Iniziamo con il
definire cosa si intende per classe lavoratrice e cosa si intende per politica.
La classe lavoratrice è costituita di fatto da tutti coloro i quali sono
costretti a vendere il proprio lavoro (forza lavoro) per una remunerazione,
salario o pensione, per sostentarsi, e sostentare i membri della propria
famiglia non in grado di lavorare, per il resto dei loro giorni. Fare parte di
questa classe è uno stato di fatto economico e di conseguenza sociale e non
vuol dire automaticamente esserne a conoscenza. Per politica si intende, l’arte
o l’attività di organizzazione e amministrazione di una collettività sociale.
Troppo spesso
oggi il lavoratore non ha una chiara idea di appartenenza alla propria classe
sociale, la classe lavoratrice appunto. L’unico senso di appartenenza che gli rimane
è quello culturale, legato al posto dove è cresciuto, o più in generale, alla
cultura nella quale è stato allevato. Spesso anche se approssimativamente
questa appartenenza culturale si identifica con l’identità nazionale. Il
risultato è che sfruttati e sfruttatori si sentono tutti e due legati da un
minimo comune denominatore che è la madre Patria.
Allo stesso
tempo, troppo spesso, oggi il lavoratore identifica la politica con l’organo di
governo della classe dominante, ovvero lo Stato borghese impersonato dai suoi
rappresentati, i politici. Giustamente una larga fetta di lavoratori, se non la
maggioranza, non sente che i suoi interessi siano rispettati da questa
politica. Questo è dimostrato dalla bassa affluenza alle urne alle elezioni
politiche. In più vi è il diffuso senso di diffidenza e disprezzo nei confronti
di chi organizza e amministra la cosa pubblica. Questo senso è giustificato dalla
mala amministrazione, le cammorrie, o mafie che si vogliano chiamare, le quali
puntualmente mostrano i politici come dei parassiti che mangiano a quattro
ganasce sulla cosa pubblica.
Questo stato di
cose, ovvero la mancanza di coscienza di classe e la identificazione della
politica in una istituzione oligarchica (in mano a una casta), estranea e
addirittura corrotta, lascia i lavoratori in uno stato di frustrazione che
sfocia in diverse manifestazioni, da movimenti reazionari intolleranti più o
meno autoritari e nostalgici, demagogici (ovvero senza sostanza che
accontentato solo apparentemente il popolino), a movimenti moralisti. Questi ultimi
sono per una politica sempre oligarchica anche se “democraticamente” eletta, ma
che funzioni, ovvero ben amministrata e non corrotta, cioè, moralmente onesta. E
poi c’è la maggioranza silente che rimane a guardare in uno stato di impotenza
o indifferenza. Questo tipo di reazioni ovviamente non fanno parte della lotta
della classe lavoratrice cosciente del suo ruolo nella società.
Se avessimo una
classe politica governate perfetta, come vogliono i moralisti, questo non
risolverebbe lo stato di sfruttamento della classe lavoratrice. La disoccupazione,
le basse pensioni, i tagli ai posti di lavoro nei settori non più redditizi
agli imprenditori sarebbero i medesimi. Questo perché anche nel sistema
capitalista “onesto”, il profitto viene prima di tutto, e quindi è totalmente
moralmente onesto, secondo la morale borghese si intende, assoggettare la
maggioranza della popolazione al lavoro salariato o affamarla se tale lavoro
può essere spostato dove è più economico. Ecco che la vera indole della morale
della classe padronale viene svelata: il profitto. Lottare per una classe
dirigente “onesta” non è che la trappola più insidiosa della borghesia. Il voto
elettorale in questo caso quindi rimane il pretesto per legittimare gli
interessi economici della classe che detiene il potere economico. Attraverso questo meccanismo la classe che
detiene il potere economico si assicura quello politico.
Ma allora come
interagire con la politica? Se torniamo alla sua definizione, la politica non è
nient’altro che l’arte di gestire, ovvero organizzare e amministrare la
collettività sociale. Ma è il sistema economico attuale che impone che da questa
gestione la collettività stessa debba essere esclusa. La borghesia si nasconde
dietro al suo falso concetto di democrazia, secondo il quale la collettività assolve
il suo compito sociale scegliendo i suoi amministratori e organizzatori
mediante il suffragio. Ma la collettività dovrebbe e può gestire direttamente
se stessa. Ovviamente la classe dominante ci tiene a precisare che questa è
utopia, in quanto se gli venisse tolto il diritto di proprietà sui mezzi di
produzione e su ciò che producono (ovvero la cosa pubblica), questa classe non
esisterebbe più. La classe dominante
proprio perché proprietaria di tali mezzi di produzione e del prodotto sociale,
ovvero del potere economico, ci tiene a ribadire che senza di essa e della sua
rappresentanza politica, eletta “democraticamente” dalla collettività, la
società non potrebbe funzionare o addirittura esistere.
Ora, avendo, la
classe dominante, sradicato qualsiasi tipo di coscienza di classe nella classe lavoratrice,
ovvero quella che deve lavorare per campare, non può far altro che trovare
conferma nel disinteresse e nella disorganizzazione ti tale classe per
rafforzare la propria posizione di indispensabilità. Non è un caso che questa
entri a legiferare nell’intimo della libertà del singolo individuo, cercandolo
di legare mani e piedi e inculcandogli l’idea di essere un cittadino che deve
imparare a stare al suo posto a tutti i costi, anche in casi estremi, come di
guerra e fame.
Ma tutto questo
non è altro che un sistema sociale ed economico che deve essere rovesciato.
Il nostro
intendimento di politica è semplice. La
collettività sociale deve organizzare e amministrare se stessa. Per fare
ciò deve prendere possesso dei mezzi di
produzione e del prodotto sociale, ovvero in parole semplici, cessare di
lavorare per il profitto di un padrone, deve
quindi organizzarsi in centri di amministrazione del prodotto sociale,
ovvero tutto ciò che ora è merce, sia materiale che astratta, e distribuirlo secondo i bisogni di ognuno.
Investire parte del tempo ora dedicato
al lavoro retribuito a questa attività di organizzazione e amministrazione
della collettività sociale, vorrà dire fare effettivamente politica.
L’annullamento di ogni tipo di mercimonio e di profitto, libererà interi
settori di lavoratori e moltissime risorse, tra le quali gli odierni
disoccupati che saranno finalmente disponibili nel contribuire alla produzione
sociale e alla sua organizzazione e amministrazione quindi distribuzione.
Questo si può semplicemente ottenere investendo una frazione di tempo al
giorno, alla settimana o al mese, nel prendere parte all’attività di gestione
di Gruppi locali, li si chiami Comuni, Consigli, la sostanza non cambia. Qui
invece di gestire gli interessi di una minoranza si gestiranno le risorse, la
produzione e la sua distribuzione in coordinamento con gli altri Gruppi.
Ovviamente tali Gruppi saranno uniti in una rete globale, dove il problema
delle risorse, della produzione e della distribuzione sociale sarà armonizzato
secondo le singolarità e esigenze locali, ma anche tenendo conto
dell’equilibrio globale. I mezzi di comunicazione ora utilizzati per tenere il
popolo bue al suo posto, con panem et circenses, saranno sfruttati per la
gestione globale del prodotto sociale. Le diversità culturali, usi e costumi,
non saranno più associate al concetto di patria e di nazione sovrana, non ci
sarà più l’esigenza di avere confini, ma tali diversità saranno fonte di
ricchezza intellettuale e spirituale. Il turismo, per esempio, continuerà a
esistere, ma gli sforzi andranno verso la libera distribuzione della conoscenza
nel rispetto dell’ambiente. Non più orde di turisti trattati come mandrie per
mungerli fino all’ultimo penny. L’educazione, intesa come istruzione, e la
ricerca saranno attività cruciali per questo nuovo tipo di società. In quanto
l’educazione dell’individuo nel rispetto delle regole sociali sarà necessaria
per il buon funzionamento del sistema sociale e il miglioramento del razionale
uso delle risorse nel processo di produzione, e l’equa distribuzione sarà il
cardine della nuovo sistema socialista.