giovedì 30 novembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Parte I)


Introduzione

Abbiamo in precedenza, anche se alquanto superficialmente, trattato della reazione degli intransigenti rivoluzionari di sinistra ovvero gli scissionisti comunisti di Livorno (21 gennaio 1921), con l'articolo di Gramsci "La Rivoluzione Contro il Capitale" pubblicato su “L'Avanti” il 24 novembre 1917, e la reazione di Bordiga su “L’Avanguardia” nel dicembre del 1917. Aggiungiamo qui alcuni dei loro commenti in merito agli attacchi critici dei socialisti unitari, ma non riporteremo nella loro completezza le analisi dei due marxisti sulle quali e sui quali molto è già stato scritto. Per completezza si dovrebbe anche analizzare la reazione di Giacinto Menotti Serrati, direttore de “L'Avanti” al tempo della rivoluzione d'ottobre, e leader di fatto della corrente a quel tempo maggioritaria all'interno del PSI, ovvero quella massimalista, rivoluzionaria, parlamentare. E della reazione un po’ tardiva degli anarchici italiani, come quella del vecchio Errico Malatesta, e dei suoi discepoli Luigi Fabbri e Armando Borghi. Tuttavia, queste meriterebbero una trattazione separata. Basti ricordare che Serrati si espresse sempre in favore di Lenin fino alla questione dalle 21 condizioni di ammissione alla Terza Internazionale che portarono alla scissione di Livorno nel 1921; mentre gli anarchici videro nel centralismo leninista una conferma della critica bakuniana al supposto “autoritarismo marxista”.  

 

Critica Sociale sul leninismo

Già il 6 novembre un dispaccio della Stefani annuncia il tentativo dei massimalisti russi di impadronirsi del potere in Russia, presa del potere che viene confermata l’8. Con l’articolo di Ing. dell’11 si incominciano ad avere le prime notizie sulla rivoluzione di Ottobre. Il gruppo parlamentare, notoriamente riformista, si esprime dapprima positivamente nei confronti della presa del potere di Lenin, come confermato dall’intervento alla Camera di Modigliani nel dicembre. Il corrispondente Ing. con i suoi ultimi articoli per “L’Avanti” sempre in dicembre delinea una presunta convergenza dei bolscevichi con i socialrivoluzionari e i menscevichi internazionalisti, la quale viene smentita dalla agenzia Stefani con un dispaccio del 22 gennaio, dichiarando lo scioglimento dell’Assemblea Costituente. Nonostante con una certa cautela, le prime aperte critiche al bolscevismo appaiono tra le file dei socialisti unitari. 

sabato 25 novembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Preambolo)

In occasione del centenario del colpo di stato bolscevico in Russia (7 novembre 1917 secondo il calendario gregoriano vigente in occidente, 25 ottobre per il calendario giuliano), abbiamo preparato un breve saggio sulla reazione dei socialisti unitari, detti anche “minimalisti”, o “riformisti”, del Partito Socialista Italiano (PSI) e la paragoneremo principalmente con la reazione dei socialisti inglesi del “nostro” Partito Socialista della Gran Bretagna (SPGB). Questo sarà diviso in quattro parti. Il preambolo che affronterà molto superficialmente il periodo che va dalla Rivoluzione di Febbraio a quella di Ottobre; un secondo che tratterà la reazione dei socialisti italiani, e in particolare quella degli unitari, la terza parte sulla reazione del SPGB, e infine le conclusioni.

È doveroso sottolineare però due cose. Paragonare il PSI al SPGB ovviamente è storicamente errato e non è l’intento di questo scritto. Il PSI era già agli inizi del ‘900 un partito con un grande seguito nelle masse, e ancor di più, come si vedrà, nel periodo post-rivoluzionario. Il SPGB nasceva dalla scissione doverosa del 1904, contro ogni tipo di riformismo e centralismo, scissione che lo aveva però ridimensionato dal punto di vista del seguito, e ciò nonostante rimaneva fedele al socialismo marxista.

In secondo luogo è importante notare l’omogeneità dell’intransigenza del SPGB, al contrario del PSI non era lacerato tra il gradualismo dei riformisti, l’attendismo dei massimalisti e il dogmatismo programmatico degli intransigenti di sinistra. Ciò nonostante la critica dei riformisti italiani, pur non condividendo noi l’imborghesimento della loro lotta politica, fu una delle più lungimiranti sui fatti di Russia ed è per questo che vale la pena riportarla.                 

Preambolo

La Rivoluzione di Febbraio viene annunciata da “L’Avanti” tramite l’agenzia Stefani, il 16 marzo del 1917 secondo il calendario gregoriano. La discussione verte principalmente sull’impegno russo nell’Intesa, e trova i liberali interventisti euforici dell’idea che questa possa dare nuovo vigore allo sforzo russo sul fronte orientale. Mentre il gruppo parlamentare socialista, nella fattispecie Filippo Turati e Giuseppe Modigliani, è scettico che la deposizione dello zar possa avere questo significato. Turati in un discorso al consiglio comunale di Milano, il 25 aprile, ribadisce la formula zimmerwaldiana della pace senza annessioni né indennità. Sempre in aprile viene pubblicata su “L’Avanti” la dichiarazione del governo provvisorio russo di rinuncia ad ogni ambizione espansionistica. Si riunisce a Milano la Direzione del Partito Socialista, il gruppo parlamentare e il consiglio direttivo della Confederazione del Lavoro, dove il Partito ribadisce la sua posizione pacifista. Da questa riunione scaturisce il documento Ai socialisti di tutti i paesi; al quale si oppone però Amadeo Bordiga con Nulla da rettificare uscito su “L’Avanti” il 23 maggio, dove sottolinea la tendenza intesista di questo documento. Gli risponde Serrati, direttore de “L’Avanti” sdrammatizzando la frase non felice attaccata da Bordiga, ribadendo la linea internazionalista del PSI. Verso la fine di aprile appare il primo articolo di Antonio Gramsci sulla Rivoluzione di Febbraio, Note sulla rivoluzione russa; qui curiosamente Gramsci precisa che “i rivoluzionari russi non sono giacobini, non hanno già sostituito alla dittatura di uno solo la dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far trionfare il programma.” Ovvero quello che avverrà poi in ottobre. Appariva su “L’Avanti” già il 30 marzo un articolo di Genosse Sacerdote su Lenin, spiegando che questi è per la pace e contro il governo provvisorio in favore di un’Assemblea Costituente. Già a fine aprile si leggono articoli inneggianti l’autorevolezza di Lenin e la figura di Lenin rivoluzionario intransigente cresce nell’immaginario degli operai. Nonostante Vasilij Ivanovič Suchomlin (Junior) il corrispondente russo de “L’Avanti”, esalti invece la figura del socialrivoluzionario Černov. Junior aveva forti riserve su Lenin in quanto secondo lui eccessivamente dogmatico. Una volta partito per la Russia Junior, in giugno, la corrispondenza passò alla Balabanoff e ad Ing. questi erano più favorevoli nei confronti dei bolscevichi.
Quindi vi sono i fatti di luglio, ovvero la sollevazione dei soldati e operai di Pietrogrado contro il governo che si concluse con la repressione governativa che vide nei bolscevichi i principali fomentatori dichiarando il loro partito fuorilegge. Serrati nel suo La crisi della rivoluzione pubblicato il 22 luglio su “L’Avanti”, denuncia che il “malcontento popolarenon è sedato… permangono le cause che lo avevano originato… guerra … approvvigionamenti … La rivoluzione, fatta dal proletariato, sta per essere sfruttata dalla borghesia…”, e in un altro articolo intitolato Lenin Serrati esalta la figura di Lenin come il leader del movimento operaio socialista russo. Sfatando un po’ il mito del leninismo divenuto popolare solo post-Ottobre, “Critica Sociale” (si veda Primavera di rivoluzione, Verso albe nuove) dei socialisti unitari, già in occasione della rivoluzione di febbraio denuncia l’arretratezza russa ed è critica della posizione di Lenin a Zimmerwald e Kienthal. Turati e Claudio Treves sono molto chiari a riguardo della pace separata soprattutto per il timore che questa pace rafforzi la Germania a svantaggio dell’Italia. Questa posizione filo-patriottica dei riformisti si acuirà con la disfatta di Caporetto e verrà attaccata dagli intransigenti. Intanto Gramsci aggiusta il tiro in luglio, con I massimalisti russi, apparso su “Il Grido del popolo” e “L’Avanguardia”, dove esalta Lenin e i bolscevichi come i veri rivoluzionari e non evoluzionisti.

Quindi al grido di «Viva Lenin!» viene accolta la delegazione del Soviet di Pietrogrado già nell’agosto del 1917. La delegazione è composta da Goldenberg (ex-bolscevico, ora indipendente), Ehrlich (del Bund), Russanov (socialrivoluzionario) e Smirnov (menscevico). I delegati sono per la pace generale e non separata. Nasce una polemica proprio sul «Viva Lenin!» tra Turati e Serrati. Il primo sostiene che questo grido denunci “una confusione d’idee”, il secondo, invece sostiene che Lenin era “uno dei più fedeli interpreti del socialismo internazionale”. Molti socialisti non vedono di buon occhio però il sostegno che i delegati russi sembrano dare al governo Kerenskij. Questo si palesa il 13 agosto a Torino, dove il comizio dei delegati russi tradotto a braccio da Serrati per la folla, si conclude (proprio per l’esaltazione e il colorire di Serrati) con incidenti che gli costeranno l’incarcerazione e un processo. Scontri molto più seri avverranno sempre a Torino con in moti del 22 fino al 26 agosto. La Conferenza di Stato chiamata da Kerenskij che escludeva i bolscevichi viene aspramente criticata da “L’Avanti”. È chiaro come riportato da Ing. in settembre che la rivoluzione può sopravvivere non solo con la sconfitta del generale Kornilov, ma con la sconfitta del collaborazionismo di Kerenskij. Serrati nei suoi Scampoli-Lenin il 3 ottobre si chiede in tutto questo dove sia Lenin. Con la conquista della maggioranza del Soviet di Pietrogrado da parte dei bolscevichi e la nomina a presidente di Trockij su “L’Avanti” si incomincia già a leggere un mese prima della presa del potere da parte dei bolscevichi che “Lenin occuperà presto il posto di Kerensky”. Una presa del potere non troppo inaspettata in fondo.            

sabato 4 novembre 2017

Cento anni dal colpo di Stato bolscevico in Russia

In occasione del centesimo anniversario del colpo di Stato bolscevico in Russia (precisamente il 7 novembre del 1917, secondo il calendario gregoriano), il Movimento Socialista Mondiale pubblicherà una serie di articoli al fine di analizzare, il contesto storico, l'impatto sul socialismo marxista e la classe dei lavoratori, l'influenza sui socialisti in Italia che tale presa del potere ebbe e tuttora ha. A seguire la traduzione a cura di D.C. dell'articolo uscito sul numero di Ottobre 2017 dello Standard, che chiaramente mostra i limiti della visione leninista del marxismo.


La Russia è mai stata socialista? 

Esaminiamo la reazione del Partito Socialista della Gran Bretagna al colpo di stato bolscevico e descriviamo l’analisi della Russia Sovietica iniziata per primo da questo partito.


Introduzione

L’apparente trionfo dei bolscevichi nella Russia arretrata del 1917 mise in subbuglio il movimento marxista. Inoltre, varie organizzazioni politiche in Europa e in America Settentrionale, precedentemente impotenti, si mostrarono maggiormente colpite dal rapido e inatteso successo di alcuni rivoluzionari nel mezzo di una cruenta guerra mondiale, che preoccupate per il potenziale impatto di quest’evento sugli elementi centrali della teoria marxista (come erano stati sempre compresi in precedenza).
Contrariamente alla leggenda il Partito Socialista della Gran Bretagna divenne inizialmente preda proprio di questo sentimento come altri partiti della sinistra radicale, lodando i tentativi riusciti da parte dei bolscevichi di allontanare la Russia da quella carneficina che fu la Prima Guerra Mondiale. Riguardo a ciò che stava accadendo in Russia a un livello più profondo, il Partito Socialista della Gran Bretagna era più scettico. In effetti quello che attirava la nostra attenzione più di ogni altra cosa erano le affermazioni stravaganti, fatte per conto dei bolscevichi dai loro sostenitori in Gran Bretagna, sull’ “Ottobre Rosso” (i primi di novembre secondo il calendario gregoriano). La prima analisi dettagliata della situazione russa, scritta da Jack Fitzgerald, apparve sul “Socialist Standard” nel numero dell’agosto 1918 con il titolo: “La Rivoluzione in Russia – Dove fallisce”. Affrontava le pretese dell’allora “Socialist Labour Party” (di Gran Bretagna), sottolineando perché la presa del potere bolscevica non avrebbe potuto condurre all’instaurazione del socialismo in Russia. L’articolo si domandava:

“È pronta per il socialismo questa massa enorme di gente, circa 160 milioni, sparsa su otto milioni e mezzo di miglia quadrate? E i cacciatori del Nord, i piccoli proprietari contadini in rivolta nel Sud, gli schiavi-salariati agricoli delle Province Centrali e gli schiavi-salariati industriali delle città sono forse convinti della necessità d’instaurare la proprietà sociale dei mezzi di sostentamento e forniti delle conoscenze necessarie allo scopo? A meno che una rivoluzione mentale di un’ampiezza siffatta che il mondo non l’abbia mai vista abbia preso piede, o un cambiamento economico immensamente più rapido di ciò che la storia abbia mai registrato sia accaduto, la risposta è ‘No!’ (…). Quale giustificazione ci potrebbe essere, quindi, per definire la sollevazione avvenuta in Russia una ‘rivoluzione socialista’? Nessuna, al di là del fatto che i capi del movimento di novembre si definiscono ‘socialisti marxisti’.”

In effetti, col tempo, il Partito Socialista della Gran Bretagna arrivò a identificare cinque ragioni principali per cui l’edificazione del socialismo in Russia da parte dei bolscevichi sarebbe stata impossibile:

·   In primo luogo, come già indicato da Fitzgerald, la coscienza socialista di massa, necessaria prima di una rivoluzione socialista vittoriosa, era palesemente assente in Russia, come altrove. Fitzgerald faceva propria un’osservazione di Litvinov, il quale suggeriva che i bolscevichi non conoscessero veramente il punto di vista dell’intera classe lavoratrice quando assunsero il comando, ma solo quello di alcuni suoi settori come, per esempio, quello degli operai industriali di Pietrogrado.

·    In secondo luogo non era neanche il caso che la classe lavoratrice fosse la maggioran- za numerica in Russia, una società dominata dall’economia rurale. Come può essere portata a termine una rivoluzione socialista maggioritaria quando i lavoratori sono una minoranza e la classe sociale più grande è costituta da contadini analfabeti? Anche se l’analfabetismo non impedisce in modo assoluto il diffondersi della comprensione del socialismo, certo, lo rende più difficile. In ogni caso i contadini si sono da sempre mostrati più interessati a liberarsi dal pesante fardello delle tasse sulla terra e ad accrescere la dimensione dei loro appezzamenti piuttosto che a domandare la proprietà comune.

·   In terzo luogo il socialismo non potrebbe esistere in una nazione economicamente arretrata dove in mezzi di produzione non siano sufficientemente sviluppati da poter sostenete un sistema socialista di distribuzione.

·      In quarto luogo, e ciò è veramente cruciale, non è possibile costruire il socialismo in un solo paese, data la natura del capitalismo quale sistema economico mondiale con una divisione del lavoro su scala planetaria. Un ‘socialismo in un solo paese’, isolato, sarebbe destinato al fallimento a prescindere dalle lodevoli intenzioni dei rivoluzionari in esso coinvolti.

·  La quinta ragione avanzata per sostenere la natura non-socialista della Russia bolscevica andava, invece, proprio alla radice delle nostre differenze politiche con il bolscevismo: il socialismo non si sarebbe potuto raggiungere seguendo dei capi (illuminati o meno che fossero).


Il Capitalismo di Stato

In assenza di una rivoluzione socialista mondiale, realisticamente, ci poteva essere solo una via di sviluppo per la Russia semi-feudale: la via del capitalismo. Con la virtuale eliminazione della gracile borghesia russa, per i bolscevichi era stato necessario sviluppare l’industria attraverso la proprietà statale delle imprese e l’accumulazione forzata di capitale. In “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” [1], scritto appena prima della rivoluzione, Lenin aveva delineato proprio quest’approccio alla crisi russa. Secondo questo documento Lenin immaginava che le misure immediate necessarie avrebbero comportato la nazionalizzazione delle banche esistenti e la formazione di una sola banca di stato, insieme alla nazionalizzazione delle compagnie assicurative, dei monopoli e di tutte le altre realtà industriali fondamentali. Il “Socialist Standard” colse subito l’opportunità di porre in dubbio l’ipotetica applicabilità generale delle azioni bolsceviche in Russia, in questo caso lo sviluppo del “capitalismo di stato” come precondizione per l’instaurazione del socialismo:

“Se dovessimo copiare la politica bolscevica, dovremmo domandare il capitalismo di stato, che non è un passo in avanti verso il socialismo nei paesi capitalisti avanzati. Resta il fatto, come anche Lenin ha dovuto confessare, che non dobbiamo imparare dalla Russia, ma la Russia deve imparare dai paesi dove la produzione su ampia scala è dominante (“Un punto di vista socialista sulla politica bolscevica”, luglio 1920).

Come da noi evidenziato con gran pena ai nostri oppositori filo-bolscevichi, Lenin ammise che la formazione sociale della Russia sovietica era essenzialmente capitalistica di stato, sebbene sotto la direzione e il controllo di un cosiddetto “stato proletario” guidato da un partito d’avanguardia di rivoluzionari professionisti. Per Lenin la natura della politica rivoluzionaria era il determinante cruciale del tipo di sistema sociale esistente. Senza ciò che Lenin definì “democrazia rivoluzionaria”, i monopoli capitalistici di stato sarebbero rimasti solo espressioni di un capitalismo di stato. Con il controllo operaio della produzione e il controllo dello stato proletario da parte del partito di avanguardia della classe lavoratrice, però, il socialismo sarebbe divenuto una realtà. Secondo “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” il socialismo sarebbe semplicemente “i monopoli capitalistici di stato usati per servire gli interessi di tutto il popolo”.

Oltre vent’anni dopo la presa del potere bolscevica eravamo rimasti scettici sul fatto che il capitalismo di stato fosse realmente socialismo, anche se presieduto da coloro che si proclamavano socialisti:

“… le caratteristiche principali del capitalismo [in Russia] non sono scomparse e non sono in procinto di farlo. Le merci non sono prodotte per l’uso ma per la vendita a quelli che hanno denaro per acquistarle, come negli altri paesi. I lavoratori non sono membri di un sistema in cui i mezzi di produzione della ricchezza siano posseduti e controllati socialmente, ma sono salariati impiegati dallo stato o da imprese para-statali ecc. Le  imprese di stato russe non sono ‘socialmente possedute’ più delle Poste Britanniche, dell’Ente Centrale per l’Elettricità [del Regno Unito], o di ogni altra compagnia privata (…). Il tentativo bolscevico d’introdurre il socialismo mediante ‘decreti legali’ o ‘coraggiosi balzi in avanti’ prima che le condizioni economiche siano mature e prima che la gran massa della popolazione desideri il socialismo, è stato un totale fallimento. Con il tempo questo fallimento diverrà ovvio ai lavoratori dentro e fuori dalla Russia” (“Domande del giorno d’oggi”, 1942).

Il capitalismo, basato sulla separazione tra i produttori e i mezzi di produzione, non era stato abolito e non sarebbe potuto esserlo. La produzione aveva ancora luogo nella forma di un sistema di scambi basato sulla circolazione dei capitali. Il capitale si espandeva in conseguenza dello sfruttamento del lavoro salariato e i beni erano ancora prodotti per la vendita sul mercato in vista della realizzazione di un plusvalore. In effetti, molto dell’analisi iniziale del Partito Socialista della Gran Bretagna dedicata alle basi economiche del sistema sovietico rifletteva l’intento di dimostrare le somiglianze tra il capitalismo di stato russo e il capitalismo britannico, basato sulle imprese private, con cui il partito era più familiare.


Chi è la classe capitalista?

Col tempo, mentre era chiaro che il capitalismo di stato in Russia (e poi nei suoi vari paesi satelliti) manteneva tutte le caratteristiche essenziali del capitalismo, rimanevano anche evidenti differenze, benché superficiali. Una, ad esempio, era legata a chi fosse la classe capitalista in Russia, dato che i sostenitori di questo sistema spesso sostenevano che non potesse realmente esistere il capitalismo in Russia dato che non c’era una classe capitalista nel senso tradizionale del termine. Eppure in realtà esisteva una classe capitalista di questo tipo, come mostrato dall’opuscolo “Milionari Sovietici” di Reg Bishop del 1940, insieme a un settore privato che affiancava le maggiori istituzioni e le compagnie possedute dallo stato, nonostante fosse alquanto marginale.
Ad ogni modo era chiaro che il potere e il controllo effettivi (comprese le decisioni economiche) erano tutti concentrati in un potente gruppo di burocrati dirigenti che godevano di uno stile di vita privilegiato e di alti stipendi ottenuti dalla loro posizione al vertice della gerarchia sovietica. Questa classe dirigente non poteva essere semplicemente equiparata ai sovrintendenti e ai manager interni al capitalismo a cui si riferiva Marx, i quali ricevevano uno stipendio basato sulla quantità di beni necessaria per produrre e riprodurre la loro forza-lavoro. All’opposto, questa classe di burocrati in Russia stava usando la sua posizione di controllo per compiere le stesse funzioni espletate dai capitalisti individuali nelle prime fasi dello sviluppo capitalista e per impossessarsi di entrate privilegiate ricavate dal plusvalore. Benché non avesse titoli legali sui mezzi di produzione e non fosse in grado di cederne o passarne la proprietà, era chiaramente una classe possidente del tipo menzionato nella nostra Dichiarazione dei Principi, che esercitava un “monopolio … della ricchezza estorta ai lavoratori”. Questa classe capitalistica di stato, come la classe capitalista dei proprietari privati in occidente, era privilegiata nei consumi ricevendo stipendi “gonfiati” che non erano il prezzo della loro forza-lavoro, ma una quota del plusvalore totale creato dalla classe lavoratrice. Ed erano anche privilegiati per via di una moltitudine di vantaggi, benefici e bonus solo a loro disponibili, compreso l’accesso a esercizi commerciali esclusivi come negozi e ristoranti di lusso da cui la classe lavoratrice era addirittura fisicamente esclusa.

L’opinione prevalente nel Partito Socialista della Gran Bretagna fu che la natura di classe non potesse venir determinata dalle sole forme legali o dai metodi di selezione (infatti la classe possidente sovietica non veniva selezionata ereditariamente, ma tramite altri metodi, più meritocratici, che non erano stati del tutto inusuali nelle altre classi possidenti della storia). Così, in definitiva, il partito concluse che, nonostante la classe capitalistica di stato non avesse titoli legali di proprietà sui mezzi di produzione, tuttavia costituiva ugualmente una classe in grado di esercitare una proprietà collettiva sui mezzi di produzione e di distribuzione. Ciò che venne giudicato di primaria importanza fu, quindi, la realtà sociale del capitalismo piuttosto che una sua particolare forma legale: gli oppositori della teoria del capitalismo di stato non erano mai stati capaci di vedere al di là di quest’ultima.


La teoria del capitalismo di stato

Il Partito Socialista della Gran Bretagna fu il primo gruppo politico nel Regno Unito, e probabilmente nel mondo, a identificare la direzione capitalistica di stato presa dalla Russia sotto la dittatura del partito comunista, benché molti altri giunsero nel corso del tempo alla stessa conclusione, anche se non sempre per le medesime ragioni.
Diversamente da noi la gran parte di questi gruppi restava nel solco della tradizione leninista o, per lo meno, si mostrava interessata a identificare alcuni aspetti positivi nella presa del potere bolscevica i quali, in futuro, sarebbero potuti essere usati dal movimento socialista in altre situazioni. In particolare, la concezione leninista del socialismo come proprietà e direzione statali dell’economia sotto il controllo di un partito di avanguardia operante tramite lo strumento politico dei consigli operai era acriticamente accettata dalla maggioranza di questi gruppi. Di conseguenza essi attribuirono solo in seguito la caratteristica di “capitalismo di stato” alla Russia, quando ritennero che la proprietà statale non coincidesse più con la “democrazia proletaria” e con il potere dei soviet. Questa fu essenzialmente l’analisi proposta inizialmente dai “comunisti dei consigli” tra cui, per esempio, Otto Rühle che vide nella repressione dei soviet l’ascesa del “despotismo dei commissari” e del capitalismo di stato (Rühle stesso, più tardi, comprese l’inadeguatezza di questa posizione e giunse a concepire la nazionalizzazione e la regolazione da parte dello stato come intrinsecamente “capitalistiche di stato”). Il maggiore gruppo della “Sinistra Comunista” in Europa, la KAPD tedesca [2], sviluppò una prospettiva simile. Identificò il capitalismo con la proprietà privata (specificamente non-statale) dei mezzi di produzione e, come la “Workers’ Socialist Federation” (anch’essa “comunista dei consigli”) in Gran Bretagna, lodò i bolscevichi per la loro costruzione del socialismo nei centri industriali della Russia. In seguito la KAPD divenne fortemente critica del sistema bolscevico dopo la repressione finale dei soviet e l’introduzione della cosiddetta “Nuova Politica Economica”, che, sosteneva la KAPD, annunciava un “regresso verso il capitalismo”.

Nonostante gli eccessi iniziali della “Sinistra Comunista” e dei gruppi dei “comunisti dei consigli” che invariabilmente lasciarono che l’ammirazione per la forma politica dei soviet dominasse le loro analisi, forse il peggior esempio di socialismo concepito come la combinazione di proprietà statale più “democrazia rivoluzionaria” venne dai trotzkisti. Ironicamente le teorie trotzkiste sul capitalismo di stato, pur essendo le più deboli, sono le più note. C. L. R. James e Raya Dunayevskaya del “Socialist Workers’ Party” statunitense furono i primi trotzkisti a separarsi dallo stesso Trockij e ad attribuire all’URSS una natura capitalistica di stato, benché la teoria forse più nota sia quella elaborata da Tony Cliff e fatta circolare come documento di discussione all’interno del Partito Comunista Rivoluzionario della Gran Bretagna nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, prima di venir pubblicata con il titolo: “Russia, un’analisi marxista”.
Cliff, che era la vera guida dietro ciò che sarebbe poi divenuto l’SWP britannico [3], sostenne che le sue ragioni per dividersi dai trotzkisti ortodossi, identificando l’Unione Sovietica con il capitalismo di stato, fossero abbastanza semplici:

“Quando giunsi alla teoria del capitalismo di stato non vi arrivai attraverso lunghe analisi [sulla sopravvivenza] della legge del valore in Russia … Niente di tutto ciò. Vi arrivai con la semplice constatazione che … non si può avere uno stato operaio senza che i lavoratori abbiano il potere di determinare ciò che avviene nella società” (intervista a “The Leveller”, 30 settembre 1979).

In realtà Cliff era stato pesantemente influenzato dal suo compagno trotzkista Jock Haston circa le opinioni del Partito Socialista della Gran Bretagna sull’esistenza del capitalismo di stato in Russia al posto del socialismo o del cosiddetto “stato operaio”; ma Cliff non sarebbe mai stato in grado abbandonare del tutto le prospettive di Lenin e di Trockij. In effetti l’analisi di Cliff era profondamente radicata nell’idea che l’URSS fosse una forma di “stato operaio” prima che il “Piano Quinquennale” di Stalin, nel 1928, instaurasse la burocrazia come nuova classe consumatrice di plusvalore. Come tutti i trotzkisti, Cliff non identificò l’URSS con una società in via di sviluppo secondo le linee guida del capitalismo di stato già dal 1917, ma soltanto a partire dall’ascesa al potere di Stalin. Sotto Lenin la Russia sarebbe stata, ipoteticamente, una società in transizione dal capitalismo al comunismo, fondata sul potere della classe lavoratrice. Per Cliff un cambiamento visibile di controllo politico condurrebbe a una mutazione fondamentale della struttura economica, a quello che, in effetti, arriverebbe a essere un “regresso verso il capitalismo”.
Forse sorprendentemente, furono proprio i trotzkisti che restarono fedeli alle opinioni di Trockij (nel periodo dell’esilio) sulla Russia vista come uno “stato operaio degenerato” che mossero le critiche più pertinenti all’analisi di Cliff, in particolar modo alle sue conclusioni che la struttura del sistema sovietico fosse cambiata nel 1928 e avesse assunto basi capitalistiche. Il primo di questi critici fu il rivale trotzkista britannico Ted Grant (fondatore di ciò che poi divenne “The Militant” [4]) che scrisse:

“Se la tesi del compagno Cliff fosse corretta, ossia che in Russia oggi ci sia il capitalismo di stato, allora non si potrebbe evitare la conclusione che il capitalismo di stato esista dai tempi della rivoluzione russa e che la funzione stessa della rivoluzione sia stata quella di introdurre questo sistema di capitalismo di stato nella società. Perché, nonostante i suoi strenui sforzi per tracciare una linea di demarcazione tra le basi economiche della Russia prima e dopo il 1928, tali basi economiche sono rimaste immutate (…) il denaro, la forza-lavoro, l’esistenza della classe lavoratrice, il plusvalore ecc. sono tutti relitti del vecchio sistema capitalista sopravvissuti perfino sotto il regime di Lenin (…) la legge del valore si applica, e deve potersi applicare, fino a che non vi sia un accesso diretto ai prodotti da parte dei produttori” (“Contro la teoria del capitalismo di stato”, 1949).

Questa conclusione fu certamente rifiutata da Cliff e dagli altri teorici trotzkisti del capitalismo di stato, benché ovviamente, non da noi. Oggi molti gruppi politici di “comunisti dei consigli”, di “comunisti di sinistra” e di trotzkisti identificano la Russia sovietica, sicuramente nel periodo successivo a quello di Lenin, con una realtà essenzialmente a capitalismo di stato e, come noi, hanno applicato la loro analisi della società russa ad altri paesi “socialisti” con caratteristiche simili in Asia, Africa e America Centrale. Il non esser soli nell’identificare la natura capitalistica dell’URSS ovviamente non indebolisce la nostra posizione di unica organizzazione che promosse un’analisi basata sul capitalismo di stato degli eventi della Russia all’epoca del loro accadimento e non, solamente, con il senno di poi. Ma quello che è più importante è che rimaniamo una delle poche organizzazioni impegnate a sostenere una tale critica all’URSS (e ai regimi simili) che non abbia mai cercato di adottare o di promuovere l’avanguardismo leninista che, così chiaramente, condusse proprio a questo sbocco capitalistico di stato.

DAP

(da “Socialist Standard” n. 1358, Ottobre 2017, traduzione italiana a cura del blog “Movimento Socialista Mondiale”).


NOTE

[1] “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” (del 10-14 settembre 1917) in V. I. Lenin, Opere, vol. 25 (Editori Riuniti, Roma, 1967).
[2] Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands (“Partito Comunista Operaio di Germania”), attivo dal 1920 al 1933.
[3] “Socialist Workers’ Party” (“Partito Socialista dei Lavoratori”), partito trotzkista britannico fondato nel 1950 e ancora esistente.
[4] “The Militant” (“Il Militante”) fu il giornale dell’ala trotzkista del Partito Laburista britannico nota come “Militant Tendency” nel periodo 1964-1991. Dopo l’espulsione proseguì come rivista autonoma fino al 1997.