mercoledì 26 dicembre 2018

Rosa Luxemburg e l’opposizione marxista al leninismo

Durante la cosiddetta "rivolta di gennaio", iniziata il 6 gennaio di cento anni fa, Rosa Luxemburg viene rapita e poi assassinata, insieme a Karl Liebknecht, dai soldati dei famigerati Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del premier social-democratico Friedrich Ebert e del ministro della Difesa Gustav Noske. Il corpo di Rosa, gettato in un canale di Berlino, è recuperato solo il 31 maggio e sepolto nel cimitero centrale di Friedrichsfelde. Si sa per certo che il brutale assassinio avviene il 15 gennaio.

Da questo momento inizia un vero e proprio processo di “beatificazione” per la rivoluzionaria polacco-tedesca portato avanti dalla Sinistra mondiale delle più varie sfumature: già nel 1926 a lei, Karl Liebknecht, Leo Jogiches e Franz Mehring viene dedicato un monumento del famoso architetto Ludwig Mies van der Rohe, commissionato dal Partito Comunista Tedesco (la KPD) di stretta osservanza moscovita. Successivamente, con la fondazione della Repubblica Democratica Tedesca nel 1949 all’interno della zona di occupazione sovietica della Germania sconfitta, praticamente tutto viene intitolato alla memoria di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht: vie, piazze, scuole, biblioteche, musei, perfino monete e francobolli. Il messaggio è molto chiaro ed elementare (benché, come vedremo in seguito, completamente falso): le idee rivoluzionarie della Luxemburg sono sopravvissute alla sua morte nel programma della KPD e si sono poi finalmente concretizzate nella Germania “socialista”, resa possibile dalle baionette russe dopo il crollo del regime nazista.
Ma vi è anche un altro uso, senz’altro più scaltro e intellettualmente sofisticato, ma non per questo più autentico, dell’eredità politica luxemburghiana. Quando diviene chiaro, ad opera soprattutto dei lavori del comunista libertario Daniel Guérin (1971), che il pensiero di Rosa Luxemburg è per moltissimi aspetti irriducibile alla vulgata marxista-leninista di Mosca o di Pechino, ella viene assunta da vari gruppi socialdemocratici critici e “di sinistra” come l’emblema della cosiddetta “Terza Via”, equidistante dal “socialismo reale” sovietico o cinese e dal riformismo socialdemocratico dell’Europa Settentrionale. Campione di questa tendenza in Italia è il dirigente del PSI prima (e del PSIUP poi) Lelio Basso, figura culturalmente molto significativa nel trentennio ’50-‘70, ma alquanto inquieta e oscillante tra un socialismo democratico “radicale” e un comunismo critico “dal volto umano”, con venature anche di operaismo e di terzomondismo. E una tale apologia luxemburghiana da parte dei “riformisti di sinistra” continua ancora oggi: gli esponenti del partito della "Sinistra Europea'', nato proprio a Berlino il 10 gennaio 2004, come primo atto ufficiale si sono recati in pellegrinaggio sulla tomba di Rosa Luxemburg per rivendicare la supposta continuità tra il loro progetto politico e quello della grande rivoluzionaria polacco-tedesca.
Ma chi è davvero questa donna eccezionale che con i suoi scritti e le sue azioni sembra riscuotere un consenso generale nella Sinistra degli ultimi cento anni, mettendo apparentemente insieme lo stalinista Walter Ulbricht, il socialista “di sinistra” Lelio Basso, l’anarco-comunista Daniel Guérin e il comunista dei consigli Paul Mattick, in un modo tale che forse solo un gigante del pensiero come Marx potrebbe fare?
E, soprattutto, se non fosse stata crudelmente massacrata a soli 47 anni, cosa avrebbe pensato del “socialismo reale” edificato dai comunisti ufficiali, o, più in generale, della ideologia dogmatica e totalitaria del cosiddetto “marxismo-leninismo”?
Nelle poche pagine che seguono cercheremo di dare una risposta sincera e senza preconcetti a questi interrogativi arrivando alla conclusione, probabilmente per molti un po’ provocatoria, che è forse proprio il “World Socialist Movement” (WSM), pur con tutte le differenze e i distinguo del caso, a essere il raggruppamento politico di oggi più autenticamente “luxemburghiano”. Paradossalmente utilizzeremo per le citazioni di Lenin parte di un vecchio e misconosciuto articolo telematico (“Chi era Rosa Luxemburg?”, http://www.pmli.it/chieraluxemburg.htm) di un piccolo raggruppamento maoista italiano (il PMLI) che, proprio a causa del suo estremismo settario (agli antipodi del WSM in tutto), riesce ad essere veritiero almeno in un punto: la pluriennale opposizione tra Lenin e la Luxemburg.

giovedì 1 novembre 2018

L’Estrema Sinistra: un anacronismo del 21° secolo

Il conservatorismo dell’Estrema Sinistra 

Una delle cose di cui il Partito Socialista [della Gran Bretagna, SPGB] è spesso accusato da quella che viene definita genericamente come “Estrema Sinistra” è “l’utopismo”. Siamo “utopici” perché vogliamo istituire un’alternativa al capitalismo dove i beni e i servizi non siano più prodotti per la vendita ma direttamente per soddisfare i bisogni umani, dove la divisione di classe della società in datori di lavoro e dipendenti, insieme all’intero sistema del lavoro salariato, abbia cessato di esistere e dove le risorse produttive della società siano possedute in comune da tutti.

È vero, sulla scala Richter dell’insulto politico l’essere definiti “utopici” si trova piuttosto in basso. Si potrebbe essere definiti molto peggio nel lessico colorato dell’Estrema Sinistra. Ci avrebbero potuto etichettare come “revisionisti” oppure come “tirapiedi degli imperialisti”.

Tuttavia, sembra esserci qualcosa di strano in questa accusa di “utopismo”; suona come una dissonanza cognitiva. Dopo tutto, non si suppone che questi raggruppamenti assortiti di trotzkisti, stalinisti, marxisti-leninisti, maoisti, hoxhaisti, castristi e affini, abbiano come “obiettivo finale”  esattamente l’obiettivo del partito socialista?  Le "ferree leggi " della storia, a loro avviso, non ci spingono inesorabilmente in quella direzione, comunque?

Beh, così non sembra. Sembra che l’Estrema Sinistra – possiamo dimenticarci della Sinistra Moderata che non pretende nemmeno di avere il socialismo come obiettivo di lungo termine – abbia premuto il pulsante “Pausa” sulla storia e che quello sia il posto dove intendano rimanere indefinitamente. Sembra che la necessità pragmatica di fare campagne per le riforme abbia sempre la precedenza sulla necessità di una rivoluzione sociale. Le loro ragioni per pensarla così saranno esaminate in seguito.

sabato 20 ottobre 2018

Il Partito Socialista della Gran Bretagna: da dove viene e come ha arricchito il Marxismo?

Il Partito Socialista della Gran Bretagna fu fondato il 12 giugno 1904 da un centinaio di membri ed ex-membri della Federazione Socialdemocratica, scontenti della politica e della struttura di quell’organizzazione.

La Federazione Socialdemocratica era stata fondata nel 1881 come organizzazione dichiaratamente marxista, benché Engels, che in quell’epoca viveva a Londra, non avesse voluto aver nulla a che fare con essa. In quegli anni gli scritti di Marx, di Engels e degli altri pionieri del socialismo scientifico erano scarsamente noti nei paesi anglosassoni, eccetto ai pochi che conoscevano le lingue straniere. Ad ogni modo, la Federazione Socialdemocratica ebbe il merito di divulgare in Gran Bretagna le idee e le opere di Marx. Questo fatto, in seguito, avrebbe portato alla richiesta di un partito socialista intransigente e democraticamente organizzato che prendesse il posto di una Federazione Socialdemocratica riformista e autoritaria.

La Federazione Socialdemocratica impiegò molto del suo tempo a far campagne per riforme che avrebbero dovuto migliorare le condizioni di vita della classe lavoratrice britannica. Hyndman, che giocò il ruolo principale nel costruire il partito, sembrava considerare quest’ultimo come un suo feudo personale e reagiva a ogni critica in modo altezzoso e dispotico. Il giornale di partito, “Justice”, era addirittura posseduto da un gruppo privato su cui gli iscritti non avevano alcuna influenza. L’opportunismo e l’arroganza di Hyndman avevano già portato nel 1884 a una scissione, quando parecchi membri, inclusi William Morris ed Eleonor Marx, diedero vita alla Lega Socialista, che però cessò presto d’essere di qualsiasi utilità divenendo egemonizzata dagli anarchici. Una seconda rivolta condusse alla formazione, nel 1903, del Partito Socialista dei Lavoratori, clone dell’omonima organizzazione statunitense. All’inizio, insieme a un programma di “rivendicazioni immediate”, il Partito Socialista dei Lavoratori dichiarò che il suo scopo era la conquista del potere politico, ma presto, sotto l’influenza del suo progenitore americano, subordinò l’azione politica a quella sindacale industriale.

Ma la successiva rivolta contro il dominio del gruppo di Hyndman sulla Federazione Socialdemocratica fu organizzata da uomini e donne che avevano una conoscenza ben più solida delle teorie economiche e politiche marxiste. Per la loro ferrea opposizione all’opportunismo divennero sarcasticamente noti col nome di “Impossibilisti”. All’inizio cercarono di usare le strutture della Federazione Socialdemocratica per avviare una riforma del partito, ma poi si scontrarono con la cricca di Hyndman pronta a usare ogni sotterfugio anti-democratico per mantenere il controllo dell’organizzazione. Molti congressi vennero pilotati, diverse sezioni sciolte e vari iscritti furono perfino espulsi. La questione arrivò al termine con il congresso del 1904, tenutosi a Burnley nel mese di aprile:

  • “L’adozione di un atteggiamento intransigente che non contempli accordi con nessuna parte dei partiti filo-capitalisti; né permetta alcun compromesso con persone o partiti che non riconoscano la lotta di classe o che non siano pronti a lottare per rovesciare l’attuale sistema capitalista.
  • Opposizione a tutti coloro che non si siano completamente votati alla realizzazione della Democrazia Sociale.
  • Un’organizzazione ricostruita, in cui l’Esecutivo sia essenzialmente un corpo amministrativo, con la politica e la tattica determinate e controllate dall’intera organizzazione.
  • L’organo di Partito sia posseduto, controllato e diretto dal Partito.
  • I singoli membri abbiano il diritto di richiedere la tutela dell’intera organizzazione contro decisioni ritenute arbitrarie”.
Il 12 giugno 1904 la maggioranza dei firmatari di questo volantino, insieme a pochi altri, fondò il Partito Socialista della Gran Bretagna. All’inizio i membri del Partito Socialista della Gran Bretagna adottarono un documento, “Oggetto e Dichiarazione dei Principi”, che, senza bisogno di cambiamenti, è rimasto ancora oggi la base d’appartenenza al partito. In questa cornice il partito ha lavorato in modo coerente per far conoscere i principi socialisti e per smascherare le numerose teorie errate e pericolose che avevano guadagnato consenso tra i lavoratori.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna vanta il successo di esser stato nel giusto in modo coerente su un gran numero di argomenti nell’arco di più di un secolo di attività.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna mise in guardia dal pericolo rappresentato dai socialisti partigiani delle riforme ancora prima del vergognoso collasso della socialdemocrazia europea allo scoppio della prima guerra mondiale.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna disse nel 1918 che i bolscevichi non avrebbero potuto costruire il socialismo in Russia e fu il partito che, almeno in Gran Bretagna, aprì la strada all’idea che in Russia si stesse sviluppando il capitalismo di stato.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna predisse l’inevitabile fallimento dei governi laburisti, sia come via verso il socialismo, sia come mezzo per migliorare stabilmente le condizioni di vita dei lavoratori.

Fin dall’inizio il Partito Socialista della Gran Bretagna si convinse che le nazionalizzazioni non avrebbero rappresentato una soluzione ai problemi dei lavoratori.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna ha sempre denunciato la natura falsa e divisiva del nazionalismo, del razzismo e del fanatismo religioso.

In entrambe le guerre mondiali il Partito Socialista della Gran Bretagna dichiarò e mantenne un atteggiamento di ferma opposizione socialista all’attività bellica.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna ha anche fornito i suoi specifici contributi alla teoria socialista alla luce di ulteriori sviluppi (e talora anche di superamenti) di alcune opinioni dei pionieri del socialismo scientifico, Marx ed Engels. Elenchiamo in quel che segue alcuni di questi contributi essenziali:
  1. soluzione del vecchio dilemma “riforme o rivoluzione”, dichiarando che un partito socialista non dovrebbe propagandare le riforme del capitalismo, pur riconoscendo che il parlamento possa essere effettivamente usato per fini rivoluzionari.
  2. Consapevolezza che il socialismo sarà un sistema mondiale di produzione e distribuzione. Quindi il socialismo non potrà in alcun modo esser realizzato in un solo paese.
  3. Riconoscimento del fatto che non vi è più alcun bisogno di una “società di transizione” tra capitalismo e socialismo. Marx ed Engels non erano dei dogmatici e non lo è nemmeno il Partito Socialista della Gran Bretagna. Essi riconobbero che i principi generali del “Manifesto del Partito Comunista” erano sempre validi, ma che l’applicazione pratica di tali principi poteva dipendere dalle condizioni storiche del tempo. Non siamo più nel 1848, quando Marx ed Engels abbozzarono alcune misure rivoluzionarie alla fine della seconda sezione del “Manifesto”, e neppure nel 1875, quando Marx suggerì nella “Critica al Programma di Gotha” che il socialismo avrebbe potuto aver bisogno di una fase iniziale basata su un sistema di buoni orari di lavoro. Nel XXI secolo il socialismo è tecnicamente possibile già da subito e potrà esser realizzato rapidamente mediante il libero accesso ai consumi sotto un controllo democratico appena la maggioranza dei lavoratori lo vorrà.
  4. Rifiuto di ogni ulteriore ruolo progressista per il nazionalismo dopo che, a partire dalla fine del XIX secolo, il capitalismo è divenuto il sistema mondiale dominante. L’industrializzazione di un paese arretrato sotto l’egida di un capitalismo di stato nazionale ora non è più né necessaria, né economicamente progressista.
  5. Per le stesse ragioni vi è il rifiuto netto dell’idea di “guerre progressiste”. I socialisti si oppongono a tutte le guerre per motivi di classe, rifiutandosi di prendere parte alle liti tra i capitalisti per lo sfruttamento delle materie prime, per l’occupazione di zone d’influenza strategica e per il controllo delle rotte commerciali.
  6. Denuncia del concetto di “dirigenza” quale principio politico capitalista, caratteristico delle rivoluzioni che hanno portato al potere la borghesia, ma totalmente estraneo alla rivoluzione socialista. Quest’ultima vedrà necessariamente la partecipazione attiva e conscia della vasta maggioranza dei lavoratori, cosicché non vi sarà più nessun ruolo utile per capi e dirigenti.
  7. Difesa e pratica dell’idea che un partito socialista debba essere senza capi e senza riunioni segrete, prefigurando così la società socialista che esso cerca di realizzare.
  8. Riconoscimento del fatto che il capitalismo non crollerà da sé per dinamiche interne, ma che continuerà a sopravvivere oscillando tra una crisi e l’altra, finché i lavoratori non si organizzeranno consciamente per abolirlo.
  9. Opposizione a tutte le principali religioni organizzate in quanto anti-scientifiche e politicamente divisive e nefaste.
  10. Riconoscimento del fatto che l’apatia, il disimpegno e la mancanza di partecipazione agli affari di partito producono in quest’ultimo patologie politiche quali l’entrismo, il frazionismo, gli errori teorici, le lotte interne e i personalismi.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna sempre ha rifiutato di venire a compromessi sui principi socialisti per unirsi a organizzazioni riformiste o semi-riformiste, e ha fermamente insistito affinché l’unica via al socialismo passasse attraverso un’organizzazione democratica e un’azione politica basata sulla comprensione chiara delle posizioni di classe proprie dei lavoratori oppressi dal giogo del capitalismo. I dieci punti che abbiamo appena riportato rappresentano una breve sintesi dei maggiori contributi teorici del Partito Socialista della Gran Bretagna al socialismo scientifico, ma non devono indurre a pensare che il marxismo sia, almeno per questo partito, una dottrina ferma e oramai cristallizzata in un certo numero di dogmi. All’opposto, alcune importanti questioni sono ancora materia di discussione all’interno del Partito Socialista della Gran Bretagna e dei partiti fratelli del Word Socialist Movement. Per approfondire tutte queste tematiche si consulti pure questo sito in italiano (contenente, tra l’altro, un link al ricchissimo materiale politico in lingua inglese a partire dal 1904).

venerdì 28 settembre 2018

Macchine abbastanza intelligenti per una società intelligente

L’intelligenza artificiale sembra ora più che mai una realtà concreta.
Le macchine sono in grado di imparare in un modo simile a quello degli umani e di adattarsi a nuove situazioni, risolvendo problemi con un certo grado di imprevedibilità.
Una certa risonanza l’aveva avuta la vittoria di Google’s AlphaGo, un sistema di intelligenza artificiale, su il miglior giocatore di Go (Ke Jie). A differenza dal gioco degli scacchi, Go non è solo questione di logica, ma ha un certo grado di istinto.
L’intelligenza artificiale si fonda su machine learning, una branca affascinante delle scienze informatiche, che di recente ha visto un progresso considerevole, che ha rivitalizzato il concetto stesso di intelligenza artificiale. Per la prima volta l’intelligenza artificiale sembra più realistica di un film di fantascienza. Machine learning concerne in un algoritmo (una serie di regole) in grado di capire da un insieme di dati qual è il possibile risultato e ripetere questo procedimento fin quando il risultato preciso viene raggiunto. Queste capacità di allenarsi sui dati e di iterare il processo sono gli elementi che permettono di imparare, il buon vecchio metodo che procede per tentativi ed errori, ma fatto ad una velocità inimmaginabile. Per esempio, date 10 immagini (per esempio, volti umani), l’algoritmo impara a riconoscerle usando un numero limitato di caratteristiche (feature) pre-selezionate da un operatore umano (per esempio, dimensione del volto, colore, forma, dimensione del naso, ecc). La macchina quindi condensa tutte queste caratteristiche al minimo necessario per riconoscere l’immagine. L’algoritmo non indovina le immagini al primo colpo, ma, siccome paragona il suo risultato (stima) alle immagini manualmente etichettate da un operatore umano, riesce ad aggiustare il tiro e a provare iterativamente fin quando raggiunge una corrispondenza perfetta. In più, quando una nuova immagine è disponibile la macchina ora è allenata a riconoscerla. Questo è quello che noi umani già impariamo a fare in tenera età.

La rete neuronale artificiale è una branca di machine learning. Grazie a questa l’algoritmo ambisce a funzionare come i neuroni del cervello. Per dei determinati dati in ingresso (input), come delle caratteristiche che definiscono un’immagine, si vedano i volti umani dell’esempio precedente, diversi strati nascosti condurranno al risultato in uscita (output) più plausibile. Questo è il tipico approccio a scatola chiusa, ovvero che nessuno sa cosa succede al suo interno.
La macchina è in grado di riconoscere immagini, suoni, o altre cose solo perché l’uomo con il suo lavoro di etichettatura gli ha detto esattamente cosa sono. Tutte gli input hanno bisogno di un’etichetta.
Nulla di speciale fin qui, al contrario molto lavoro umano.
La cosa incomincia a farsi interessante quando questi algoritmi diventano capaci di imparare senza supervisione umana (senza etichette). Questi sono algoritmi a strati multipli, anche conosciuti come deep learning (ad apprendimento avanzato). Per esempio si immagini di applicare un algoritmo che ha imparato a riconoscere tipi di cane a tipi di gatto, ma in quest’ultimo caso senza dare riferimenti (etichette) o caratteristiche che dicano all’algoritmo come distinguerli. L’algoritmo estrarrà le caratteristiche basandosi su quelle ereditate dai dati, e userà la ‘conoscenza’ acquisita nel riconoscere i tipi di cane. Deep learning è la prima, anche se rudimentale, concretizzazione di intelligenza artificiale. Il passo verso l’auto-apprendimento è un importante passo in avanti nella tecnologia. Alcuni si spingono a dire che questa sia la nuova rivoluzione industriale. Ciò nonostante, deep learning richiede un enorme quantità di dati (big data), computer ad alta capacità di computazione e ovviamente la possibilità di conservare tutti questi dati. Tutto ciò non cade dal cielo, ma richiede un’enorme quantità di lavoro umano.
I sevizi open-source (libero accesso), le piattaforme tipo Google e Android, le API (interfaccia) aperte hanno facilitato il progresso visto in deep learning rendendo possibile la generazione di tanti dati e in alcuni casi condividendo il lavoro e i suoi frutti. I dati diventano così preziosi che la privacy delle persone dalle quali questi provengono è spesso ignorata (si veda Facebook o casi simili), obbligando i governi a mettere dei paletti (si veda il recente General Data Production Regulations).

Per la prima volta, dei lavori ‘specializzati’ rischiano di essere sostituiti da macchine intelligenti. È un problema? Alcuni sindacati parlano di una tassa sui robot, per compensare per i lavori che questi toglieranno agli uomini. Altri mettono in discussione la teoria del lavoro-valore di Marx, se il lavoro umano non è più parte del processo produttivo. Però, la ragione vera e propria di un sistema non basato sullo sfruttamento del lavoro umano è avere macchine che facciamo la stragrande maggioranza del lavoro o se possibile tutto il lavoro per noi. Nella logica della teoria del lavoro-valore è chiaro che se gli uomini non fossero coinvolti nella produzione di beni e servizi, la composizione organica del capitale (capitale fisso/capitale variabile) verrebbe intaccata, rimanendo solo capitale fisso, influenzando anche il saggio di profitto (plusvalore/capitale fisso + capitale variabile), potenzialmente tendendo a zero. In altre parole, se gli uomini non lavorassero, non riceverebbero un salario, e non sarebbero in grado di comprare le merci prodotte. Grazie al fattore tempo e all’interconnessione dei settori produttivi, questo esaurimento di valore di scambio non accadrebbe tra la notte e il giorno. Infatti, fino a che ci saranno lavoratori con un salario adeguato, e capitalisti con profitti adeguati, a chiudere il ciclo produttivo con la vendita delle merci prodotte, il profitto delle industrie completamente automatizzate non sarebbe zero. Inoltre, il valore astratto cristallizzato nella produzione dei robot e della loro capacità di auto-apprendimento originariamente è stato generato da lavoro umano. Nonostante ciò più cicli produttivi verranno condotti in piena automazione, meno profitto sarà generato.

La domanda rimane: questo progresso sarà la fine naturale del capitalismo? No. Influenza di sicuro le crisi economiche e la povertà di massa come ha sempre fatto. Il capitalismo però non collasserà da solo, si adatterà. Non tutti i lavori saranno rimpiazzabili. I lavori più psicologici saranno ancora condotti dagli uomini. Il capitalismo continuerà con le sue contraddizioni e marcate disparità. L’automazione in una società capitalista significherà cambiamenti nei modelli di occupazione e disoccupazione, mentre in una società socialista, potrà liberare l’uomo dal lavoro manuale atto a produrre beni e servizi. Permetterà all’uomo di acquisire abilità e di migliorare la società. Ciò nonostante non ci siamo nemmeno avvicinati a quel grado di automazione.
CESCO
(dal Socialist Standard di Luglio, 2018)

martedì 3 aprile 2018

Capitalismo di Stato sovietico?


Storia di un’idea

Capitalismo di Stato sovietico?

di W. Jerome e A. Buick
(con postilla di R. Mondolfo)


La differenza fra il sistema sovietico e il sistema sociale dell’Europa occidentale e del Nord America sembra così marcata da giustificare una etichetta distintiva; e l’etichetta che è stata adottata per un sistema di proprietà statale dei principali mezzi di produzione è «socialismo». L’ampio accordo, tuttavia, non nasconde divergenze radicali di svariate gradazioni d’opinioni, che rifiutano di applicare la denominazione «socialismo» al sistema sovietico. Ma fra gli stessi dissenzienti non c’è accordo riguardo alla definizione che dovrebbe applicarsi. Il fine di questo saggio è considerare la storia di quella definizione che descrive l’Unione Sovietica come una società capitalista di Stato. Questa teoria è stata sostenuta da tre diversi gruppi ben distinti ideologicamente: 1) i marxisti ortodossi; 2) i «comunisti dei consigli»; 3) i leninisti dissidenti.

I Marxisti ortodossi

Riuscirà probabilmente una sorpresa per la maggior parte dei lettori apprendere che è la scuola di lingua inglese del marxismo tradizionale, derivante dalla Federazione socialdemocratica di Hyndman, e rappresentata dal piccolo Partito Socialista di Gran Bretagna (SPGB) e dagli ancor minori partiti fratelli dei paesi di lingua inglese (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda, Stati Uniti) quella che ha, senza esitazione, affermato che la rivoluzione bolscevica ha portato ad una società capitalista di Stato. Il SPGB si oppose alla guerra del 1914-18, e perciò approvò decisamente l’azione anti-imperialista dei bolscevichi russi, pur condannando la tattica leninista (che riteneva opportunista) sollecitante i lavoratori inglesi a sostenere il Partito laburista. Il SPGB riteneva che il partito bolscevico fosse formato da socialisti intenzionati ad introdurre un sistema di proprietà sociale. Tuttavia il SPGB predisse che questo tentativo sarebbe fallito per la mancanza di un requisito fondamentale per il socialismo, cioè l’esistenza di un’industria moderna e di un proletariato con mentalità socialista. Lenin stesso ammetteva che la proprietà sociale era fuori questione in Russia finché il capitalismo non avesse portato ad un alto sviluppo della produzione sociale. Egli si riferiva all’attività del settore nazionalizzato dell’economia (che era solo un piccolo settore a quel tempo) come ad una forma di capitalismo di Stato. Il SPGB citò Lenin su questo punto, ma ciò non bastava a definire il sistema sociale della Russia sovietica come capitalismo di Stato. La maggior parte della società russa, come Lenin ammetteva, consisteva in un classico sistema di rapporti capitalistici, ben noto in occidente, che coesisteva con una produzione contadina semifeudale e perfino con attività prefeudali di pastorizia e caccia. Poiché il SPGB credeva che lo sviluppo del capitalismo fosse una premessa necessaria al socialismo, esso non condannò Lenin e i bolscevichi. Tuttavia insistette nell’affermare che la Unione Sovietica non era una società socialista, e, inoltre, nel sostenere che il «dominio di una minoranza — sia pure minoranza marxista — non è socialismo». Fu solo nel periodo 1929-30 che cominciò ad applicare il termine capitalismo di Stato alla URSS, quando Stalin collettivizzò l’agricoltura e organizzò una produzione pianificata di merci sotto il controllo dello Stato. In Germania, diversamente dalla Gran Bretagna, i socialisti marxisti avevano un largo seguito e favorevoli prospettive per giungere a posizioni di governo. Dal 1918 il SPD era dunque partito di governo, e l’atteggiamento del suoi dirigenti di fronte al governo bolscevico era determinato più da considerazioni politiche immediate che da una analisi teorica. Perfino Karl Kautsky, la guida ideologica della socialdemocrazia tedesca (sebbene membro dell’opposizione formata dal Partito Socialista Indipendente nel 1918), non tentò alcuna particolare analisi economica della società sovietica. Tuttavia in vari suoi scritti di critica ai bolscevichi si riferì all’Unione Sovietica come a una società di capitalismo di Stato. In Terrorismo e comunismo egli dice: «il capitalismo industriale, lungi dall’essere un sistema privato, è diventato ora un capitalismo di Stato» «Oggi (…) ambedue, stato e burocrazia capitalista, sono fusi in un unico sistema». Tuttavia questo concetto non venne elaborato più a lungo; evidentemente Kautsky considerava la Russia matura solo per l’abolizione dei rapporti feudali della terra, ma non per l’abolizione del capitalismo. Entrambi, Kautsky ed i bolscevichi, credevano che la proprietà statale dei mezzi di produzione e un sistema di retribuzione mediante salario fossero compatibili col socialismo. Essi concordavano altresì nel ritenere che sebbene una società senza salariati e senza Stato possa essere possibile nel futuro, gli sforzi immediati dovessero essere diretti a fini meno ambiziosi. Kautsky e i bolscevichi non erano invece d’accordo sui mezzi adatti ad ottenere questo obiettivo minore. Molte critiche kautskiane al regime instaurato dai bolscevichi erano fondate sul fatto che la loro azione repressiva negava la democrazia politica, e senza democrazia politica la classe lavoratrice non poteva controllare la macchina economica a cui era soggetta, per cui era lasciata nella stessa posizione in cui si trovava in qualsiasi paese capitalista. Di fatto, i lavoratori russi erano in una situazione peggiore di quella del lavoratori di quei paesi dove prevaleva qualche forma di democrazia politica. Più tardi Kautsky parlò di Lenin «che usava il potere statale per la creazione del suo capitalismo di Stato». Egli spiegava che la Russia potrebbe diventare socialista «solo quando il popolo espropri gli espropriatori». «Un cambiamento nelle relazioni formali di proprietà non basta per stabilire il socialismo, perché occorre anche il controllo democratico dello Stato da parte del lavoratori. Mancando questo, i lavoratori si trovano, rispetto al problema del controllo del mezzi di produzione, nella stessa situazione che ha di fronte a sé il lavoratore nei paesi capitalisti». Per Kautsky il controllo democratico del mezzi di produzione attraverso il potere politico era la differenza essenziale fra socialismo e capitalismo di Stato. In scritti ulteriori erano usati da lui altri termini, ma la sua critica rimase sostanzialmente la stessa. Un altro eminente teorico, l’austriaco Otto Bauer, in linea con la tradizione critica marxista nei confronti della rivoluzione bolscevica, affermava che la mancanza di forti e vitali istituzioni democratiche in Russia, così come la sua arretratezza economica, impedivano il raggiungimento del socialismo. Ma a differenza di Kautsky, Bauer prevedeva una graduale maturazione e democratizzazione del regime sovietico. Egli riteneva che il programma di industrializzazione dei bolscevichi avrebbe condotto a una «razionalizzazione economica». Questa a sua volta avrebbe portato alla conseguenza che Bauer credeva derivante dallo sviluppo economico: la democrazia politica. Così egli si aspettava che il regime sovietico divenisse più democratico: «dal dittatoriale capitalismo di Stato sorgerà un ordinamento socialista della società». In certo senso il capitalismo di Stato russo stava costruendo il socialismo. Bauer credeva che la transizione dal capitalismo di Stato al socialismo non avrebbe richiesto una rivoluzione politica, e quindi si opponeva al veemente incitamento di Kautsky per una nuova rivoluzione russa contro i bolscevichi. Al pari di Kautsky, Bauer non usò sempre gli stessi termini nell’analisi dell’URSS come forma di capitalismo. Occasionalmente egli usò il termine «socialismo dispotico». I socialdemocratici tedeschi ed austriaci si opponevano ai bolscevichi a causa delle caratteristiche dittatoriali del loro potere. Quando definivano il regime sovietico «quale capitalismo di Stato», era più per motivi politici che economici. A differenza del SPGB e degli altri partiti socialisti, i socialdemocratici tedeschi non pensavano che il sistema della retribuzione mediante salario, la moneta e lo Stato fossero incompatibili col socialismo. Per i socialdemocratici tedeschi, socialismo significava il controllo democratico delle forze produttive di una società altamente industrializzata. Inoltre la rivalutazione del significato del sistema socio-economico sovietico negli anni ‘30 accentuava la distinzione fra il capitalismo tradizionale e la società sovietica. Nel 1940 l’eminente teorico socialdemocratico Rudolf Hilferding pubblicò una critica della teoria del capitalismo di Stato dell’URSS, nel periodico di lingua russa di New York, Socialist Courier. Hilferding indicava come segno distintivo del capitalismo un’economia di mercato, nella quale i prezzi sono il risultato di un minimo di concorrenza fra i diversi proprietari dei mezzi di produzione. Questa concorrenza «in ultima analisi dà origine alla legge del valore», e determina che cosa e quanto è prodotto. «Un’economia di Stato, tuttavia, elimina precisamente l’autonomia della legge economica... Non è più il prezzo, ma una commissione statale pianificatrice che determina la produzione». Hilferding definiva l’Unione Sovietica come una nuova organizzazione economica né capitalista, né socialista, come una economia di Stato totalitario. L’economia nazista tedesca e quella fascista italiana eran specie meno sviluppate di questo genere.

lunedì 12 marzo 2018

Bitcoin: cosa ne penserebbe Marx?


  • di Cesco 

Abbiamo sentito di tutto in merito ai Bitcoin. C'è addirittura qualcuno che ha osato affermare che i Bitcoin sarebbero un'alternativa alla struttura economico-politica attuale e per questa ragione Marx li avrebbe apprezzati (‘Bitcoin and Marx’sTheory of History’, Kenny Spotz, Bitcoin Magazine 26, July 2014). Poveri noi!
Vediamo allora se Marx avrebbe apprezzato i Bitcoin oppure no. I Bitcoin sono una 'criptomoneta', ovvero un mezzo digitale criptato di pagamento, sicuro, fino a quando non viene “hackerato”, ovviamente. 
Secondo Marx, la sola alternativa al capitalismo è una società basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e dei loro prodotti, una società senza profitto e senza denaro, nemmeno quello criptato o non convenzionale. 
Marx analizzò esaurientemente la natura e la funzione del denaro nel sistema capitalista. Questa la si può trovare nella prima sezione del primo volume del Capitale. Ripassiamone brevemente un paio di concetti.  Qualsiasi cosa che ha la proprietà di soddisfare un bisogno ha un valore d'uso, che è un'utilità, una particolare qualità. 
Ma quando guardiamo lo scambio di due cose e le loro qualità, per esempio due sedie e 0,3 once d'oro, i loro valori d'uso non sono determinanti nello scambio; ciò che conta è una quantità comune misurabile. Nello scambio, queste due cose diventano merci e i loro valori diventano valori di scambio. Così nel nostro esempio, 2 e 0,3 sono i valori di scambio. Però, se guardiamo questo scambio dal punto di vista dell'utilità, due sedie dovrebbero essere più utili di 0,3 once d'oro (diciamo un anello d'oro). Ma chi o cosa decide che due sedie valgano solo 0,3 once d'oro, piuttosto che 20 once o 0,1 once? Questo è determinato dal fatto che l'ammontare di lavoro umano medio in una società, necessario per produrre due sedie e per estrarre 0,3 once d'oro, è il medesimo. Quindi, due sedie così come 0,3 once d'oro, si possono scambiare, come con 8.000 mele, o quattro paia di scarpe. Ogni merce quindi ha equivalenti, che riflettono il tempo medio di lavoro speso nel produrle dall'inizio alla fine. Per convenzione, storicamente, la forma generale di equivalente era attribuita ai metalli preziosi, come l'oro e l'argento, diventando così merce-denaro, come moneta, la quale in sé incarna uno standard di tempo di lavoro allo stesso modo e permette a tutte le altre merci di essere a lei comparata. 
Marx riassume tutto questo in un chiaro esempio:
Se le merci avessero la parola, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare agli uomini. A noi, come cose, non interessa. Ma quello che, come cose, ci interessa, è il nostro valore [di scambio].            
            L’oro [inteso come denaro]… funziona come misura generale dei valori [di scambio]
Originariamente, il denaro era una merce, i metalli preziosi (oro e argento), lo erano per le loro proprietà di durevolezza nel tempo e divisibilità; il loro valore di scambio era determinato dal loro peso. A un certo punto, per permettere scambi di più piccola dimensione, altri metalli meno durevoli come il rame vennero usati come monete, sostituendo l'oro o l'argento. Anche gli stessi oro e argento erano soggetti all'usura del tempo, diventando il loro valore sempre più convenzionale e sempre meno connesso al loro peso. Questo spianò la strada a una moneta puramente convenzionale come le banconote. 
La carta per sé ha un limitato valore di scambio, ma convenzionalmente le banconote hanno valori di £20, £50, £100 etc. Ai tempi di Marx le banconote della Banca d'Inghilterra erano ripagabili in oro. La Banca, alla quale era concesso dallo Stato di stampare carta moneta, doveva avere il corrispettivo in riserve auree nelle sue casseforti. 
Come scritto da Marx,
            La monetazione, come pure la definizione di scala di misura dei prezzi, è compito dello Stato.
Inoltre,           
La carta è segno di valore, solo perché rappresenta quantità d’oro che sono pure quantità di valori, come tutte le quantità di merci.

Uno alla volta, i vari governi del mondo decisero di revocare la convertibilità del loro conio in oro, facendone moneta a corso legale (fiat money)Fiat significa in latino “lascia che sia”. Che vuol dire: soldi senza obblighi di convertibilità. Quindi, oggigiorno, una banca centrale, che stampa banconote per concessione statale, può creare soldi dal nulla, aumentando le possibilità d'inflazione. 
Torniamo quindi alla criptomoneta, e a come la giudicherebbe Marx.
È decisamente possibile creare criptomoneta dal nulla; è solo una questione di convenzione. Per diventare una vera moneta, lo Stato deve riconoscerla e in molti paesi, ma non in tutti, Bitcoin e altre criptovalute sono riconosciute legalmente ma solo come valute private. È importante notare che gli inventori dei Bitcoin hanno imposto un limite nel numero circolante (21 milioni) e questa scarsità, assieme ad altri vantaggi, ha dato loro una certa popolarità. L'altro principale vantaggio è che i Bitcoin garantiscono l'anonimato, ideale per chi è interessato a evadere il fisco, al gioco d'azzardo e al riciclaggio. In più gli acquisti non sono tassati. I Bitcoin non richiedono intermediari e quindi hanno costi di trasferimento più bassi. Le imprese possono raccogliere capitali, con i Bitcoin, senza essere valutate nella borsa valori ufficiale. Ad ogni modo, questi vantaggi non spiegano la loro popolarità e loro rapido aumento di valore azionario.
Il Chicago Mercantile Exchange, l'operatore di scambio di derivati più grande al mondo, sta considerando di offrire la vendita di Bitcoin. Questo ha agevolato la bolla speculativa sui Bitcoin anche più grande di quella del “dot-com” della fine anni novanta. Mentre scriviamo questo articolo, nel dicembre 2017, i Bitcoin valevano $15.500, nella loro fase discendente, da un picco di $18.000 circa. Quanto varranno domani, $10.000, $500, $1? Gli investitori compravano Bitcoin perché contavano sul fatto che qualcun altro li ricomprasse da loro, e così via. Contavano su un 'fesso più grosso' che li comprasse da loro, come descritto nell'Economist (1 novembre). Chiaramente, nonostante quello che dice la “Bitcoin community”, questa non è una valuta adeguata per comprare beni quotidiani, ma si è dimostrata ideale per una bolla speculativa, di sicuro non un passo avanti verso il futuro dell'evoluzione umana. 
Marx non penserebbe neanche che i Bitcoin siano una buona valuta, in quanto non stabile come equivalente universale. Marx, allo stesso modo, non penserebbe che neanche il dollaro o ogni altra moneta a corso legale siano una buona forma di equivalente universale, in quanto fittiziamente sostenuti dallo Stato e quando stampati in eccesso causa d'inflazione. Marx non penserebbe che una moneta, invisibile perché digitale e criptata, sia intrinsecamente un passo in avanti o che sia in grado di cambiare l'ordine sociale. Il capitalismo può essere superato solo da un sistema dove i mezzi di produzione e i loro prodotti diventino di comune proprietà dell'intera società, e l’accesso a questi ultimi sia completamente libero. Una società dove l'oro non sarebbe la forma di equivalente universale, come neanche nessun altro tipo di moneta. 
(Tradotto da “Socialist Standard” n. 1362 Febbraio 2018 “Bitcoin: What Would Marx Think?”)

giovedì 8 febbraio 2018

Convergenza “Socialista” e il World Socialist Movement: due poli diametralmente opposti!

Un piccolo partito di recente formazione, noto con il nome di “Convergenza Socialista” (CS), usa impropriamente la corretta definizione di “socialismo”. Questa è stata presa dal vecchio e glorioso Socialist Party of Great Britain (SPGB), attivo fin dal 1904. L’uso improprio di una definizione giusta crea due pericoli, ovvero: quello di passare per un partito che vuole davvero il socialismo, quando invece è altrimenti. E quello di associare in qualche modo il proprio nome al SPGB e quindi al World Socialist Movement (WSM). Questi due rischi noi del WSM non li possiamo correre e, quindi, non solo prendiamo le distanze dalla linea politica revisionista e riformista di CS, ma evidenziamo qui di seguito anche le principali differenze che ci dividono in modo diametrale.
Il SPGB nasce dalla rottura della Socialist Democratic Federation (SDF), appunto nel 1904. La SDF ebbe una nobile origine: fondata da Henry Hyndman nel 1881, vide socialisti del calibro di William Morris, Eleanor Marx e del suo partner Edward Aveling tra i propri membri. Hyndman, già a suo tempo plagiario di Marx (il quale per questo troncò con lui ogni rapporto), era un uomo politico eclettico che guidava il partito in modo autoritario e personale entrando fin da subito in conflitto con molti membri socialisti, tra i quali quelli celebri appena citati. Proprio questi ultimi andarono a formare la Socialist League, una scissione accolta con piacere da Engels, il quale anch’egli poco tollerava Hyndman, ma che, mancando di massa critica, non ebbe il seguito sperato. Proprio per la condotta personalistica e le posizioni revisioniste, riformiste e scioviniste di Hyndman, alcuni membri della sinistra della SDF di Londra andarono successivamente a formare il SPGB. Un partito che da allora non accettò mai più una leadership di partito, né alcuna sorta di riformismo.
Il SPGB e i suoi partiti fratelli, che formano il WSM, ovvero il Socialist Party of Canada, il World Socialist Party of the United States, il World Socialist Party (Ireland), il World Socialist Party (New Zealand) e il World Socialist Party of India, funzionano in modo totalmente democratico e senza alcuna leadership.
La loro intransigenza nei confronti di ogni tipo di revisionismo e di riformismo, allora già incipienti nelle grandi socialdemocrazie della Seconda Internazionale, valse loro il nomignolo di “impossibilisti”. Questo termine (un po’ ironico) fu coniato proprio dai partiti membri della Seconda Internazionale, tra i quali troviamo anche il Partito Socialista Italiano, per indicare coloro i quali pensavano che fosse impossibile partecipare a governi di coalizione con i partiti borghesi “progressisti” (dopo l’affaire Millerand del 1899) e, più in generale, riformare il capitalismo per condurlo gradualmente verso il socialismo.
Invero, Marx ed Engels pensavano che un programma “minimo” di riforme, spontaneamente sollevato dal movimento dei lavoratori stesso, avrebbe aiutato la costruzione di un movimento rivoluzionario socialista globale nel quale la classe lavoratrice sarebbe organizzata come un corpo unico, ma non lo concepivano come strumento per riformare il capitalismo. Tuttavia l’adozione di un programma minimo risultò nella corruzione della natura dei vari partiti social-democratici. Quindi il WSM, nonostante accetti di partecipare alle elezioni politiche, rifiuta categoricamente il programma “minimo”: il suo solo programma è il Socialismo. Come Marx ed Engels, anche il WSM vede i sindacati come organizzazioni di lavoratori occupate, nel migliore dei casi, nella lotta quotidiana di miglioramento delle condizioni lavorative. I sindacati non si occupano del movimento socialista come non si occupano del socialismo. “L’essere membro del WSM non preclude l’attività nei sindacati [anzi], tuttavia ogni membro deve riconoscere i gravi limiti della lotta difensiva dei sindacati sotto il regime capitalista”.

domenica 7 gennaio 2018

Elezioni politiche 2018



La Sinistra riformista:
cosa può ottenere e cosa non farà mai


(adattato da un articolo di Adam Buick intitolato “Corbyn: what he can achieve and what he could not have” apparso sul “Socialist Standard”, n. 1355 del luglio 2017)

Introduzione

Nel 2017 alcuni politici progressisti europei, come per esempio Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, Jean-Luc Mélenchon in Francia e Sahra Wagenknecht  in Germania, hanno dimostrato almeno una cosa: presentarsi alle elezioni politiche con un programma che promette di tassare le multinazionali e i super-ricchi per finanziare la sanità, l’edilizia popolare e l’istruzione non sempre causa quell’emorragia di voti che tanti politologi-“guru” spesso prevedono. Molti, inclusi vari parlamentari della stessa Sinistra, pensano che scendere in campo oggi con un programma del genere sia un suicidio politico. Alla fine, tornando all’esempio britannico, il programma è stato proprio uno dei fattori che ha permesso al Partito Laburista di aumentare il numero dei suoi parlamentari di 30 unità e il voto popolare del 40%. Naturalmente né Corbyn, né Mélenchon, né la Wagenknecht hanno vinto, ma all’inizio si pensava che sarebbero stati letteralmente polverizzati.
Le elezioni politiche del 2017 in Europa sono state nuovamente una competizione per decidere quale gruppo di politici dovesse guidare l’azienda-paese, ma questa volta per lo meno non è stata, come a volte accade, solo una gara tra due o tre squadre tutte pronte a giurare che il loro partito sarebbe stato il migliore a gestire il capitalismo così com’era. In effetti quest’anno è avvenuta una certa competizione tra molti raggruppamenti che ancora proponevano questo programma e pochi altri (per esempio i Laburisti britannici, La France Insoumise, die Linke) che sostenevano, al contrario, che avrebbero fatto importanti modifiche al capitalismo. Che un numero crescente di persone si esprima contro lo stato attuale delle cose è comunque sempre meglio che votare, senza entusiasmo o cinicamente, come se si dovesse scegliere tra due marche di un detersivo più o meno identico. Se la gente non fosse scontenta dello status quo e non sperasse in qualcosa di migliore allora le prospettive del socialismo sarebbero davvero nulle.

Tuttavia

C’è una bella differenza tra essere in grado di conquistare voti con un programma moderatamente di Sinistra volto a riformare il capitalismo ed esser capaci poi di metterlo in pratica. Se, per esempio, il Partito Laburista di Corbyn avesse avuto ancora più successo e fosse riuscito a vincere effettivamente le elezioni, allora, alla luce di quanto dimostrato dalle esperienze passate dei governi di Sinistra, avrebbe fallito a far funzionare il capitalismo “nell’interesse dei molti e non dei pochi”. E questo non perché i suoi ministri avrebbero dato prova di esser incapaci o venduti, ma perché il capitalismo è un sistema sociale basato, in modo rigoroso, sull’esclusione della maggioranza dalla proprietà e dal controllo dei mezzi di produzione della ricchezza. Questi appartengono a una minoranza che però usa la maggioranza per farli funzionare. Sotto il capitalismo (in quanto sistema economico) la ricchezza è prodotta per esser venduta sul mercato in vista di un profitto la cui origine sta nel lavoro non pagato “dei molti” di cui si appropriano “i pochi”. Promettere di far funzionare il sistema economico nell’interesse della maggioranza e non di una minoranza, implicitamente assume che tale minoranza continui a esistere. Così la Sinistra europea sta dicendo che sotto un ipotetico governo di Corbyn, di Mélenchon o della Wagenknecht, “i pochi” rimarrebbero ai loro posti di privilegio, ma un po’ del loro denaro verrebbe preso e usato a beneficio de “i molti”. Il problema è che l’origine delle entrate de “i pochi” sta nel profitto, e proprio la ricerca del profitto è ciò che guida il sistema capitalista. Minacciando i profitti il sistema economico entrerebbe in stallo. Un governo di Sinistra che tassasse i profitti semplicemente per migliorare la vita de “i molti” si scontrerebbe con la legge economica fondamentale del capitalismo: “niente profitti, niente produzione”.

Ci siamo già passati

Lo scenario tipico, confermato dalla Storia, di un governo di Sinistra è questo: viene eletto e inizia ad applicare il suo programma; scoppia una crisi economica; il governo reagisce facendo retromarcia sulle sue riforme e accettando, in modo più o meno riluttante, che i profitti abbiano il primo posto e poi agendo di conseguenza. Perde popolarità e nell’elezione successiva, o viene sostituito, o viene rieletto con un programma molto diverso: non più riforme radicali, ma soltanto “il male minore”.
Questo è il motivo per cui non possiamo essere entusiasti di Corbyn, di Mélenchon o della Wagenknecht. Per quanto ragionevoli e umani possano essere da vari punti di vista (e nonostante le ampie campagne contro di loro, sono risultati essere certamente più ragionevoli e umani degli altri politici), i loro programmi non sono realizzabili.  Il capitalismo, semplicemente, non può esser fatto funzionare in modo diverso da quello di un sistema che anteponga il profitto alla gente. È il modo in cui opera e in cui deve operare.

Illusione

Ciò vuol dire che la politica e le elezioni politiche sono in realtà basate su un’illusione: chi controlla il governo può controllare il modo in cui funziona l’economia, mentre è esattamente l’opposto: i governi devono adattare le loro politiche al modo in cui opera il capitalismo. Così, alla fine, non importa quale gruppo di politici sia stato eletto per formare un governo. Chiunque siano, qualunque cosa abbiano promesso, dovranno sempre governare nei termini fissati dal capitalismo. In altre parole, se la gente vota per migliorare la propria sorte sotto il capitalismo, sarà frustrata dall’azione delle forze economiche stesse del capitalismo. Non è un sistema che possa accettare la volontà democratica della gente, espressa per esempio in un’elezione, di migliorare le proprie condizioni. I votanti propongono, ma il capitalismo dispone. Questa è la base del detto: “cambiare il governo non cambia nulla”.
L’aspirazione a migliorare le cose è molto positiva, ma non può esser soddisfatta nell’ambito del capitalismo. Ciò che serve a realizzare le speranze di chi ha votato a Sinistra non è la tassazione de “i pochi” a vantaggio de “i molti”. È l’abolizione della divisione sociale in “molti” e “pochi”, convertendo i mezzi di produzione della ricchezza dal possesso (e dal vantaggio) de “i pochi”, alla proprietà comune di tutti per il vantaggio di tutti. Ciò costituirebbe il quadro in cui riorientare la produzione: dal raggiungimento del profitto al soddisfacimento dei bisogni della gente. Non lo slogan riformista: “Il popolo prima dei profitti”, ma quello rivoluzionario: “Il popolo, non i profitti”!

DC