domenica 19 dicembre 2010

Marx e la filosofia

In luglio Radio BBC 4 annunciò il risultato del suo sondaggio tra i suoi ascoltatori per trovare “il più grande filosofo del nostro tempo”. E il vincitore è stato – Karl Marx, arrivato primo con il 28 percento dei circa 34.000 voti emessi, seguito dallo scozzese scettico e agnostico del XVIII secolo, David Hume, con il 13 percento, e dal logico-positivista dell’inizio del XX secolo, Ludwig Wittgenstein, con il 7 percento.

Ci deve essere qualche tipo di significato sul fatto che Marx sia stato scelto da circa 9.500 persone. Sarebbe bello pensare che sia stato un voto per l’obiettivo di Marx di una società senza proprietà privata dei mezzi di produzione, senza il denaro, sena il sistema delle retribuzioni e senza lo Stato. Più probabilmente rappresenta un riconoscimento del suo contributo all’analisi della storia e del capitalismo.

Che cosa ebbe da dire Marx riguardo alla filosofia? Di fatto, fu davvero un filosofo? Fu certamente un dottore di filosofia nel senso letterale, avendo ottenuto il suo dottorato – i sindacalisti che lo frequentarono negli anni 1860 nella Prima Internazionale lo conoscevano come “Dr Marx” – per una tesi su due antichi filosofi greci, Democrito ed Epicuro. E nei suoi primi vent’anni e tra i venti e i trenta pensò e scrisse enormemente circa i problemi filosofici, ma poi raggiunse la conclusione che il filosofeggiare astratto su “Dio”, “la natura dell’Uomo” e “il significato della vita”, su cui quasi tutti i filosofi avevano fatto congetture fino ad allora, era un esercizio alquanto inutile e lo abbandonò, all’età di 27 anni, per mai ritornarvi. Questo fu di fatto più o meno la stessa conclusione raggiunta dai due inseguitori nel sondaggio della BBC, Hume e Wittgenstein.

Ciò che sostituì tale filosofia, per Marx, fu lo studio e l’analisi empirici, ossia scientifici, della storia e della società, quello che fu noto come la concezione materialistica della storia. Strettamente parlando, questa non è veramente una filosofia ma una teoria e metodologia di una particolare scienza. Engels faticò a introdurre il termine “socialismo scientifico” ma è un’accurata descrizione del risultato dell’incontro di Marx (e del proprio) con la filosofia tedesca dei suoi giorni.

Marx arrivò al socialismo tramite la filosofia tedesca. Come molti altri tedeschi di mente radicale negli anni 1840 era stato un “Giovane Hegeliano”, il nome dato a quelli che interpretarono la filosofia di Hegel in una maniera radicale per giustificare l’istituzione di uno stato democratico e laico in Germania. Hegel stesso (che morì nel 1831) non fu un democratico radicale, anche se inizialmente accolse la Rivoluzione Francese. Proprio l’opposto. Durante gli anni 1820 fu un difensore conservatore dello Stato Prussiano, quasi un suo filosofo di Stato. E credeva che la religione Cristiana fosse vera, con tutto quello che implica in termini dell’esistenza di un dio con un piano per l’umanità e che interviene negli affari umani.

Ciò che fece appello ai radicali tedeschi nella filosofia di Hegel fu il concetto di alienazione (o qualcosa dalla sua natura, o essenza) e la visione che (fino alla fine della storia) tutte le istituzioni umane fossero transitorie e sviluppate attraverso criticismo intellettuale portando alla luce e poi trascendendo le contraddizioni nell’idea dietro di loro. Per Hegel questo era tutto in un contesto religioso (l’alienazione era l’alienazione dell’Uomo da parte di Dio e la fine della storia era la riconciliazione dell’Uomo con Dio). I Giovani Hegeliani rifiutarono tutto questo e furono molto critici sulla religione; di fatto fecero una particolarità di ciò, presentando una versione terrena del sistema di Hegel in cui l’alienazione era ancora l’alienazione dell’Uomo (con un capitale U) ma da parte della vera natura dell’Uomo, e la fine della storia era la riconciliazione dell’Uomo con la sua natura, o, come loro la chiamarono, l’emancipazione umana.

La maggior parte di loro identificarono ciò con l’istituzione di una repubblica democratica. Così fece Marx, inizialmente, ma arrivò alla conclusione che la democrazia politica, benché desiderabile come un passo avanti per la Germania, non significasse piena emancipazione umana, ma soltanto un’emancipazione parziale, “politica”; l’emancipazione “umana” poteva solamente essere realizzata con una società senza la proprietà privata, il denaro e lo stato. Cercando un agente per realizzare ciò, Marx identificò il “proletariato”, ma concepito in termini molto filosofici come un gruppo sociale che era “l’oggetto di nessuna particolare ingiustizia ma dell’ingiustizia in generale”, “la perdita completa dell’umanità e quindi può solo recuperare se stesso attraverso una completa redenzione dell’umanità”. Come scrisse alla fine del suo articolo “Introduzione a un contributo alla critica della Filosofia del diritto di Hegel” pubblicato nel febbraio del 1844: “La testa di questa emancipazione [dell’Uomo] è la filosofia, il suo cuore è il proletariato.” Questo è lo stesso articolo in cui si trova forse il suo più ben noto detto “la religione è l’oppio del popolo”, cioè, un illusorio fuggire dalle reali sofferenze. Questo fu di fatto rivolto ai suoi compagni Giovani Hegeliani che sembravano immaginare che la religione potesse essere fatta per far scomparire la sua irrazionalità soltanto con il criticismo. L’analisi della religione di Marx e di ciò che era richiesto per farla scomparire andava in profondità:

“Eliminare la religione quale illusoria felicità del popolo vuol dire esigere la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione è dunque il germe della critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola”.

E:

“La critica della religione finisce con la dottrina che l’uomo è la più alta esistenza per l’uomo, vale a dire, con l’imperativo categorico di rovesciare tutte le circostanze in cui l’uomo è umiliato, asservito, abbandonato e disprezzato” (Tradotto da David McLellan dai Primi Testi di Karl Marx).

Questo è ancora un approccio filosofico e faceva Marx, in quel momento, un filosofo umanista. Alcuni trovano questo sufficiente, e assai lodevole (e Marx può anche aver ricevuto voti nel sondaggio della BBC su questa base), e certamente il fatto di essere socialista deve basarsi in fin dei conti sul desiderio di “rovesciare tutte le circostanze in cui l’uomo è umiliato, asservito, abbandonato e disprezzato”.

Marx stesso, tuttavia, non era soddisfatto di lasciare la causa per il socialismo poggiare su una pura teoria filosofica che procurava l’unica base sociale su cui “l’essenza dell’Uomo” poteva essere pienamente e finalmente realizzata. In seguito continuando a siglare con la sua posizione filosofica precedente, finì con il rifiutare la visione che gli esseri umani avessero delle “essenze” astratte dalle quali erano alienati. Come lo espresse in alcune note scritte in fretta nel 1845:

“L’essenza umana non è astrazione inerente a ogni singolo individuo. Nella sua realtà è l’insieme delle relazioni sociali” (Tesi su Feuerbach).

Questo lo condusse lontano dalla speculazione filosofica circa l’“essenza umana”, quello che era e come realizzarla, allo studio dei differenti “insiemi delle relazioni sociali” in cui gli esseri umani avevano vissuto e a vedere la storia non come lo sviluppo di qualche idea ma come lo sviluppo da un “insieme di relazioni sociali” a un altro in linea con lo sviluppo delle forze materiali di produzione. Ciò diede al socialismo una base molto più solida di un semplice “imperativo categorico di rovesciare tutte le circostanze in cui l’uomo è umiliato, asservito, abbandonato e disprezzato”. Lo rese la prossima tappa nello sviluppo della società umana, una tappa che doveva sia essere preparata dallo sviluppo della tappa corrente (capitalismo), che la soluzione dei problemi causati dall’inerenti contraddizioni interne del capitalismo. Mantenne come agente della sua istituzione la classe dei lavoratori retribuiti, non più considerata come una classe che personifica tutte le sofferenze dell’umanità, ma come la classe i cui interessi materiali la condurrebbero a opporsi e alla fine ad abolire il capitalismo.

Marx trattenne ancora un po’ del linguaggio e dei concetti del suo passato di Giovane Hegeliano, ma diede loro un contenuto nuovo, materialista. Quindi, per esempio, l’alienazione del “proletariato” non era più l’alienazione dalla loro essenza umana ma l’alienazione dai prodotti del loro proprio lavoro che avveniva per dominarli nella forma di capitale come personificato da una classe capitalista; e “l’emancipazione dell’Uomo” divenne l’emancipazione di tutta l’umanità attraverso l’abolizione delle classi e del governo di classe da parte della classe lavoratrice mondiale inseguendo il suo interesse materiale; e ancora si riferì alla fine del capitalismo come la conclusione de “la preistoria della società umana”. Anche l’imperativo di cambiare il mondo rimase, ma indirizzato alla classe lavoratrice piuttosto che ai filosofi. Come lo espose nel 1845 nel suo colpo d’addio alla filosofia tedesca: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo, in vari modi; si tratta però di cambiarlo” (anche dalle Tesi su Feuerbach).

(Traduzione da Socialist Standard, settembre 2005)

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