sabato 27 settembre 2014

Il capitale nel XXI secolo

Recensione del saggio “Capital in the Twenty-First Century” di Thomas Piketty (Harvard University Press, 700 pagine, 2014)

Il capitalismo è basato sul possesso e il controllo dei mezzi di produzione della ricchezza da parte di una minoranza. Ciò può prendere varie forme, ma, storicamente, la più usuale (che potremmo chiamare la forma classica) si è realizzata mediante titoli di proprietà privata conferiti a singoli individui e fatti osservare dai tribunali e, in generale, dallo stato. Un’altra forma è consistita nel controllo dello stato da parte della minoranza, laddove il possesso della gran parte dei mezzi di produzione era riservata allo stato, come nella vecchia URSS.
 
Dove il possesso avviene attraverso diritti di proprietà privata, il possesso da parte della minoranza può esser esplicitato a partire dal grado di concentrazione di tali titoli di proprietà. Ciò può essere ottenuto analizzando le tasse di successione, i testamenti e perfino i sondaggi domestici. I risultati di tutti i paesi mostrano una distribuzione molto diseguale della ricchezza tra la popolazione. Il possesso dei mezzi di produzione della ricchezza da parte della minoranza si riflette anche sulla diseguale distribuzione del reddito, dovuta all’enorme reddito da proprietà (e non da lavoro) dei maggiori possessori immobiliari.
 
In questo libro molto discusso, l’economista francese Thomas Piketty ha messo insieme i dati sulla distribuzione della ricchezza e del reddito nell’arco di due secoli, principalmente per la Francia, la Gran Bretagna e gli USA, ma anche per altri paesi europei e per alcuni in Asia e in America del Sud. L’autore avanza una legge economica: la distribuzione della ricchezza tende a divenire tanto più diseguale, ovvero il 10% più ricco della popolazione va a possedere in proporzione sempre di più, quanto maggiore è la differenza tra ciò che egli chiama il “tasso di remunerazione del capitale” (r) e il tasso di crescita (g).

Che cos’è il capitale (e il capitalismo)?

Benché Piketty esponga due “leggi fondamentali del capitalismo”, non definisce mai cosa intenda con questo termine. Però definisce cosa intende per “capitale”:
 
«In questo libro, il capitale è definito come la somma di tutti i cespiti (asset in inglese) non umani che possono essere posseduti e scambiati su qualche mercato. Il capitale comprende tutte le forme di proprietà immobiliare (inclusa quella residenziale) come pure il capitale finanziario e quello professionale (impianti, infrastrutture, macchinari, brevetti e così via) usati dalle imprese e dalle agenzie governative.» (pag. 46).
 
Questa non è né la definizione dell’economia convenzionale, né quella dell’economia marxiana, poiché include sia la terra che le case occupate dai rispettivi proprietari. Così il suo “tasso di remunerazione del capitale” non coincide con il tasso di profitto, che è il rapporto tra il profitto ottenuto e la ricchezza investita nella produzione in vista di questo profitto. Lo stesso Piketty lo riconosce:
 
«… il tasso di remunerazione del capitale misura la resa del capitale per ogni singolo anno, senza considerarne la forma legale (profitti, rendite, dividendi, interessi, royalty, guadagni da capitale ecc.), espressa come percentuale del valore del capitale investito. È quindi un concetto più vasto del “tasso di profitto” e molto più vasto del “tasso d’interesse”, benché li includa entrambi.» (pag. 52).
 
È in realtà minore del tasso di profitto il quale di norma è ben più alto del 4-6% che Piketty calcola come l’intervallo tipico del suo tasso di remunerazione.
    
C’è un’altra particolarità del suo “tasso di remunerazione del capitale”: in alcuni dei suoi grafici egli lo applica anche ai periodi precapitalistici, cosicché questa grandezza finisce per indicare ogni remunerazione, in qualsiasi forma, che i detentori di proprietà ottengono in virtù del possesso di tali proprietà, comprese le corvè dei signori feudali o le attività servili dei padroni di schiavi nella Grecia e nella Roma antiche, e non solo i redditi finanziari derivanti dalla ricchezza commerciabile come avviene nel capitalismo.
 
Questo significa che l’affermazione che egli fa a un certo punto, ovvero che r > g sia la «contraddizione strutturale fondamentale del capitalismo» (pag. 572) non può esser sostenuta. Non è neppure una contraddizione, ma sarebbe piuttosto un tipo di misura dello sfruttamento dei produttori in tutte le società basate sulla proprietà privata, sia che tale proprietà o il reddito a essa connessi siano commerciabili o meno.
    
Piketty non fornisce una spiegazione su come e perché ci dovrebbe essere una “remunerazione” del capitale, ma semplicemente considera la sua esistenza come ovvia. Non c’è la comprensione che questa remunerazione emerge solo in società fondate sulla proprietà privata e che equivale a una tassa estorta ai produttori (nel capitalismo, ai lavoratori salariati e stipendiati) da parte di coloro che monopolizzano i mezzi di produzione.
    
La stessa cosa accade con il termine “crescita”, che egli definisce come l’aumento annuo del reddito nazionale più l’aumento della popolazione. Semplicemente accetta che ciò avvenga dato che la produttività e la popolazione aumentano. Non c’è la comprensione che ciò che guida il sistema capitalistico è l’imperativo economico, imposto dalla concorrenza tra gli individui e le aziende che investono nella produzione, di massimizzare i loro profitti e di accumularli come capitale sempre crescente. Ciò nonostante la sua critica al capitalismo, per come lo intende, è assai graffiante.

Gradi di disuguaglianza

Il 10° capitolo che tratta della “Disuguaglianza del Possesso di Capitale” contiene alcune tabelle che mostrano come in Francia il 10% più ricco possieda attualmente poco meno del 60% di tutta la ricchezza e l’1% più ricco quasi il 25% di essa. Le cifre per la Gran Bretagna sono 70% e  29%; per gli USA 70% e 32% e per la Svezia (che si dice sia il paese più egualitario al mondo) 59% e 20%.
 
Le tabelle mostrano anche, in forma di grafici, l’evoluzione della disuguaglianza del possesso della ricchezza nel corso di duecento anni, dal 1810 al 2010. Il grado più alto di disuguaglianza si raggiunse nel 1910 quando il 10% più ricco in Francia possedeva l’89% e l’1% più ricco possedeva il 60%; in Gran Bretagna erano il 90% e il 60%. A quei tempi negli USA c’era meno diseguaglianza che in Europa, con l’80% e il 45%.
 
Le tabelle confermano l’idea socialista che la base della società attuale sia il possesso dei mezzi di produzione della ricchezza da parte di una minoranza. Ma mostrano anche che il grado di disuguaglianza è a volte diminuito e a volte aumentato durante questo periodo di duecento anni. Questo fatto necessita di spiegazioni. Piketty ne fornisce due.
 
La prima è una tendenza secolare a lungo termine, che l’autore chiama “emergenza della classe media patrimoniale”, mediante cui egli reputa che la quota della ricchezza totale posseduta dal 40% mediamente ricco (ossia da coloro che sono situati a metà tra il 10% più ricco e il 50% più povero) sia cresciuta a partire dal 1910. Questa categoria statistica è andata ad acquisire abbastanza ricchezza da possedere, nel complesso, tra un quarto e un terzo della ricchezza totale. Ciò ha prodotto il risultato statistico di ridurre la quota relativa del 10% più ricco, ma non è stato a loro discapito, non ha influenzato e non ha ridotto la quantità di ricchezza del gruppo più abbiente, la cui ricchezza ha continuato a crescere in termini assoluti.
 
Si dovrebbe notare (ma Piketty non lo fa) che una larga parte della ricchezza di questo 40% intermedio ha la forma delle abitazioni in cui essi vivono e che hanno pagato, ma che non sono capitale nel senso di un cespite che effettivamente produca un reddito. Questo significa che le cifre delle tabelle sottostimano il grado di concentrazione dell’insieme dei cespiti che effettivamente producono un reddito da proprietà.
 
Piketty nota che questo spostamento non ha influenzato la frazione della «metà più povera della popolazione, la cui quota di ricchezza totale è sempre stata minuscola (in genere intorno al 5%), perfino in Svezia (dove non ha mai superato il 10%).» (pag. 347).

L’eccezione e non la regola

La seconda spiegazione che Piketty offre sul perché la quota del 10% più ricco sia scesa nel periodo 1920-1970 sviluppa la sua teoria che maggiore è la distanza tra r e g e più forte è la tendenza verso una elevata disuguaglianza. La sua spiegazione è che in questo periodo il tasso di remunerazione è stato ridotto dalla distruzione di ricchezza avvenuta durante le due guerre mondiali e dalla svalutazione, mediante inflazione, del capitale investito in buoni del tesoro governativi. Contemporaneamente il tasso di crescita crebbe per via dei lavori di ricostruzione. Il risultato fu una riduzione della disuguaglianza aldilà di quella causata dall’aumento della quota del 40% mediamente ricco.
 
Questa spiegazione rende questo periodo, quando la porzione di reddito da capitale nel reddito nazionale e la quota del 10% più abbiente nella ricchezza nazionale diminuirono entrambe (in altre parole, quando i più ricchi furono leggermente “spremuti” ma non tanto da arrecar loro danno), un’eccezione al normale funzionamento del capitalismo.
 
La tendenza normale o “naturale”, come la chiama lui, è, per Piketty, che i ricchi diventino in proporzione più ricchi. In effetti egli sostiene che il tasso di disuguaglianza tenderà ad aumentare nel corso del 21° secolo sulla base del fatto che la crescita economica sarà probabilmente più lenta, mentre il tasso di remunerazione presumibilmente rimarrà costante, cosicché il divario tra i due si amplierà. L’autore vede questo come un pericolo per la democrazia e per le garanzie dei lavoratori (che lui chiama “stato sociale”). Come un riformista socialdemocratico di vecchio stampo (Piketty è infatti un sostenitore del cosiddetto “Partito Socialista Francese”) vuole fermare e invertire questa tendenza e probabilmente ha scritto questo libro per costruire un sostegno alle misure finalizzate a ottenere questo obiettivo.
 
Il guaio, dal suo punto di vista, è che la sua teoria, se valida, fornisce un potente argomento contro le possibilità di riuscita di questa campagna riformista. Significa che i riformisti in questo campo si sono dati il compito non solo di ridurre la disuguaglianza nel possesso della ricchezza, ma anche di vincere le forze economiche che spingono nella direzione opposta.
 
Che il capitalismo fondato sulla proprietà privata legale abbia la tendenza a far sì che i ricchi diventino sempre più ricchi in termini assoluti, è una conseguenza dell’accumulazione del capitale (nel senso che la ricchezza è usata per produrre altra ricchezza in vista del profitto). Dove ci sono diritti di proprietà privata sui mezzi di produzione, il reddito che questi mezzi “producono” quando sono usati come capitale va ai possessori e la parte che è reinvestita (accumulata) si aggiunge alla loro ricchezza, ossia questi possessori diventano più ricchi. Questa è una tendenza che i riformisti troveranno a lottare contro di loro, a prescindere dal fatto che Piketty abbia o meno ragione circa l’esistenza di un’altra tendenza secondo cui i ricchi diventano più ricchi relativamente al resto della popolazione.
 
Le misure che l’autore propone nella Parte IV per impedire ai ricchi di divenire più ricchi sono incredibilmente deboli: tasse più alte sui redditi elevati (sui “superstipendi” dei “superdirigenti” e anche sui redditi da investimento dei ricchi) e una tassa patrimoniale. Riconosce che probabilmente nessun paese adotterà queste misure per paura, nel contesto di un capitalismo globalizzato, di venir tagliato fuori dagli investimenti e così propone una “tassa patrimoniale globale”. Che è ancora più improbabile.
 
Ad ogni modo, non è una distribuzione meno diseguale della ricchezza e dei redditi che aiuterà a risolvere i problemi che la classe dei salariati e degli stipendiati (e di quelli a loro carico) affronta sotto il capitalismo. Si tratterà piuttosto di espropriare la minoranza che monopolizza i mezzi di produzione e di far sì che questi vengano gestiti in comune affinché possano essere usati per ottenere quello di cui la gente ha bisogno e non merci in vendita in vista di un profitto per i possessori di tali mezzi di produzione, come avviene oggi.

ADAM BUICK
 
tratto da “Socialist Standard”  pp. 16-17 , n. 1321, vol. 110, Settembre 2014.


 

martedì 26 agosto 2014

Cosa c'è di male nell'usare il parlamento?

Il Movimento Socialista Mondiale (MSM) v’invita a leggere la traduzione italiana dell’opuscolo redatto dal Socialist Party of Great Britain (SPGB) e intitolato ”What’s wrong with using the Parliament?”. La questione dell’utilizzo del Parlamento è cruciale per il nostro movimento in quanto, non solo ci distingue dagli altri movimenti marxisti, ma è un nostro principio cardine che ha suscitato, suscita e susciterà implacabili discussioni. A causa, ma noi diremo grazie, a questo principio, diversi marxisti e anarchici, anche se vicini alle posizioni antileniniste del MSM, declinano la loro adesione al nostro movimento poiché sono dell’idea che il Parlamento resti sempre uno strumento di dominazione borghese non utilizzabile per la causa socialista. La traduzione che presentiamo qui si pone proprio lo scopo di controbattere questa, come anche altre critiche rivolteci.
In più la frazione Italiana del MSM coglie quest’occasione per approfondire alcuni punti non (o poco) trattati nell’opuscolo in inglese. Abbiamo a questo proposito condotto una piccola intervista ad Adam Buick, co-autore del lavoro originale, della quale riportiamo la traduzione. Si consiglia comunque la lettura della traduzione dell’intero opuscolo prima di quella dell’approfondimento che riportiamo qui sotto.


Approfondimento

Redazione: Cosa ne pensi di questi movimenti emergenti che usano internet per diffondere e praticare la democrazia diretta? Sono tutti, in un modo o nell’altro, riformisti. Ad ogni modo l’uso di internet può essere uno strumento efficace per l’organizzazione della futura società socialista. Pensi che questo tipo di democrazia diretta possa scavalcare l’attuale sistema politico basato sulle elezioni? 
 
Adam: Sono certo che alcune forme di democrazia diretta per via elettronica avranno il loro spazio nella struttura democratica della futura società socialista, ma non penso che la democrazia diretta sia il miglior modo di prendere le decisioni. Questi strumenti vanno bene per decisioni su questioni di principio che richiedono un sì o un no come risposta, ma molte questioni sono molto più complesse con vari tipi di alternative o soluzioni di compromesso. Ecco perché una democrazia per delega, dove c’è un Consiglio o un Comitato eletto che prende le decisioni, è più appropriata nei casi complessi che saranno, a parer mio, la maggior parte delle situazioni. Certo è che coloro i quali verranno eletti nei Consigli o nei Comitati dovranno rendere conto ai loro elettori e saranno soggetti ad ogni tipo di controllo e di verifica.
 
Redazione: Nel leggere quest’articolo un lettore potrebbe pensare che i movimenti leninisti, così come alcuni di quelli anarchici, agirebbero contro una rivoluzione socialista una volta che questa si presenti, essendo questi movimenti così occupati a farsi la guerra tra loro. È questo ciò che s’intendeva nell’articolo? Se sì, dovrebbe essere questa la motivazione principale per abbandonare tali movimenti e unirsi al nostro?   
 
Adam: Non sono sicuro che quando il movimento socialista prenderà forma come movimento di massa ci saranno molti leninisti o anarchici in giro. Penserei invece che molti di loro faranno parte di un movimento più grande, forse discutendo le loro posizioni assieme a tutti gli altri.
 
Redazione: È abbastanza chiaro dall’opuscolo che senza la maggioranza della gente che voti per l’autentico partito socialista attraverso mezzi democratici, il socialismo non potrà essere instaurato. Tuttavia il capitalismo è nazionalista e promuove le nazioni (come entità). Cosa succederebbe quindi se la maggioranza si raggiungesse solo in una o in poche nazioni? Come potrebbe prendere tempo il partito socialista senza cadere della trappola del riformismo? 
 
Adam: Questa domanda è stata fatta molte altre volte e una risposta si può trovare nel nostro vecchio opuscolo “la domanda del giorno”:

(http://www.worldsocialism.org/spgb/pamphlets/questions-day#soc_less_dev):

“Ai socialisti viene spesso chiesto di un altro aspetto dello sviluppo diseguale. Questo si rifà alla possibilità che un movimento socialista possa essere più sviluppato in un paese che in un altro e in grado di poter prendere il controllo del sistema di governo prima che lo siano analoghi movimenti socialisti in altre parti del mondo.
Tralasciando per il momento la questione se tale situazione sia realistica o meno, possiamo già dire che non presenta problemi quando è vista nella cornice del carattere mondiale del movimento socialista. Giacché i governi capitalisti sono organizzati su base territoriale, ogni organizzazione socialista ha il compito di guadagnare democraticamente il controllo nel paese dove opera. Questo però avviene meramente per convenienza organizzativa: c’è un solo movimento socialista, del quale le diverse organizzazioni socialiste sono parti integranti. Quando il movimento socialista crescerà ulteriormente, i suoi attivisti saranno completamente coordinati dall’organizzazione mondiale. Se si considera la situazione in cui i socialisti organizzati di una sola parte del mondo siano nella posizione di prendere il controllo del sistema di potere governativo, la decisione sulle azioni da compiere sarà presa unanimemente dal movimento socialista mondiale alla luce di tutte le circostanze del caso.

Rimane il caso se, in effetti, ci saranno differenze materiali nel ritmo di crescita delle varie sezioni del movimento socialista. Al momento, nei paesi capitalisti avanzati, la vasta maggioranza, poiché non è socialista, condivide alcune idee base su come la società può e dovrebbe essere governata. Tale massa accetta che i beni siano prodotti per la loro vendita al fine di accumulare profitto, che alcuni debbano lavorare per uno stipendio mentre altri debbano essere i padroni; che ci siano forze armate e confini; che non si possa fare a meno dei soldi e della compravendita. Queste idee sono condivise dalla gente in tutto il mondo e su questo si basa la stabilità del capitalismo nella nostra epoca.

Engels sottolineò che un periodo rivoluzionario esiste quando la gente comincia a rendersi conto che quello che pensava fosse impossibile, può in effetti essere realizzato. Quando la gente capirà che è possibile avere un mondo senza confini, senza salari e profitti, senza padroni e forze armate, allora la rivoluzione socialista non sarà molto lontana. Ma questo progresso nella conoscenza politica sarà raggiunto dalle stesse persone che ora pensano che il capitalismo sia l’unico sistema possibile. Poiché i lavoratori di tutto il mondo vivono in condizioni simili e, grazie anche ai moderni sistemi di comunicazione, quando questi incominceranno a vedere oltre il capitalismo, questo avverrà ovunque. Non c’è ragione alcuna di pensare che solo i lavoratori di un paese vedano questo, mentre quelli degli altri paesi no.
L’idea vera e propria di socialismo, ossia di una nuova società, è chiaramente e inequivocabilmente un rifiuto di tutti i nazionalismi. Quelli che diventeranno socialisti si renderanno conto di questo e anche dell’importanza di unirsi ai lavoratori di tutti i paesi. L’idea socialista è tale che non si può diffondere in modo non uniforme.
Quindi i partiti socialisti saranno nella posizione di prendere il controllo politico nei paesi industrialmente avanzati in intervalli di tempo piuttosto ravvicinati. È concepibile che in alcuni paesi meno sviluppati economicamente, dove la classe lavoratrice è meno numerosa, i pochi capitalisti privilegiati possano essere in grado di conservare la loro posizione di classe un po’ più a lungo. Ma non appena i lavoratori avranno vinto nei paesi avanzati, daranno tutto l’aiuto possibile ai loro compagni negli altri paesi.”

 

Per concludere, cogliamo l’occasione per ringraziare Adam Buick e per sottolineare l’importanza della divulgazione delle idee socialiste in tutte le lingue, che non deve conoscere confini o barriere di sorta.

Lavoratori, disoccupati, studenti e pensionati di tutto il mondo, unitevi! Un mondo diverso e migliore è possibile, incominciate a immaginarlo!

sabato 14 giugno 2014

Il fenomeno mafioso

La mafia è una espressione del potere che si è adattata stupendamente al sistema capitalista mettendone in discussione la morale ed evidenziando la spietatezza delle logiche di profitto.
Qui in allegato espongo un'analisi di questo fenomeno dal punto di vista maxista. In ultima analisi si può constatare come se nel sistema pre-capitalista la mafia fosse legata a realtà locali con lo stabilirsi del capitalismo la mafia diventa impresa e si mescola con il lobbismo borghese. Per questo motivo oggi la mafia non è più quella degli uomini d'onore, campieri e strozzini ma parla la stessa lingua imprenditoriale della borghesia "onesta". Buona lettura.

sabato 7 giugno 2014

Che cosa intendiamo per “rivoluzione”?

Qualsiasi cosa si possa pensare del conduttore radiofonico Russell Brand, almeno ha reintrodotto la parola ‘rivoluzione’ nel vocabolario politico. Ma che cos’è una ‘rivoluzione’?

Una buona definizione del termine “rivoluzione” è stata data dal socialista britannico del periodo vittoriano William Morris in una conferenza del 1884, pubblicata successivamente in forma di opuscolo con il titolo “Come viviamo e come potremmo vivere”. Morris scrive:
«La parola Rivoluzione, che noi Socialisti siamo così spesso obbligati a usare, ha un suono terribile agli orecchi di molta gente, anche se abbiamo spiegato loro che non necessariamente significa un cambiamento accompagnato da rivolte e da ogni sorta di violenze, e che non può significare un mutamento fatto meccanicamente, a dispetto dell’opinione pubblica, da un gruppo di uomini che sono riusciti in qualche modo a prendere momentaneamente il potere esecutivo. Anche se spieghiamo che usiamo la parola “rivoluzione” nel suo senso etimologico e che intendiamo con essa un cambio delle basi della società, la gente ha paura dell’idea di un cambio così vasto e implora che si parli di riforme piuttosto che di rivoluzione».
Una rivoluzione, allora, è “un cambio delle basi della società”, accompagnato o no dalla violenza (in effetti Morris pensava che ci sarebbe stata), un cambio che deve essere piuttosto rapido implicando una netta rottura con la società esistente. Il mutamento delle basi della società che i socialisti prospettano, è un mutamento di ciò che esiste oggi, dove la società è basata sulla proprietà e sul controllo dei mezzi di produzione della ricchezza (tramite cui la società stessa sopravvive) da parte di una esigua minoranza di individui abbienti, di società per azioni e di stati. Vogliamo passare da questa situazione a una dove i mezzi di produzione sono divenuti la comune eredità di tutti, per esser usati, sotto controllo democratico, per il beneficio di tutti. Un cambiamento da una società classista a una società senza classi. Un cambiamento dal capitalismo al socialismo.