta che ciò avvenga dato che la produttività e la popolazione aumentano. Non c’è la comprensione che ciò che guida il sistema capitalistico è l’imperativo economico, imposto dalla concorrenza tra gli individui e le aziende che investono nella produzione, di massimizzare i loro profitti e di accumularli come capitale sempre crescente. Ciò nonostante la sua critica al capitalismo, per come lo intende, è assai graffiante.

Gradi di disuguaglianza

Il 10° capitolo che tratta della “Disuguaglianza del Possesso di Capitale” contiene alcune tabelle che mostrano come in Francia il 10% più ricco possieda attualmente poco meno del 60% di tutta la ricchezza e l’1% più ricco quasi il 25% di essa. Le cifre per la Gran Bretagna sono 70% e  29%; per gli USA 70% e 32% e per la Svezia (che si dice sia il paese più egualitario al mondo) 59% e 20%.
 
Le tabelle mostrano anche, in forma di grafici, l’evoluzione della disuguaglianza del possesso della ricchezza nel corso di duecento anni, dal 1810 al 2010. Il grado più alto di disuguaglianza si raggiunse nel 1910 quando il 10% più ricco in Francia possedeva l’89% e l’1% più ricco possedeva il 60%; in Gran Bretagna erano il 90% e il 60%. A quei tempi negli USA c’era meno diseguaglianza che in Europa, con l’80% e il 45%.
 
Le tabelle confermano l’idea socialista che la base della società attuale sia il possesso dei mezzi di produzione della ricchezza da parte di una minoranza. Ma mostrano anche che il grado di disuguaglianza è a volte diminuito e a volte aumentato durante questo periodo di duecento anni. Questo fatto necessita di spiegazioni. Piketty ne fornisce due.
 
La prima è una tendenza secolare a lungo termine, che l’autore chiama “emergenza della classe media patrimoniale”, mediante cui egli reputa che la quota della ricchezza totale posseduta dal 40% mediamente ricco (ossia da coloro che sono situati a metà tra il 10% più ricco e il 50% più povero) sia cresciuta a partire dal 1910. Questa categoria statistica è andata ad acquisire abbastanza ricchezza da possedere, nel complesso, tra un quarto e un terzo della ricchezza totale. Ciò ha prodotto il risultato statistico di ridurre la quota relativa del 10% più ricco, ma non è stato a loro discapito, non ha influenzato e non ha ridotto la quantità di ricchezza del gruppo più abbiente, la cui ricchezza ha continuato a crescere in termini assoluti.
 
Si dovrebbe notare (ma Piketty non lo fa) che una larga parte della ricchezza di questo 40% intermedio ha la forma delle abitazioni in cui essi vivono e che hanno pagato, ma che non sono capitale nel senso di un cespite che effettivamente produca un reddito. Questo significa che le cifre delle tabelle sottostimano il grado di concentrazione dell’insieme dei cespiti che effettivamente producono un reddito da proprietà.
 
Piketty nota che questo spostamento non ha influenzato la frazione della «metà più povera della popolazione, la cui quota di ricchezza totale è sempre stata minuscola (in genere intorno al 5%), perfino in Svezia (dove non ha mai superato il 10%).» (pag. 347).

L’eccezione e non la regola

La seconda spiegazione che Piketty offre sul perché la quota del 10% più ricco sia scesa nel periodo 1920-1970 sviluppa la sua teoria che maggiore è la distanza tra r e g e più forte è la tendenza verso una elevata disuguaglianza. La sua spiegazione è che in questo periodo il tasso di remunerazione è stato ridotto dalla distruzione di ricchezza avvenuta durante le due guerre mondiali e dalla svalutazione, mediante inflazione, del capitale investito in buoni del tesoro governativi. Contemporaneamente il tasso di crescita crebbe per via dei lavori di ricostruzione. Il risultato fu una riduzione della disuguaglianza aldilà di quella causata dall’aumento della quota del 40% mediamente ricco.
 
Questa spiegazione rende questo periodo, quando la porzione di reddito da capitale nel reddito nazionale e la quota del 10% più abbiente nella ricchezza nazionale diminuirono entrambe (in altre parole, quando i più ricchi furono leggermente “spremuti” ma non tanto da arrecar loro danno), un’eccezione al normale funzionamento del capitalismo.
 
La tendenza normale o “naturale”, come la chiama lui, è, per Piketty, che i ricchi diventino in proporzione più ricchi. In effetti egli sostiene che il tasso di disuguaglianza tenderà ad aumentare nel corso del 21° secolo sulla base del fatto che la crescita economica sarà probabilmente più lenta, mentre il tasso di remunerazione presumibilmente rimarrà costante, cosicché il divario tra i due si amplierà. L’autore vede questo come un pericolo per la democrazia e per le garanzie dei lavoratori (che lui chiama “stato sociale”). Come un riformista socialdemocratico di vecchio stampo (Piketty è infatti un sostenitore del cosiddetto “Partito Socialista Francese”) vuole fermare e invertire questa tendenza e probabilmente ha scritto questo libro per costruire un sostegno alle misure finalizzate a ottenere questo obiettivo.
 
Il guaio, dal suo punto di vista, è che la sua teoria, se valida, fornisce un potente argomento contro le possibilità di riuscita di questa campagna riformista. Significa che i riformisti in questo campo si sono dati il compito non solo di ridurre la disuguaglianza nel possesso della ricchezza, ma anche di vincere le forze economiche che spingono nella direzione opposta.
 
Che il capitalismo fondato sulla proprietà privata legale abbia la tendenza a far sì che i ricchi diventino sempre più ricchi in termini assoluti, è una conseguenza dell’accumulazione del capitale (nel senso che la ricchezza è usata per produrre altra ricchezza in vista del profitto). Dove ci sono diritti di proprietà privata sui mezzi di produzione, il reddito che questi mezzi “producono” quando sono usati come capitale va ai possessori e la parte che è reinvestita (accumulata) si aggiunge alla loro ricchezza, ossia questi possessori diventano più ricchi. Questa è una tendenza che i riformisti troveranno a lottare contro di loro, a prescindere dal fatto che Piketty abbia o meno ragione circa l’esistenza di un’altra tendenza secondo cui i ricchi diventano più ricchi relativamente al resto della popolazione.
 
Le misure che l’autore propone nella Parte IV per impedire ai ricchi di divenire più ricchi sono incredibilmente deboli: tasse più alte sui redditi elevati (sui “superstipendi” dei “superdirigenti” e anche sui redditi da investimento dei ricchi) e una tassa patrimoniale. Riconosce che probabilmente nessun paese adotterà queste misure per paura, nel contesto di un capitalismo globalizzato, di venir tagliato fuori dagli investimenti e così propone una “tassa patrimoniale globale”. Che è ancora più improbabile.
 
Ad ogni modo, non è una distribuzione meno diseguale della ricchezza e dei redditi che aiuterà a risolvere i problemi che la classe dei salariati e degli stipendiati (e di quelli a loro carico) affronta sotto il capitalismo. Si tratterà piuttosto di espropriare la minoranza che monopolizza i mezzi di produzione e di far sì che questi vengano gestiti in comune affinché possano essere usati per ottenere quello di cui la gente ha bisogno e non merci in vendita in vista di un profitto per i possessori di tali mezzi di produzione, come avviene oggi.

ADAM BUICK
 
tratto da “Socialist Standard”  pp. 16-17 , n. 1321, vol. 110, Settembre 2014.


 

martedì 26 agosto 2014

Cosa c'è di male nell'usare il parlamento?

Il Movimento Socialista Mondiale (MSM) v’invita a leggere la traduzione italiana dell’opuscolo redatto dal Socialist Party of Great Britain (SPGB) e intitolato ”What’s wrong with using the Parliament?”. La questione dell’utilizzo del Parlamento è cruciale per il nostro movimento in quanto, non solo ci distingue dagli altri movimenti marxisti, ma è un nostro principio cardine che ha suscitato, suscita e susciterà implacabili discussioni. A causa, ma noi diremo grazie, a questo principio, diversi marxisti e anarchici, anche se vicini alle posizioni antileniniste del MSM, declinano la loro adesione al nostro movimento poiché sono dell’idea che il Parlamento resti sempre uno strumento di dominazione borghese non utilizzabile per la causa socialista. La traduzione che presentiamo qui si pone proprio lo scopo di controbattere questa, come anche altre critiche rivolteci.
In più la frazione Italiana del MSM coglie quest’occasione per approfondire alcuni punti non (o poco) trattati nell’opuscolo in inglese. Abbiamo a questo proposito condotto una piccola intervista ad Adam Buick, co-autore del lavoro originale, della quale riportiamo la traduzione. Si consiglia comunque la lettura della traduzione dell’intero opuscolo prima di quella dell’approfondimento che riportiamo qui sotto.


Approfondimento

Redazione: Cosa ne pensi di questi movimenti emergenti che usano internet per diffondere e praticare la democrazia diretta? Sono tutti, in un modo o nell’altro, riformisti. Ad ogni modo l’uso di internet può essere uno strumento efficace per l’organizzazione della futura società socialista. Pensi che questo tipo di democrazia diretta possa scavalcare l’attuale sistema politico basato sulle elezioni? 
 
Adam: Sono certo che alcune forme di democrazia diretta per via elettronica avranno il loro spazio nella struttura democratica della futura società socialista, ma non penso che la democrazia diretta sia il miglior modo di prendere le decisioni. Questi strumenti vanno bene per decisioni su questioni di principio che richiedono un sì o un no come risposta, ma molte questioni sono molto più complesse con vari tipi di alternative o soluzioni di compromesso. Ecco perché una democrazia per delega, dove c’è un Consiglio o un Comitato eletto che prende le decisioni, è più appropriata nei casi complessi che saranno, a parer mio, la maggior parte delle situazioni. Certo è che coloro i quali verranno eletti nei Consigli o nei Comitati dovranno rendere conto ai loro elettori e saranno soggetti ad ogni tipo di controllo e di verifica.
 
Redazione: Nel leggere quest’articolo un lettore potrebbe pensare che i movimenti leninisti, così come alcuni di quelli anarchici, agirebbero contro una rivoluzione socialista una volta che questa si presenti, essendo questi movimenti così occupati a farsi la guerra tra loro. È questo ciò che s’intendeva nell’articolo? Se sì, dovrebbe essere questa la motivazione principale per abbandonare tali movimenti e unirsi al nostro?   
 
Adam: Non sono sicuro che quando il movimento socialista prenderà forma come movimento di massa ci saranno molti leninisti o anarchici in giro. Penserei invece che molti di loro faranno parte di un movimento più grande, forse discutendo le loro posizioni assieme a tutti gli altri.
 
Redazione: È abbastanza chiaro dall’opuscolo che senza la maggioranza della gente che voti per l’autentico partito socialista attraverso mezzi democratici, il socialismo non potrà essere instaurato. Tuttavia il capitalismo è nazionalista e promuove le nazioni (come entità). Cosa succederebbe quindi se la maggioranza si raggiungesse solo in una o in poche nazioni? Come potrebbe prendere tempo il partito socialista senza cadere della trappola del riformismo? 
 
Adam: Questa domanda è stata fatta molte altre volte e una risposta si può trovare nel nostro vecchio opuscolo “la domanda del giorno”:

(http://www.worldsocialism.org/spgb/pamphlets/questions-day#soc_less_dev):

“Ai socialisti viene spesso chiesto di un altro aspetto dello sviluppo diseguale. Questo si rifà alla possibilità che un movimento socialista possa essere più sviluppato in un paese che in un altro e in grado di poter prendere il controllo del sistema di governo prima che lo siano analoghi movimenti socialisti in altre parti del mondo.
Tralasciando per il momento la questione se tale situazione sia realistica o meno, possiamo già dire che non presenta problemi quando è vista nella cornice del carattere mondiale del movimento socialista. Giacché i governi capitalisti sono organizzati su base territoriale, ogni organizzazione socialista ha il compito di guadagnare democraticamente il controllo nel paese dove opera. Questo però avviene meramente per convenienza organizzativa: c’è un solo movimento socialista, del quale le diverse organizzazioni socialiste sono parti integranti. Quando il movimento socialista crescerà ulteriormente, i suoi attivisti saranno completamente coordinati dall’organizzazione mondiale. Se si considera la situazione in cui i socialisti organizzati di una sola parte del mondo siano nella posizione di prendere il controllo del sistema di potere governativo, la decisione sulle azioni da compiere sarà presa unanimemente dal movimento socialista mondiale alla luce di tutte le circostanze del caso.

Rimane il caso se, in effetti, ci saranno differenze materiali nel ritmo di crescita delle varie sezioni del movimento socialista. Al momento, nei paesi capitalisti avanzati, la vasta maggioranza, poiché non è socialista, condivide alcune idee base su come la società può e dovrebbe essere governata. Tale massa accetta che i beni siano prodotti per la loro vendita al fine di accumulare profitto, che alcuni debbano lavorare per uno stipendio mentre altri debbano essere i padroni; che ci siano forze armate e confini; che non si possa fare a meno dei soldi e della compravendita. Queste idee sono condivise dalla gente in tutto il mondo e su questo si basa la stabilità del capitalismo nella nostra epoca.

Engels sottolineò che un periodo rivoluzionario esiste quando la gente comincia a rendersi conto che quello che pensava fosse impossibile, può in effetti essere realizzato. Quando la gente capirà che è possibile avere un mondo senza confini, senza salari e profitti, senza padroni e forze armate, allora la rivoluzione socialista non sarà molto lontana. Ma questo progresso nella conoscenza politica sarà raggiunto dalle stesse persone che ora pensano che il capitalismo sia l’unico sistema possibile. Poiché i lavoratori di tutto il mondo vivono in condizioni simili e, grazie anche ai moderni sistemi di comunicazione, quando questi incominceranno a vedere oltre il capitalismo, questo avverrà ovunque. Non c’è ragione alcuna di pensare che solo i lavoratori di un paese vedano questo, mentre quelli degli altri paesi no.
L’idea vera e propria di socialismo, ossia di una nuova società, è chiaramente e inequivocabilmente un rifiuto di tutti i nazionalismi. Quelli che diventeranno socialisti si renderanno conto di questo e anche dell’importanza di unirsi ai lavoratori di tutti i paesi. L’idea socialista è tale che non si può diffondere in modo non uniforme.
Quindi i partiti socialisti saranno nella posizione di prendere il controllo politico nei paesi industrialmente avanzati in intervalli di tempo piuttosto ravvicinati. È concepibile che in alcuni paesi meno sviluppati economicamente, dove la classe lavoratrice è meno numerosa, i pochi capitalisti privilegiati possano essere in grado di conservare la loro posizione di classe un po’ più a lungo. Ma non appena i lavoratori avranno vinto nei paesi avanzati, daranno tutto l’aiuto possibile ai loro compagni negli altri paesi.”

 

Per concludere, cogliamo l’occasione per ringraziare Adam Buick e per sottolineare l’importanza della divulgazione delle idee socialiste in tutte le lingue, che non deve conoscere confini o barriere di sorta.

Lavoratori, disoccupati, studenti e pensionati di tutto il mondo, unitevi! Un mondo diverso e migliore è possibile, incominciate a immaginarlo!