venerdì 28 settembre 2018

Macchine abbastanza intelligenti per una società intelligente

L’intelligenza artificiale sembra ora più che mai una realtà concreta.
Le macchine sono in grado di imparare in un modo simile a quello degli umani e di adattarsi a nuove situazioni, risolvendo problemi con un certo grado di imprevedibilità.
Una certa risonanza l’aveva avuta la vittoria di Google’s AlphaGo, un sistema di intelligenza artificiale, su il miglior giocatore di Go (Ke Jie). A differenza dal gioco degli scacchi, Go non è solo questione di logica, ma ha un certo grado di istinto.
L’intelligenza artificiale si fonda su machine learning, una branca affascinante delle scienze informatiche, che di recente ha visto un progresso considerevole, che ha rivitalizzato il concetto stesso di intelligenza artificiale. Per la prima volta l’intelligenza artificiale sembra più realistica di un film di fantascienza. Machine learning concerne in un algoritmo (una serie di regole) in grado di capire da un insieme di dati qual è il possibile risultato e ripetere questo procedimento fin quando il risultato preciso viene raggiunto. Queste capacità di allenarsi sui dati e di iterare il processo sono gli elementi che permettono di imparare, il buon vecchio metodo che procede per tentativi ed errori, ma fatto ad una velocità inimmaginabile. Per esempio, date 10 immagini (per esempio, volti umani), l’algoritmo impara a riconoscerle usando un numero limitato di caratteristiche (feature) pre-selezionate da un operatore umano (per esempio, dimensione del volto, colore, forma, dimensione del naso, ecc). La macchina quindi condensa tutte queste caratteristiche al minimo necessario per riconoscere l’immagine. L’algoritmo non indovina le immagini al primo colpo, ma, siccome paragona il suo risultato (stima) alle immagini manualmente etichettate da un operatore umano, riesce ad aggiustare il tiro e a provare iterativamente fin quando raggiunge una corrispondenza perfetta. In più, quando una nuova immagine è disponibile la macchina ora è allenata a riconoscerla. Questo è quello che noi umani già impariamo a fare in tenera età.

La rete neuronale artificiale è una branca di machine learning. Grazie a questa l’algoritmo ambisce a funzionare come i neuroni del cervello. Per dei determinati dati in ingresso (input), come delle caratteristiche che definiscono un’immagine, si vedano i volti umani dell’esempio precedente, diversi strati nascosti condurranno al risultato in uscita (output) più plausibile. Questo è il tipico approccio a scatola chiusa, ovvero che nessuno sa cosa succede al suo interno.
La macchina è in grado di riconoscere immagini, suoni, o altre cose solo perché l’uomo con il suo lavoro di etichettatura gli ha detto esattamente cosa sono. Tutte gli input hanno bisogno di un’etichetta.
Nulla di speciale fin qui, al contrario molto lavoro umano.
La cosa incomincia a farsi interessante quando questi algoritmi diventano capaci di imparare senza supervisione umana (senza etichette). Questi sono algoritmi a strati multipli, anche conosciuti come deep learning (ad apprendimento avanzato). Per esempio si immagini di applicare un algoritmo che ha imparato a riconoscere tipi di cane a tipi di gatto, ma in quest’ultimo caso senza dare riferimenti (etichette) o caratteristiche che dicano all’algoritmo come distinguerli. L’algoritmo estrarrà le caratteristiche basandosi su quelle ereditate dai dati, e userà la ‘conoscenza’ acquisita nel riconoscere i tipi di cane. Deep learning è la prima, anche se rudimentale, concretizzazione di intelligenza artificiale. Il passo verso l’auto-apprendimento è un importante passo in avanti nella tecnologia. Alcuni si spingono a dire che questa sia la nuova rivoluzione industriale. Ciò nonostante, deep learning richiede un enorme quantità di dati (big data), computer ad alta capacità di computazione e ovviamente la possibilità di conservare tutti questi dati. Tutto ciò non cade dal cielo, ma richiede un’enorme quantità di lavoro umano.
I sevizi open-source (libero accesso), le piattaforme tipo Google e Android, le API (interfaccia) aperte hanno facilitato il progresso visto in deep learning rendendo possibile la generazione di tanti dati e in alcuni casi condividendo il lavoro e i suoi frutti. I dati diventano così preziosi che la privacy delle persone dalle quali questi provengono è spesso ignorata (si veda Facebook o casi simili), obbligando i governi a mettere dei paletti (si veda il recente General Data Production Regulations).

Per la prima volta, dei lavori ‘specializzati’ rischiano di essere sostituiti da macchine intelligenti. È un problema? Alcuni sindacati parlano di una tassa sui robot, per compensare per i lavori che questi toglieranno agli uomini. Altri mettono in discussione la teoria del lavoro-valore di Marx, se il lavoro umano non è più parte del processo produttivo. Però, la ragione vera e propria di un sistema non basato sullo sfruttamento del lavoro umano è avere macchine che facciamo la stragrande maggioranza del lavoro o se possibile tutto il lavoro per noi. Nella logica della teoria del lavoro-valore è chiaro che se gli uomini non fossero coinvolti nella produzione di beni e servizi, la composizione organica del capitale (capitale fisso/capitale variabile) verrebbe intaccata, rimanendo solo capitale fisso, influenzando anche il saggio di profitto (plusvalore/capitale fisso + capitale variabile), potenzialmente tendendo a zero. In altre parole, se gli uomini non lavorassero, non riceverebbero un salario, e non sarebbero in grado di comprare le merci prodotte. Grazie al fattore tempo e all’interconnessione dei settori produttivi, questo esaurimento di valore di scambio non accadrebbe tra la notte e il giorno. Infatti, fino a che ci saranno lavoratori con un salario adeguato, e capitalisti con profitti adeguati, a chiudere il ciclo produttivo con la vendita delle merci prodotte, il profitto delle industrie completamente automatizzate non sarebbe zero. Inoltre, il valore astratto cristallizzato nella produzione dei robot e della loro capacità di auto-apprendimento originariamente è stato generato da lavoro umano. Nonostante ciò più cicli produttivi verranno condotti in piena automazione, meno profitto sarà generato.

La domanda rimane: questo progresso sarà la fine naturale del capitalismo? No. Influenza di sicuro le crisi economiche e la povertà di massa come ha sempre fatto. Il capitalismo però non collasserà da solo, si adatterà. Non tutti i lavori saranno rimpiazzabili. I lavori più psicologici saranno ancora condotti dagli uomini. Il capitalismo continuerà con le sue contraddizioni e marcate disparità. L’automazione in una società capitalista significherà cambiamenti nei modelli di occupazione e disoccupazione, mentre in una società socialista, potrà liberare l’uomo dal lavoro manuale atto a produrre beni e servizi. Permetterà all’uomo di acquisire abilità e di migliorare la società. Ciò nonostante non ci siamo nemmeno avvicinati a quel grado di automazione.
CESCO
(dal Socialist Standard di Luglio, 2018)