Tra
il 25 e il 30 settembre del 1920, esattamente un secolo fa, terminava il
cosiddetto movimento di “Occupazione delle Fabbriche”, con gli
operai che sgomberavano pacificamente gli stabilimenti riconsegnandoli agli
industriali. Quasi contemporaneamente, il 2 ottobre, quando l'occupazione era
da poco conclusa, il settimanale socialista torinese L’Ordine
Nuovo pubblicava un
editoriale [1] in cui, oltre ad ammettere la sconfitta dei lavoratori
industriali, si accusavano i dirigenti sindacali e i burocrati di partito di
esserne i responsabili. Finiva la cronaca ed iniziava già il mito, quello della
mancata
rivoluzione socialista in Italia. Una leggenda ancora largamente diffusa nella
sinistra “radicale” italiana: dai leninisti agli anarchici, dai trotzkisti [2]
ai bordighisti, dagli “operaisti” fino, addirittura, ad alcune frange più intransigenti
della socialdemocrazia. Più in generale, tutto il periodo degli anni 1919 e
1920, noto in Italia con il nome pittoresco di “Biennio Rosso”, verrà visto da
molti come un susseguirsi di possibili occasioni pre-rivoluzionarie nelle quali
i lavoratori, potenzialmente e obiettivamente in grado di conquistare il potere
politico ed economico, furono sistematicamente illusi e ingannati dai loro
dirigenti partitici e/o sindacali. Traditi dai socialisti del PSI secondo gli
anarchici, traditi dalla potente minoranza riformista della Confederazione Generale del Lavoro
(CGdL) secondo i socialisti massimalisti, traditi sia, direttamente, dai riformisti
sia, indirettamente, dai massimalisti secondo la cosiddetta “frazione
astensionista” del PSI, che avrebbe di lì a poco formato il Partito Comunista d’Italia (PCdI) sotto
la pressione della potente componente bolscevica russa del Komintern (Internazionale Comunista).
Personalmente non siamo affatto d’accordo con questo
ridicolo scaricabarile. La nostra tesi è radicalmente diversa: nel Biennio
Rosso non sarebbe stata possibile alcuna rivoluzione socialista in Italia e nel
resto dell’articolo cercheremo di spiegarne chiaramente le ragioni. Tuttavia, prima
di cominciare, è necessaria una brevissima ma cruciale precisazione: anche se
alcune delle nostre analisi di questo fenomeno storico sembreranno
esteriormente simili a quelle apparse in quegli anni sulle colonne della
rivista teorica riformista del PSI, la Critica
Sociale di Filippo Turati, noi non siamo assolutamente dei riformisti.
Anzi, all’opposto, pensiamo che il sistema capitalista non possa esser
trasformato gradualmente nel suo successore storico, il Socialismo. In questo
senso, pur riconoscendo che su alcuni singoli punti (la critica alla Rivoluzione
d’Ottobre, il rifiuto dei moti insurrezionali violenti ecc. [3]) Turati e i
suoi compagni interpretarono l’insegnamento di Marx ed Engels meglio dei loro
avversari massimalisti e leninisti, non ne possiamo in alcun modo condividere
scelta strategica di fondo: faticosi progetti parlamentari di leggi per la
riforma sociale, lenta conquista politica dei comuni urbani con la conseguente
creazione di cooperative e di aziende municipalizzate ecc., fino all’illusione
finale di potersi alleare nel 1924 con la parte più “democratica” della
borghesia in vista di un ipotetico fronte antifascista che salvasse il paese
dalla dittatura mussoliniana. Come sono lontani i tempi (26 gennaio 1894) in
cui Friedrich Engels in persona istruiva [4] il giovane avvocato Turati sui
gravissimi rischi di un governo di coalizione tra partiti socialisti e forze
politiche borghesi! Ma questa è proprio la parabola storica (1892-1925) del “primo
riformismo italiano” che meriterebbe un approfondimento a parte e che esula,
ovviamente, dal tema del presente articolo.
L’Italia
nel 1911
Come
spiegano chiaramente Marx ed Engels in molti passi della loro opera
storico-politica [5], il Socialismo potrà essere raggiunto soltanto in seguito
al completo sviluppo del capitalismo su scala planetaria, ossia quando
quest’ultimo avrà poco o nulla da offrire all’umanità in termini di progresso
materiale, morale e intellettuale. Questo non per un’astratta filosofia della
Storia, ma, concretamente, per almeno due ragioni principali: solo lo sviluppo
capitalistico crea la base materiale altamente tecnologica (le “forze
produttive”, secondo il marxismo) per la realizzazione del Socialismo, che,
come sappiamo, è una società dove i bisogni umani saranno soddisfatti in modo
totalmente gratuito e il lavoro sarà del tutto libero. Inoltre, sempre per Marx
ed Engels, la classe sociale artefice di questa grande trasformazione sarà
quella dei lavoratori salariati i quali, però, divengono la larga maggioranza
della popolazione esclusivamente nel quadro di un capitalismo maturo. Oggigiorno
questa situazione è davvero sotto gli occhi di tutti e soltanto le perduranti
sovrastrutture ideologiche impediscono alla maggioranza dei lavoratori di tutto
il mondo di prenderne coscienza. Ma com’era il capitalismo cento anni fa,
all’inizio del secolo scorso?
La
cosiddetta “seconda rivoluzione industriale”, guidata dal tumultuoso sviluppo
economico di Stati Uniti d’America e Germania, unitamente alla corsa alla
colonizzazione imperialista sancita dal congresso di Berlino (1878), avevano
dato luogo, per la prima volta nella intera storia umana, a un sistema
economico integrato su scala mondiale caratterizzato da un economia capitalista
altamente “finanziarizzata” e costellata da grossi gruppi industriali
oligopolistici. Alcuni storici dell’economia hanno coniato per questa fase il
termine di “prima globalizzazione” (dato che la seconda è quella odierna). Per
questo motivo una grossa parte dei marxisti del periodo 1889-1914, la
cosiddetta “età della Seconda Internazionale”, riteneva la rivoluzione
socialista oggettivamente e soggettivamente già possibile, se non addirittura
imminente [6]. È importante capire però che il fatto, certamente vero,
dell’espansione del capitalismo su scala mondiale non implicava che nel 1914
tutti i paesi presentassero simultaneamente lo stesso grado di maturità
capitalista. Crederlo sarebbe un errore grossolano e anti-dialettico molto
pericoloso, noto in logica come la “fallacia di composizione” (se un insieme
gode di una certa proprietà, non necessariamente tutti i suoi elementi godono
individualmente della stessa proprietà). All’opposto, persino in Europa, che
era stata la culla della “prima rivoluzione industriale” (in Gran Bretagna
prima e poi anche in Belgio e Francia), coesistevano situazioni molto varie: il
feudalesimo era ormai scomparso ovunque, persino nell’arretratissima Russia (nel
1861), ma il modo di produzione capitalista non aveva ancora portato
all’industrializzazione completa di tutto il continente. Nelle aree dell’Europa
Meridionale (Portogallo, Spagna, Italia e Balcani) ed Orientale (la metà
ungherese dell’Impero Asburgico e l’Impero Russo) l’economia era ancora
dominata dall’agricoltura anche se alcune isole d’industrializzazione avevano iniziato
a crescere velocemente alla fine del XIX secolo grazie alla sinergia tra
capitali nazionali e investimenti stranieri; per esempio la Catalogna e i Paesi
Baschi in Spagna, il triangolo industriale Torino-Milano-Genova in Italia, i
distretti di San Pietroburgo e di Mosca in Russia ecc. In aggiunta va ricordato
che anche il mondo rurale europeo non presentava agli inizi del XX secolo
caratteristiche omogenee: in taluni paesi (o, meglio, in talune zone di
determinati paesi) dominava la grande proprietà fondiaria gestita in modo
capitalistico moderno, altrove la piccola e media proprietà contadina, mentre
continuava a sussistere persino il latifondo (in Russia, Polonia, Ungheria, Italia
Meridionale, Spagna Centrale e Meridionale), un arcaico residuo di strutture
produttive legate all’antica nobiltà terriera.
Basterebbe
quanto appena citato per comprendere l’improbabilità di una rivoluzione
socialista nell’Italia dell’inizio del XX secolo, ma sarà forse utile fornire
qualche cifra relativa agli anni precedenti all’entrata in guerra dell’Italia
nel 1915. Fortunatamente nel 1911 vi è un importante censimento ufficiale che registra
35.841.563 residenti di cui, secondo Montroni
[7], solo il 31,3% vive in contesti urbani. Gli attivi arrivano appena al 47,7%
dei residenti. Crafts [8] stima per il 1910 un prodotto interno lordo pro-capite
di 548$ (in dollari USA equivalenti del 1970), da confrontarsi con i valori di 1.302$,
958$ e 883$, rispettivamente per Gran Bretagna, Germania e Francia, rivelando
così la palpabile arretratezza della struttura economica italiana, appena
superiore a quella russa (398$). Ma forse più interessante ancora sono i due
dati riportati da Federico [9]: sempre nel 1911 l’agricoltura pesa ancora sull'economia
italiana per circa il 38-40% in termini di prodotto nazionale lordo
e per circa il 58-59% in termini di occupazione totale. Degli occupati rurali, Pescosolido
[10] afferma poi che il 52,8% non possiede la terra dove lavora e va
considerato, almeno parzialmente, come bracciantato “avventizio”, vero e
proprio proletariato agricolo, la parte più povera del paese, largamente
analfabeta e certamente più interessata a una possibile riforma agraria che al
Socialismo (ciò nonostante la vedremo lottare con particolare determinazione
durante tutto il Biennio Rosso). L’industria occupa invece il 23,7% degli
attivi e contribuisce per il 25,1% alla produzione lorda nazionale. I servizi occupano
infine il 17,9% degli attivi e contribuiscono per il 22,3% alla produzione
lorda nazionale di cui più della metà passa attraverso la Pubblica
Amministrazione. Combinando insieme le varie cifre citate siamo in grado di
fornire (con l’aiuto, per esempio, del noto saggio di Sylos Labini [11]) una
stima approssimativa della percentuale dei lavoratori salariati italiani sul
totale degli attivi: circa il 49%, così suddivisi tra agricoltura (26% degli
attivi), industria (17% degli attivi) e servizi (6% degli attivi), escludendo
però il ceto impiegatizio (privato e pubblico) assimilato da Sylos Labini, in
modo discutibile, alla piccola borghesia, ma pari nel 1911 già all’11% degli
occupati. Anche accostando, un po’ acriticamente, i braccianti e gli operai
industriali e dei servizi con gli impiegati di vario genere, emerge una nazione
in cui i lavoratori dipendenti sono poco più della metà degli attivi (circa il
60%), mentre l’altra parte, formata da coltivatori diretti, artigiani,
bottegai, commercianti, liberi professionisti, imprenditori e agrari, è ancora
robustamente attestata intorno al 40%. I lavoratori dipendenti urbani poi,
raggiungono appena il 34%; la grande trasformazione del secondo dopoguerra che
porterà alla quasi scomparsa dei piccoli e medi coltivatori (8% degli attivi
nel 1983) e alla grande espansione del ceto impiegatizio (26% degli attivi nel 1983),
è ancora di là da venire nel periodo che stiamo considerando.
Il
Partito Socialista Italiano
Come
abbiamo appena visto il capitalismo italiano degli inizi del XX secolo, benché
in evidente transizione da un’economia principalmente rurale ad una largamente basata
sull’industria e sui servizi, non è certamente a un livello di sviluppo analogo
a quello della Gran Bretagna, della Francia, della Germania o degli Stati Uniti
d’America, mostrando, un po’ come l’Austria-Ungheria, caratteristiche ibride tra
quelle dei paesi suddetti e quelle delle nazioni europee orientali (i Balcani, l’Impero
Russo ecc.). Ma sarebbe una grave semplificazione limitarsi a un’analisi
puramente numerica e quantitativa della classe lavoratrice italiana di questo
periodo. L’autentico pensiero socialista ha sempre ribadito anche l’importanza
del fattore soggettivo per il raggiungimento del Socialismo; essendo infatti una
società basata sul libero accesso ai consumi e sul lavoro puramente volontario,
esso non ammette, come al contrario avveniva in tutte le realtà classiste
precedenti, una divisione tra capi e gregari, tra chi comanda e chi ubbidisce,
e nemmeno tra chi coordina e organizza e chi invece si limita ad eseguire
quanto gli si chiede compiere. Questa assenza implica immediatamente che i
lavoratori che lottano per il Socialismo devono necessariamente essere
preparati ad esso: le loro concezioni politiche (e di conseguenza anche le loro
azioni pratiche) dovrebbero, almeno in modo embrionale, prefigurare la
consapevolezza e l’alto livello di coscienza necessari per costruire e
conservare la società futura senza classi. Il requisito soggettivo minimo per
la Rivoluzione Socialista è quindi quello per cui un’ampia maggioranza di
lavoratori voglia coscientemente il Socialismo, ovvero: abbia una minima
cultura di base (alfabetizzazione), sappia cosa sia il Socialismo, ne faccia
apertamente propaganda e sia disposta a lottare duramente per averlo, ma senza
seguire in modo servile e pedissequo eventuali avventurieri politici dalla demagogia
populista “socialisteggiante”. Marx ed Engels diffidarono per tutta la loro
vita dei politici troppo carismatici che assumevano volontariamente, forse
persino in buona fede, pose tribunizie o da capi ispirati (Wilhelm Weitling, Luis Blanc, Giuseppe
Mazzini, Ferdinand Lassalle, Henry Hyndman ecc.), apprezzando piuttosto i semplici
militanti operai che si erano auto-istruiti lentamente e faticosamente per
approdare da soli al pensiero socialista, come ad esempio il conciatore-filosofo
Joseph Dietzgen. Marx aveva così ben
chiaro questo punto che nel 1864 volle scrivere alla prima riga degli "Statuti
Provvisori dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori"
(ossia la Prima Internazionale): "Considerando che: (1) l'emancipazione dei lavoratori
sarà opera dei lavoratori medesimi (…)". Purtroppo però la cruenta repressione
della Comune di Parigi nel 1871 (con più di 30.000 morti tra gli insorti) e i
dissidi tattici e organizzativi tra i socialisti marxisti e gli anarchici bakunisti,
portarono prima a una scissione e poi alla liquidazione dell’esperienza
dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, che già nel 1876-1877 poteva
dirsi conclusa.
Il
periodo successivo vide la rinascita del socialismo e di partiti
dichiaratamente “operai” in tutta Europa, prima più lentamente tranne che in
Germania [dove il Partito
Socialdemocratico Tedesco (SPD) era già stato fondato a Gotha nel 1875],
poi, parallelamente alla fondazione della Seconda Internazionale a Parigi nel
1889, in modo sempre più rapido in moltissimi paesi (Spagna 1879, Francia 1882,
Belgio 1885, Austria e Svezia 1889, Italia 1892, Paesi Bassi 1894, USA e Russia
1898, Gran Bretagna 1900 ecc.). Tuttavia, nonostante l’attenta e acuta
supervisione di Friedrich Engels durata fino alla sua morte avvenuta
nell’agosto del 1895, la Seconda Internazionale non fu affatto rigorosa nella
selezione dei partiti membri: il carattere schiettamente classista, il legame
con i sindacati operai, la lotta per l’estensione della democrazia, per il
suffragio universale maschile e per alcune riforme basilari del lavoro (ad
esempio la giornata di otto ore), una generica opposizione al militarismo, al
colonialismo, al clericalismo e all’autoritarismo, potevano esser più che
sufficienti per guadagnarsi in quegli anni la fama di “socialisti”, lasciando
però l’idea stessa di Socialismo con dei contorni volutamente sfumati a un
futuro piuttosto remoto. Al marxismo venne tributato inizialmente il massimo
onore, ma più come quadro teorico generale che come strumento di lotta politica,
poi, con Bernstein e il celebre Revisionismusdebatte
del 1896, alcuni cominciarono a mettere in discussione sempre più apertamente
le previsioni sull’evoluzione capitalista attribuite, in modo un po’ frettoloso,
a Marx ed Engels. C’era in tutta la Seconda Internazionale una voglia di
crescere rapidamente, di edificare partiti di massa influenti sia nel mondo
sindacale che in quello politico, acquistando in modo veloce e sistematico
seggi parlamentari se non, addirittura, intere amministrazioni comunali. Con
l’eccezione del clamoroso affaire
Millerand del 1899, gli unici veri tabù rimasti in piedi furono quelli
della partecipazione a governi di coalizione con partiti “borghesi” e del
sostegno alle guerre imperialiste; ma lo scoppio della Grande Guerra nel 1914
s’incaricherà subito d’infrangere entrambi. Per il resto lo snodo tattico
cruciale sembrava essere solo uno: differenziarsi in tutto e per tutti dagli
anarchici e dagli anarco-sindacalisti, dalla loro stampa rozza e irregolare,
dalla loro predicazione settaria e fanatica, dai loro gesti dimostrativi
plateali che rasentavano (e sovente raggiungevano) il crimine, dalla loro
mancanza di precisione, disciplina e organizzazione, dal loro rifiuto di ogni
compromesso e ogni accordo, anche il più vantaggioso. Era il mito del nuovo
movimento operaio che rimpiazzava il vecchio, del “socialismo scientifico” che,
nell’epoca appunto del positivismo, sostituiva in modo irreversibile quello
“utopico e libertario” [12].
Ma
torniamo allo specifico dell’Italia. Il Partito
Socialista Italiano (PSI), che nasce nel 1892 a Genova (col nome
provvisorio di “Partito dei Lavoratori Italiani”) dalla fusione di varie leghe e movimenti dell’Italia
Settentrionale a vocazione operaista (Croce e Lazzari), filantropica e
“tradunionista” (Bignami e Gnocchi-Viani), riformista (Turati) e persino
ex-anarchica (Costa), è quasi un caso paradigmatico della voluta mescolanza tra
propaganda rivoluzionaria e pratica riformista, tipica, come si è visto, dei
partiti della Seconda Internazionale. Tuttavia, a differenza della SPD tedesca,
che codificò tale duplicità nel congresso di Erfurt [13] con la scelta di due
programmi (quello “minimo”, riformista, e quello “massimo”, rivoluzionario), il
PSI non riuscì a darsi un documento fondante di spessore teorico per ciò che
concerne l’obiettivo politico finale del Socialismo. Si può leggere infatti il
seguente “Programma del 1892”:
“Considerando che nel
presente ordinamento della società umana gli uomini sono costretti a vivere in
due classi: da un lato i lavoratori sfruttati, dall’altro i capitalisti
detentori e monopolizzatori delle ricchezze sociali;
che i salariati d’ambo i
sessi, d’ogni arte e condizione, formano per la loro dipendenza economica il
proletariato, costretto ad uno stato di miseria, d’inferiorità e di
oppressione;
che tutti gli uomini, purché
concorrano secondo le loro forze a creare e a mantenere i benefici della vita
sociale, hanno lo stesso diritto a fruire di codesti benefici, primo dei quali
la sicurezza sociale dell’esistenza;
riconoscendo che gli attuali
organismi economico-sociali, difesi dall’odierno sistema politico,
rappresentano il predominio dei monopolizzatori delle ricchezze sociali e
naturali sulla classe lavoratrice;
che i lavoratori non
potranno conseguire la loro emancipazione se non mercé la socializzazione dei
mezzi di lavoro (terre, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la
gestione sociale della produzione;
ritenuto che tale scopo
finale non può raggiungersi che mediante l’azione del proletariato organizzato
in partito di classe, indipendente da tutti gli altri partiti, esplicantesi
sotto il doppio aspetto:
1° della lotta di mestieri
per i miglioramenti immediati della vita operaia (orari, salari, regolamenti di
fabbrica, ecc.) lotta devoluta alle Camere del Lavoro ed alle altre
Associazioni di arti e mestieri;
2° di una lotta più ampia e
intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni
pubbliche, ecc.) per trasformarli, da strumento che oggi sono di oppressione e
di sfruttamento, in uno strumento per l’espropriazione economica e politica
della classe dominante;
i lavoratori italiani, che
si propongono la emancipazione della propria classe, deliberano:
di costituirsi in Partito,
informato ai principi suesposti e retto dal seguente ‘Statuto, Costituzione del
Partito’ (…)” ;
notando
che, a fianco di una corretta visione classista della società (invero un po’
semplificata), compare principalmente una forte denuncia morale delle enormi disuguaglianze
tra proletari e capitalisti, nonché della inclinazione delle istituzioni
statali a proteggere e conservare tali disuguaglianze. Per quello che concerne
il Socialismo il livello programmatico è davvero embrionale (vedi le nostre
sottolineature del testo): vi è una versione estremamente edulcorata della nota
idea comunista “da ciascuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo i
suoi bisogni”, unita a una vaga promessa di “socializzazione” dei mezzi di
produzione e di “gestione sociale della produzione” (senza spiegazione alcuna
dei termini). Ma diamo pure per valida, pur con mille dubbi e perplessità, la
descrizione programmatica del Socialismo contenuta nel programma di fondazione
del PSI e ammettiamo per un attimo dunque che tutti i militanti del PSI
volessero coscientemente il Socialismo. Parliamo comunque di un partito che dal
1897 al 1909 passa da 27.281 a 31.960 iscritti, per raggiungerne gli 81.463 nel
1919, subito dopo la Grande Guerra, fino a toccare il tetto massimo di 216.327
iscritti nel 1921 come reazione alla scissione comunista [14]. Nel periodo
dell’Occupazione delle Fabbriche (autunno del 1920) possiamo quindi
realisticamente stimare una militanza di circa 150.000 iscritti; certo ancora poca
cosa (il 3,8%!) rispetto ai circa 3,9 milioni di lavoratori industriali e dei
servizi menzionati nel paragrafo precedente (volendo escludere quindi
braccianti e impiegati). Ma da questa modesta capacità di reclutamento dei
militanti sarebbe sbagliato dedurre una scarsa importanza del PSI nella società
italiana. Al contrario, la sua influenza diventa progressivamente sempre più
forte anche se sembra quella di un partito per “la promozione e il riscatto dei
lavoratori” più che per il Socialismo. Una realtà essenzialmente “laburista” e
riformista in cui i tre canali tipici dei partiti della Seconda Internazionale
sono sfruttati a pieno: competizione elettorale, carta stampata e azione
sindacale. Nel primo la crescita del consenso è davvero notevole: dal 2,95% dei
voti nel 1897 al 17,62% nel 1913, fino al 32,28% nel 1919 (pari a 1.834.792
voti) e al 24,69% (pari a 1.628.753 voti)
nel
1921 [14], anche se questa espansione deve tener conto delle due riforme
elettorali (del 1912 e del 1918) che introducono gradualmente il suffragio
universale maschile, la prima ai maggiori di 30 anni, la seconda ai maggiori di
21 anni. Per quello che concerne la stampa, ricordiamo qualche numero circa le
vendite dell’organo del partito, il celebre Avanti!:
fondato nel 1896 dal liberal-socialista Leonida Bissolati, fu l’unico delle
quaranta e più pubblicazioni del PSI a raggiungere una tiratura su scala
davvero nazionale: partendo da soli 3.000 abbonati nel primo anno di vita, l'Avanti! salì a 30-45.000 copie nel 1913 e a
60-75.000 copie nei primi mesi del 1914
[15]. Come terzo fattore è rilevante citare la crescita della summenzionata
CGdL, l’importante centrale sindacale socialista fondata, su impulso del
riformista Rinaldo Rigola, nel 1906 dall’unione
di varie leghe di resistenza e federazioni, insieme ad oltre 700 piccoli
sindacati locali. Essa ebbe un totale immediato di 250.000 tesserati, che nel
1918 diventarono 600.000 e nel 1919 oltre un milione [16]. Orbene, nel 1920 la
sindacalizzazione dei lavoratori italiani raggiungerà l’astronomica cifra di circa
3,5 milioni di tessere, di cui ben 2.150.000 relative alla CGdL e 500.000
all’USI (un sindacato autogestionario fondato nel 1912).
In
conclusione, cosa possiamo imparare da questo breve paragrafo sul PSI e sulla
sua azione nella classe lavoratrice italiana dell’inizio del XX secolo? Che pur
riscontrando grosse difficoltà nel propagandare l’idea stessa di Socialismo,
persino in una versione molto semplificata e annacquata, il partito comincia ad
acquisire gradualmente una certa rilevanza, anche se non enorme, utilizzando a
fianco della carta stampata anche i tipici mezzi del laburismo riformista
(programmi elettorali accattivanti e filo-operai, promozione di sindacati e
cooperative ecc.). Un esempio è il cosiddetto “programma minimo” del 1900,
approvato dal VI Congresso Nazionale per le elezioni politiche, dove la parola
“Socialismo” neppure compare! Poi però, dopo il breve periodo bellico (maggio
1915 – novembre 1918), succede qualcosa di inaspettato, anche per i dirigenti
socialisti, e il partito sembra, in apparenza, divenire per un biennio
l’arbitro della società italiana. Sarà l’effetto congiunto della Grande Guerra
e della Rivoluzione Russa, che dovremo necessariamente esaminare per riportare
l’Occupazione delle Fabbriche alla sua dimensione reale al di fuori del mito.
I Massimalisti
Il
PSI, come molti altri partiti della Seconda Internazionale, non presentava una
grande compattezza interna, ma all’opposto era diviso in correnti spesso in
forte polemica tra loro. In qualche modo questo era il portato delle modalità
con cui il partito era venuto alla luce: un’unione un po’ frettolosa di
militanti, sia borghesi sia operai, dalle origini più disparate: ex-mazziniani
democratici e repubblicani, radicali massoni e anticlericali, studiosi e
propagandisti marxisti, dotti professori positivisti, ex-anarchici bakunisti
non completamente pentiti, sindacalisti focosi e impulsivi ecc. Tuttavia la
dialettica interna fece presto (nel 1900-1902) cristallizzare due grossi
blocchi contrapposti: i “riformisti” di Filippo Turati e Leonida Bissolati e i
“rivoluzionari” di Arturo Labriola ed Enrico Ferri. I primi furono sicuramente
molto più influenti sul piano sindacale, parlamentare e inizialmente della
stampa, ma vennero spesso sospettati di “ministerialismo” (ipotetica collusione
con i governi liberali), mentre i secondi primeggiarono nella propaganda e
nell’agitazione, sfruttando i molti episodi di malcontento che periodicamente
opponevano il povero proletariato italiano non solo al padronato, ma anche al
governo e alle sue forze dell’ordine. Dopo un iniziale prevalere dei
riformisti, nel 1904 si affermano per un biennio i rivoluzionari (con la segreteria
di Ferri), per poi cedere di nuovo le redini del partito a un’alleanza tra i
riformisti e i cosiddetti “integristi” (oggi diremmo i “centristi”) di Oddino
Morgari. L’espulsione degli anarco-sindacalisti nel 1907 e lo scivolamento di
Ferri verso il centro “integrista”, smorzano per un po’ le polemiche interne al
partito, che ritorna de facto al
riformismo turatiano nel 1908 con la segreteria di Pompeo Ciotti. Ma questa
calma, solo apparente, viene definitivamente perduta nel 1912 durante il XIII
congresso, dove prevalgono le istanze rivoluzionarie di Costantino Lazzari e
viene espulso Bissolati con i suoi collaboratori (ovvero i riformisti più a destra),
sia per la sua debole opposizione alla conquista della Libia, ma ancora di più
per essersi recato di sua iniziativa al Quirinale durante le consultazioni
governative. Il giovane massimalista Benito Mussolini diviene direttore dell’Avanti!. Da questo momento in poi il PSI
svilupperà un’anomala evoluzione verso un radicalismo sempre più spinto che lo
porterà, dopo i moti della Settimana Rossa (7-14 giugno 1914), cosa quasi unica
nella Seconda Internazionale, a un’intransigente opposizione alla Grande Guerra
e, successivamente con il XV congresso di Roma del settembre 1918 e il XVI
congresso di Bologna dell’ottobre 1919, addirittura a un entusiastico appoggio
alla Rivoluzione d’Ottobre e al progetto bolscevico di una III Internazionale. Le parole d’ordine del PSI divengono
quindi "repubblica socialista" e "dittatura del
proletariato".
Nel
frattempo la maggioranza massimalista del partito aveva iniziato a trattare la
corrente riformista di Turati con sempre maggior fastidio, come una sorta di
corpo estraneo all’organizzazione, da sopportare soltanto per i suoi meriti passati,
la sua abilità parlamentare e, soprattutto, per i suoi forti legami con la CGdL
di D’Aragona e Buozzi. L’espulsione finale arriverà solo nel 1922 dietro
pesanti pressioni del Komintern nel
tentativo, peraltro fallito, di recuperare lo strappo con i comunisti. Il lungo
periodo della segreteria Lazzari (10 luglio 1912 - 24 gennaio 1918 e poi ancora
20 novembre 1918 - 22 marzo 1919) è anche quello che vede l’astro nascente di Mussolini,
il quale, fino all’espulsione definitiva per bellicismo nel 1914, sarà uno dei
capi rivoluzionari del partito insieme a Lazzari stesso e a Giacinto Menotti
Serrati, quest’ultimo particolarmente ispirato dai bolscevichi russi. Ma cosa
significava nel contesto italiano essere un socialista “rivoluzionario” (ovvero
“massimalista”) nel periodo 1904-1917? E cosa invece dopo la Rivoluzione
d’Ottobre, che fu discussa e accolta nel XV e nel XVI congresso del partito? Si
tratta di due domande importanti per capire la nascita di tante illusioni circa
il Biennio Rosso e, soprattutto, l’Occupazione delle Fabbriche, anche se data
la brevità del presente articolo non potremo certamente studiare con cura le
varie sfumature del pensiero socialista in Enrico Ferri, Arturo Labriola,
Costantino Lazzari, Benito Mussolini o Giacinto Menotti Serrati. E in effetti
non ce ne sarebbe neppure realmente bisogno, in quanto, almeno secondo una
celebre definizione dello storico Gaetano Arfè [17], “la corrente di sinistra arriva al governo del partito con un bagaglio
di idee assai poco pesante e altrettanto poco ordinato su quel che debba essere
la propria parte”. L'ascesa della corrente “intransigente rivoluzionaria”,
secondo la denominazione che ne davano i suoi stessi membri, appariva quindi
come l'affermarsi di una linea politica assai intransigente sul piano verbale,
ma poco rivoluzionaria su quello della teoria: le argomentazioni di Lazzari e
dei suoi alleati erano molto aspre e dettagliate su cosa rifiutare del
riformismo turatiano e sindacale, ma molto schematiche e povere sulla strategia
generale del partito. In un certo senso quindi, si può sostenere che l'ala
massimalista non avesse preparato in alcun modo la propria ascesa, ma fosse
stata sospinta in avanti dalla radicalizzazione di alcuni importanti strati
della classe lavoratrice italiana, i quali rifiutavano il cosiddetto “imperialismo
straccione” (fortunata citazione di Lenin) di un paese che, pur senza aver
risolto i suoi atavici problemi e le sue arretratezze, pretendeva di
scimmiottare le grandi potenze europee. Forse dai discorsi roboanti a metà tra
marxismo e evoluzionismo spenceriano di Enrico Ferri, dalle suggestioni
anarco-sindacaliste di Arturo Labriola (chiaramente influenzate da Georges
Sorel e da Francesco Saverio Merlino), dalla rozzezza argomentativa di Costantino
Lazzari e Nicola Bombacci e dall’esaltata violenza superomista di Benito Mussolini,
più nietzscheano che marxista, si distinguevano, almeno in parte, le posizioni
politiche di Giacinto Menotti Serrati, il massimalista più lucido del PSI,
almeno fino a quando non inizia a parteggiare apertamente per il bolscevismo nell’agosto
del 1917 con il celebre articolo dell’Avanti!
dal titolo “Viva Lenin!”. Serrati,
pur autore di un interessante studio sulle penose condizioni delle carceri
italiane del suo periodo [18], è però un uomo essenzialmente pratico, un
viaggiatore cosmopolita con una vena di avventurismo, un abile organizzatore
capace di usare la rivoltella con la stessa maestria della penna. La sua forte
simpatia per i bolscevichi inizia, auspice l’italo-russa Angelica Balabanoff,
nelle due famose riunioni dei socialisti europei contro la guerra a Zimmerwald
(settembre 1915) e a Kienthal (aprile 1916), dove si contrappongono la
posizione di Kautsky e Trockij (“pace
senza annessioni né riparazioni”) a quella di Lenin e Luxemburg (“trasformare
la guerra imperialista in guerra di classe”). Naturalmente Serrati e la Balabanoff vengono progressivamente
conquistati dal carisma di Lenin. Ma è soprattutto la concezione bolscevica del
partito-avanguardia, fatto di quadri estremamente disciplinati, veri
professionisti della rivoluzione, a convincere erroneamente Serrati che, essendo
il partito l’unico strumento del proletariato per la conquista del potere, sia
necessario trasformare il caotico e magmatico PSI in un’organizzazione
leninista di massa per ripetere in Italia l’esperienza dell’Ottobre Rosso. Sul
culto del partito rivoluzionario Serrati è addirittura più leninista di Bordiga
e Gramsci, che pure, alla lunga, gli saranno preferiti da Lenin e Trockij.
Infatti Serrati disprezza (o comunque svaluta) i “consigli operai” (detti soviet in quel periodo) e tutta la
“mistica consiliarista” tanto cara alla corrente astensionista-comunista del
PSI. Pensa infatti, un po’ come Lenin nel luglio del 1917 (ma a differenza di
Trockij), che un partito ben organizzato e saldamente radicato nelle masse
proletarie possa conquistare il potere anche senza aver egemonizzato gli
eventuali “consigli”. Eppure Serrati non si rivela disposto a seguire
ciecamente i “21 punti di Lenin” (ufficializzati il 7 agosto 1920) per condurre
in porto l’adesione del PSI al Komintern
e, in maniera caparbia, difende la libertà tattica dei socialisti italiani
nell’opporsi all’espulsione dell’ala riformista, stante il suo forte controllo della
CGdL. Mosca sarà però irremovibile e fomenterà di lì a poco la scissione della
corrente astensionista-comunista (benché Lenin [19] sullo specifico problema
elettorale fosse chiaramente vicino alle posizioni “partecipazioniste” di
Serrati) che si costituirà in Partito Comunista d’Italia. Ma qui siamo già nel
gennaio del 1921, ovvero mesi dopo la fine dell’Occupazione delle Fabbriche.
Per completezza ricordiamo solo che, nonostante la successiva espulsione dei
riformisti dal partito socialista (già citata), il PSI massimalista “puro” non
verrà ammesso al Komintern in quanto il
XX congresso socialista di Milano del 1923 rifiuterà un’umiliante fusione con
il PCdI (mozione Nenni-Vella). Serrati, perseguitato dai fascisti, deluso e
seguito soltanto da pochi fedelissimi (i cosiddetti “terzini”) chiederà nel
1924 l’adesione individuale al partito comunista dove però non avrà mai
incarichi di rilievo fino alla morte sopraggiunta nel 1926.
Per concludere il paragrafo non possiamo non ricordare
l’acuta critica di Filippo Turati al
massimalismo italiano successivo alla Rivoluzione d’Ottobre, pronunciata
durante il XVI congresso di Bologna. Nel suo
memorabile discorso del 7 ottobre 1919 parlò, tra le altre cose, di una “infatuazione mitica” per il bolscevismo che
si era impadronita della maggioranza del partito e che allontanava la classe
proletaria dalla vera rivoluzione
socialista: “Ecco
perché la teoria della violenza – se anche fosse plausibile in Russia – non si
potrebbe applicare in Italia. (…) Noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse
classi proletarie. Perché è chiaro che, mantenendole nell’aspettazione
messianica del miracolo violento, nel quale non credete e pel quale non
lavorate se non a chiacchiere, voi le svogliate dal lavoro assiduo e penoso di
conquista graduale, che è la sola rivoluzione possibile e fruttuosa” [20]. Pur non accettando il sottofondo riformista e gradualista
della sua critica, non potremmo caratterizzare meglio l’effetto negativo del
bolscevismo sul PSI massimalista di quei mesi, che di fatto riportava il
movimento operaio italiano alla fase blanquista e insurrezionalista di almeno
quarantacinque anni prima.
La vacuità teorica del massimalismo anteguerra, che forse
sarebbe potuto evolvere, almeno in parte, verso l’autentico Socialismo, era
stata di colpo colmata dal bolscevismo leninista, con tutte le sue lusinghe e
le sue ambiguità, ma in maniera approssimativa, frettolosa e agiografica, in
modo tale, alla lunga, da non soddisfare nemmeno quest’ultimo. Questa ‘malattia
russa’ del massimalismo italiano, il quale negli anni ’30 in esilio si era
riannodato al riformismo post-turatiano di Saragat e Faravelli, sarebbe
riesplosa ancora una volta durante la Guerra di Spagna e la Seconda Guerra
Mondiale sotto forma del mito antifascista dell’URSS di Stalin, con i pesanti
strascichi dell’unità d’azione con il PCI, della scissione riformista di
Palazzo Barberini, del Fronte Popolare del 1948 e, in ultimo, della nascita del
PSIUP che durò dal 1964 fino al 1972.
Il 1919
Il Biennio Rosso iniziò nel 1919, caratterizzato
presto da una serie di intense lotte sociali: moti bracciantili, tumulti popolari
contro il carovita, scioperi industriali e dei servizi, occupazioni di terre incolte.
Le agitazioni, inizialmente localizzate nel Settentrione e nel Centro, si
estesero rapidamente a tutto il paese e furono spesso accompagnate da manifestazioni, picchetti e scontri con le forze
dell’ordine. Ma quale fu la ragione principale di tali imponenti lotte, che nel 1919 totalizzarono oltre
1.800 scioperi economici e più di 1.500.000 scioperanti [21], allargandosi poi a tutti i
settori, incluso quello degli impiegati pubblici? L'economia italiana era allora in
una situazione di grave crisi che, iniziata già durante la Grande Guerra,
sarebbe durata a lungo: il reddito nazionale nel biennio 1917-18 era sceso
drasticamente e fino al 1923 restò ben sotto ai livelli dell’anteguerra, causando
quindi un radicale peggioramento del tenore di vita dei ceti popolari (alcune statistiche
parlano per il 1918 di un calo dei salari reali del 35,4% rispetto al valore
del 1913 [21]). Al livello macroeconomico questo
calo si accompagnava a un aumento del debito pubblico (il 124% del prodotto
interno lordo nel 1919 [21]), a un aggravio del deficit della bilancia dei
pagamenti, al crollo del valore della lira e,
ovviamente, a un’impennata dell’inflazione che causò la diminuzione
generalizzata dei salari reali. Ma mentre gli operai industriali e dei servizi
scioperavano principalmente per gli aumenti salariali e i miglioramenti delle
condizioni di lavoro (per esempio, la riduzione dell'orario giornaliero a non
oltre otto ore fu ottenuta nelle grandi industrie proprio nell'aprile del 1919),
nelle campagne, dove avvennero scioperi davvero imponenti (nel solo 1919 più di
500.000 persone [21]), si ebbero obiettivi differenti da categoria a categoria:
i sindacati dei braccianti avventizi lottavano per ottenere il monopolio del
collocamento e il cosiddetto “imponibile di manodopera” (ossia l’obbligo per
gli agrari di assumere un numero fisso di braccianti contrattato coi sindacati),
mentre i mezzadri e i salariati agricoli fissi cercavano di ottenere dalla
proprietà fondiaria dei nuovi contratti (i cosiddetti “patti agrari”) a loro
più vantaggiosi. Allo stesso tempo si verificarono nel Lazio e nell’Italia Meridionale
importanti lotte per l'occupazione delle terre incolte del latifondo da parte
di braccianti, coloni e piccoli coltivatori diretti, mentre dappertutto, tra la
primavera e l’estate del 1919, si verificò un'ondata di proteste contro l’ingente
aumento dei prezzi dei beni di consumo primari.
Fino al giugno 1919 il ruolo
del PSI nelle agitazioni non fu particolarmente marcato, poi il partito indisse per il 20 e il 21 luglio la
prima grande manifestazione politica, in concomitanza con uno sciopero generale (che gli anarchici, sconfitti, avrebbero voluto senza
limiti). Nonostante i toni abbastanza cauti dell'Avanti!, alcuni elementi
proletari più radicalizzati e parzialmente influenzati dall’anarco-sindacalismo
si convinsero che stesse per scoccare finalmente la "grande ora" e pensarono quindi a
uno sciopero espropriatore con valenza "rivoluzionaria". In realtà esso si svolse in relativa
tranquillità grazie anche ai ripetuti appelli alla moderazione da parte dei
sindacalisti riformisti (in primis Ludovico D'Aragona, il segretario confederale della CGdL), cosicché quasi ovunque i servizi
pubblici continuarono a funzionare. La mancata rivoluzione, che era stata goffamente
preannunciata dai tanti proclami dei fogli anarchici e massimalisti, favorì nei
fatti proprio il governo liberal-progressista del radicale Francesco Saverio
Nitti e coagulò la nascita di una sorta di vasto “blocco d’ordine”,
anti-socialista e anti-anarchico, comprendente radicali, democratici, liberali,
conservatori insieme a reduci, nazionalisti, futuristi dannunziani. Delle forze
borghesi solo i repubblicani simpatizzarono, almeno in parte, con gli
scioperanti, pensando di poter ripetere l’esperienza tedesca e austriaca, in
cui gli operai socialdemocratici erano stati abilmente utilizzati come
strumento per la liquidazione delle rispettive monarchie imperiali.
L’atteggiamento del PSI, come si è
già detto, cambiò nettamente dopo il XVI congresso dove trionfò la mozione di
Serrati, che aveva come obiettivo immediato la creazione di una "repubblica socialista" su modello sovietico Quattro furono i punti
esplicitamente menzionati:
a)
la Rivoluzione bolscevica venne dichiarata il modello d’azione del Partito
Socialista Italiano;
b)
conseguentemente il partito decise di aderire all'Internazionale Comunista;
c)
si riconobbe che il partito avrebbe potuto ricorrere alla violenza se ciò fosse
stato necessario per il conseguimento dei suoi fini (ovvero avrebbe potuto
usare il metodo del “terrore rivoluzionario” se fosse stato costretto);
d)
tra questi fini c'era la distruzione dello Stato borghese, la realizzazione
della dittatura del proletariato e la costruzione di un "nuovo ordine
comunista".
In
pratica la mozione massimalista si
distingueva dalla terza mozione, quella di Amadeo Bordiga, solo per pochi ma
importanti dettagli: mentre i massimalisti ritenevano che la rivoluzione fosse
comunque inevitabile e l'attendevano in modo tutto sommato passivo, la frazione
bordighista (autoproclamatasi “comunista astensionista”), forse più coerente
con l'esempio leninista, riteneva doveroso adoperarsi per la riuscita
dell’insurrezione. In effetti Bordiga era pienamente convinto
dell'incompatibilità assoluta tra Socialismo e democrazia
e riteneva quindi che il partito socialista non avrebbe dovuto partecipare alle
imminenti elezioni politiche del 16 novembre del 1919, proprio quelle, come si
è visto, dove il PSI raggiunse risultati davvero spettacolari: 1.834.792 voti validi su 5.793.507 votanti [14] (maschi maggiori di 21
anni). Assumendo per il 1919 una quota di lavoratori dipendenti pari al 61,3% degli
attivi [11], possiamo stimare (benché molto approssimativamente) che ben il 52-53%
dei lavoratori (o ex-lavoratori) dipendenti abbia scelto il PSI e il suo
programma. Un programma elettorale che, sebbene non fosse più quello “minimo”,
esplicitamente riformista, del 1900, manteneva di certo molte ambiguità sulla
natura della rivoluzione e ancora di più su cosa si intendesse con il termine “Socialismo”.
Per saggiarne il tono volutamente retorico, tipico del massimalismo di Serrati,
Bombacci, Gennari e Salvadori, riportiamone il brano più saliente e ispirato: «Non è un voto che
vogliamo da voi, è una promessa, un atto di fede. Votando per la scheda sulla
quale è l’insegna, levata in alto, della Repubblica socialista del mondo [ossia la falce e il martello contornati da due spighe di
grano - nota dell’autore - ], voi,
proletari d’Italia, direte di voler muovere lotta diretta alla conquista della
vostra emancipazione. Su quella insegna sta scritto: “Tutto il potere al
proletariato. Chi non lavora non mangi” (…)» [22]. Ovviamente
la scelta apparentemente “eversiva” del partito e la totale contestazione delle
istituzioni monarchiche poneva il PSI automaticamente e stabilmente all'opposizione. Così
i vari governi liberali che si
succedettero dopo novembre 1919, fino alla Marcia su Roma, poterono reggersi
solo grazie all'appoggio esterno del Partito Popolare, una nuovissima forza
politica di matrice cattolica (espressione principalmente dei coltivatori
diretti e della piccola borghesia non nazionalista) che aveva totalizzato nel
1919 ben il 20,53% dei voti.
Il
1920
Il nuovo anno, quello cruciale per
la nostra vicenda, esordisce con una raffica di scioperi ancora più intensi di
quelli dell’anno precedente e ciò non deve sorprendere dato che, come scrive
Candeloro [21], nel 1920 ebbero luogo più di 2.000 scioperi con oltre 2.300.000
aderenti.
A marzo scoppiano gli scioperi dei
metalmeccanici. In particolare alla
FIAT di Torino avviene
il famoso “sciopero delle
lancette”,
così chiamato per l'episodio che diede origine alla vicenda: la lotta contro
l’ora legale di derivazione bellica (che anticipava in modo insopportabile
l’orario di ingresso), il braccio di ferro tra la proprietà e la Commissione
Interna e il successivo licenziamento di tre suoi membri. Gli operai
metalmeccanici rispondono con uno sciopero di solidarietà ai licenziati che
coinvolge tutte le officine metallurgiche torinesi. Gli industriali a loro
volta reagiscono con una serrata,
pretendendo come precondizione per la riapertura delle aziende, lo scioglimento
dei Consigli di Fabbrica (appena sorti a Torino, su modello dei soviet russi, specie fra gli operai metallurgici in appoggio alle
loro Commissioni Interne). Viene
proclamato un imponente sciopero generale provinciale alla metà di aprile,
tuttavia sia la direzione nazionale della CGdL che quella del PSI si mostrano
titubanti preferendo non estendere l’agitazione al resto del paese. Per questo
motivo, ma anche a causa dell’invio da parte del governo di 50.000 soldati, gli
operai torinesi interrompono lo sciopero il 24 aprile, accettando un accordo di
fatto svantaggioso che non vede riconosciuti dalla proprietà i Consigli di
Fabbrica, ma soltanto tollerati in modo informale. Eppure il fuoco continua a
covare sotto la cenere: dopo le abituali manifestazioni di protesta del 1º maggio,
disperse dalla polizia in vari luoghi (per esempio a Torino e Napoli), inizia
un nuovo poderoso sciopero indetto contro il rincaro del pane. Esso indebolisce
il governo Nitti portandolo alle dimissioni nel mese
di giugno, ma non cessa con la nomina del vecchio Giolitti a Primo Ministro,
anzi si salda con la rivolta dei Bersaglieri a Trieste e ad Ancona,
i quali si rifiutano d’imbarcarsi per l’Albania (dove era prevista
un’occupazione militare italiana) sparando sugli ufficiali e causando due morti
e vari feriti. Per la prima volta l’opinione pubblica borghese comincia ad
avere paura: si teme l’intesa tra gli operai industriali e i militari
scontenti, esattamente come nella Russia dell’ottobre 1917. Da Ancona
la rivolta si spanderà poi al resto delle Marche,
all’Umbria, a Roma, alla Romagna,
fino alla Lombardia, tenuta in vita dallo sciopero dei ferrovieri della USI che
bloccheranno per giorni l’arrivo ad Ancona delle Guardie Regie per la pubblica
sicurezza (create in funzione anti-insurrezionale proprio nell’ottobre del 1919).
Sarà poi la Marina Militare, dopo un intenso cannoneggiamento della città, a
riportare definitivamente l’ordine il 28 di giugno.
Tra il giugno e l’agosto del 1920 si
svolge una durissima trattativa tra la FIOM, in rappresentanza dei
metalmeccanici della CGdL (seguita presto da altri sindacati) e la Federazione
degli Industriali Meccanici e Metallurgici allo scopo di adeguare i salari
degli operai ai consistenti aumenti del costo della vita. Si arriva presto al
muro contro muro anche a causa degli attriti personali tra il leader sindacale
Bruno Buozzi e l’avvocato Edoardo Rotigliano, noto nazionalista e
rappresentante dell’ILVA, quando si cominciano a mettere in discussione i
sopraprofitti padronali dovuti alle laute commesse belliche del periodo
1915-1918 [23]. La FIOM reagisce con la formula dell’ “ostruzionismo senza
sabotaggio”: ridurre la produzione al minimo osservando le norme in modo
scrupoloso e rifiutando sia cottimo che straordinari. La reazione padronale
però non si fa attendere: il 30 agosto iniziano le serrate alle Officine Romeo,
anche contro i moniti prefettizi, alle quali la FIOM milanese contro-reagisce
deliberando subito l’occupazione delle fabbriche che comincia dalla famosa
industria automobilistica Isotta Fraschini. Il giorno seguente la serrata degli
stabilimenti metalmeccanici assume un carattere nazionale, seguita, quasi
ovunque, dall’occupazione operaia che arriverà a mobilitare 400.000 lavoratori
metalmeccanici (con in aggiunta anche 100.000 unità appartenenti ad altri
settori industriali [23]). Il Primo Ministro Giolitti comprende che bisogna far
continuare la protesta pacificamente impedendo che le forze dell’ordine entrino
nelle fabbriche occupate, evitando così di dare un carattere politico ed
eversivo a una vicenda che la stessa CGdL riformista considera come puramente
sindacale. Solo a Genova, in un cantiere navale, le Guardie Regie perdono la
testa e uccidono un occupante ferendone altri due. Certamente la produzione cala
quasi ovunque per ovvi problemi di approvvigionamento e di contabilità anche se
a Torino il livello di autogestione operaia è davvero notevole grazie alla
collaborazione tra operai (Consigli di Fabbrica), sindacati (Camere del
Lavoro), altri lavoratori (Cooperative) e cittadini favorevoli all’occupazione
(Comitati): i prodotti industriali delle fabbriche autogestite furono in parte
venduti o regalati, ma più spesso le vettovaglie vengono donate agli
scioperanti sotto forma di collette, insieme anche ad armi e residuati bellici da
usare solo a scopo difensivo da parte delle vedette operaie note come “Guardie
Rosse”. Notevole è anche il ruolo dei ferrovieri e dei loro sindacati nel
rallentare gli spostamenti delle famigerate Guardie Regie e nel rifornire gli
occupanti di carbone, viveri e altri generi di conforto.
Tuttavia, nonostante il prudente
neutralismo giolittiano, l’occupazione cominciava ad avere inevitabili risvolti
politici: gli industriali reclamavano a gran voce lo sgombero delle fabbriche
come precondizione per riaprire le trattative con la FIOM, mentre quest’ultima
era ormai esautorata dal direttivo confederale della CGdL. Tra il 9 e l’11
settembre il sindacato e il partito socialista, in una serie di riunioni tese e
convulse, decidono la strategia da seguire: i riformisti, maggioritari nella
CGdL, sono per riaprire subito la vertenza con gli industriali e il governo,
mentre i massimalisti e gli astensionisti, più forti nel partito, parlano apertamente
d’insurrezione e di presa del potere. Tuttavia i socialisti torinesi, anche se
radicali e molto attivi nel movimento delle occupazioni (come Gramsci,
Terracini, Tasca e Togliatti, tutti legati al giornale l’Ordine Nuovo su posizioni filo-sovietiche) non si fidano dei loro vertici
nazionali e mantengono un atteggiamento assai guardingo. Credono infatti che i leader
del partito e del sindacato li lascerebbero da soli, come utili capri
espiatori, nel caso che un’insurrezione dovesse riuscire nella sola città di
Torino fallendo altrove. Ad ogni modo il 20 settembre la CGdL sblocca la
situazione con un ultimatum: se il PSI volesse prendere le redini del movimento
per scatenare la rivoluzione, i dirigenti sindacali sarebbero pronti a
dimettersi in blocco. “Voi - dice D’Aragona ai
capi del partito - credete
che questo sia il momento per far nascere un atto rivoluzionario; ebbene
assumetevi la responsabilità. Noi non ci sentiamo di assumere questa
responsabilità, di gettare il proletariato al suicidio, vi diciamo che ci
ritiriamo e diamo le nostre dimissioni” [24]. Ma i capi del partito
sentono che senza i dirigenti della CGdL non sarebbe possibile proseguire sulla
via rivoluzionaria. A
questo punto la segreteria del PSI (guidata da Egidio Gennari) lascia cadere la
sua proposta rimettendo ogni decisione sulla continuazione della lotta al
Consiglio Nazionale della CGdL del giorno seguente, dove si affrontano due
mozioni contrapposte: una propone di lasciare “alla Direzione del Partito l'incarico di dirigere il movimento
indirizzandolo alle soluzioni massime del programma socialista, e cioè la
socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio”; mentre l’altra
prevede quale obiettivo immediato della lotta, non la rivoluzione, ma solo “il riconoscimento da parte del padronato
del principio del controllo sindacale delle aziende”. Vince la seconda e
anche la segreteria del PSI, che da statuto avrebbe avuto il diritto d’invalidarla,
l’accetta. Questa decisione però scaverà un solco sempre più profondo tra i
massimalisti da un lato e gli “ordinovisti” dall’altro, i quali, infatti, dopo
violente polemiche [25] si coalizzeranno coi seguaci di Bordiga il mese dopo (il
20 ottobre 1920).
Tramontata ogni velleità
rivoluzionaria e autoesclusosi il PSI, il governo Giolitti prese l’iniziativa
di mediare tra le parti, arrivando faticosamente (soprattutto per le forti
resistenze padronali) allo storico accordo di Roma del 19 settembre 1920, il
quale stabiliva aumenti salariali e miglioramenti contrattuali in termini di
ferie e licenziamenti, ma prescriveva lo sgombero immediato delle fabbriche
occupate. Vi era pure un generico impegno governativo (di fatto mai attuato) a
formulare una legge sulla cogestione operaia delle aziende [23], argomento che
interessava molto l’ala riformista turatiana. La fine delle occupazioni avvenne
così, pacificamente, tra il 25 e il 30 settembre, con i lavoratori convinti di
aver conseguito un’importante, seppur parziale, vittoria. Il concordato definitivo
tra FIOM e Confindustria venne poi perfezionato il 1° ottobre a Milano
chiudendo definitivamente la vicenda.
Il PSI, nonostante il suo ruolo
abbastanza defilato nell’episodio delle occupazioni, riesce a lucrare un buon successo
(specie in Toscana e in Emilia) nelle elezioni amministrative della prima
settimana di novembre, anche se i liberali escono ancora vincitori, seppur di
misura, nei due baluardi industriali di Torino e Milano. I socialisti si
aggiudicano la maggioranza in 26 dei 69 consigli provinciali e in 1.915 comuni
su 8.346 [21]. Si notano però due tendenze nuove: il PSI ha perso un po’ del
seguito del 1919 e i partiti anti-socialisti, seppure ideologicamente lontani
(per esempio, liberali e popolari), tendono talora ad allearsi al livello
locale nei cosiddetti “blocchi nazionali”, i quali cominciano ad ospitare
frequentemente anche elementi ultra-nazionalisti. Questi ultimi iniziano la
loro folgorante ascesa politica proprio in queste settimane le quali vedono per
la prima volta un ricorso massiccio alla violenza intimidatoria dei cosiddetti
“squadristi”. Al contrario, le presunte violenze proletarie del Biennio Rosso furono
in quegli anni molto sopravvalutate dalla stampa, se non addirittura mitizzate,
mentre i morti ammontano, secondo l’imparziale Gaetano Salvemini [26] (che non
simpatizzava né col governo Giolitti, né col suo ex-partito, il PSI), a non più
di 65 persone in due anni, da confrontarsi con i 131 lavoratori uccisi da parte
delle forze dell’ordine o di civili anti-socialisti, ma per lo più, va
precisato, in un contesto rurale e bracciantile.
Conclusioni
Riteniamo di aver dimostrato con un
certo dettaglio la nostra tesi iniziale, ovvero il carattere mitico e non
storico di un’ipotesi socialista rivoluzionaria associata al Biennio Rosso in
generale, e all’Occupazione delle Fabbriche in particolare. L’immaturità del
capitalismo italiano di quel periodo, in cui una larga porzione di lavoratori
salariati era ancora misera, poco istruita e non particolarmente attratta da un
programma genuinamente socialista (perché legata al mondo rurale e bracciantile),
rendeva obiettivamente impossibile o, perlomeno largamente improbabile, un
esito rivoluzionario mirante al superamento del capitalismo. In aggiunta, il
carattere essenzialmente laburista e riformista dell’azione politica e
sindacale del PSI dalla sua fondazione fino almeno alla Guerra di Libia, non
poteva che corroborare tale impossibilità in quanto questo partito veicolava
implicitamente l’idea che le condizioni della classe lavoratrice potessero
migliorare in maniera continua e graduale, come nei paesi capitalisti più
progrediti, in modo praticamente illimitato, trasferendo così il concetto
stesso di “Socialismo” in un futuro sempre più lontano e sfumato. Tuttavia per
onestà intellettuale abbiamo anche notato come a partire dal 1912, e più ancora
nel periodo bellico, fosse emersa vittoriosamente nel partito una tendenza
intransigente, massimalista e verbalmente rivoluzionaria come effetto del
malcontento popolare per le costose imprese militari che, pur galvanizzando la
media e la piccola borghesia nazionalista, risultavano essenzialmente odiose e
incomprensibili agli occhi dei lavoratori italiani. Ma la vacuità e la
superficialità di tali correnti impedì in Italia l’inizio di un vero e proprio
processo di sedimentazione del socialismo “impossibilista” come avvenne invece
negli Stati Uniti d’America (il SLP, rifondato da Daniel de Leon nel 1890), in
Gran Bretagna (il SPGB, nel 1904), in Canada (il SPC,
sempre nel 1904),
nei Paesi Bassi (il SDP, nel 1907) e in Germania (lo Spartakusbund, nel 1914).
Anzi, all’opposto, appena la rivoluzione russa vide trionfare il bolscevismo,
con la sua mistica dei soviet e la
sua violenta dittatura di partito tutta tesa all’edificazione del capitalismo
di stato sulle ceneri dell’impero zarista, i massimalisti del PSI
identificarono le loro sorti, in modo ingenuo e acritico, con quelle del
nascente Komintern. Ovviamente con
questo non intendiamo dire che tutti i movimenti “impossibiliti” appena citati
non avessero subito in alcun modo il fascino dell’Ottobre Rosso di Lenin e
Trockij. Tuttavia i loro “anticorpi ideologici” reagirono prontamente opponendosi
alle chimere del bolscevismo internazionale. Così gli eredi più autentici di
queste formazioni olandesi e tedesche (rispettivamente, la KAPN e la KAPD) già
nel 1921 denunciavano a gran voce il Komintern
e la sua pericolosa influenza sul movimento operaio mondiale [27]. Nel PSI
questo non avvenne e il partito continuò per decenni ad oscillare a fasi alterne
tra bolscevismo e riformismo senza elaborare alcuna profonda critica ad
entrambi, ma limitandosi, nei casi migliori, a riprendere le tematiche
conciliatorie care all’austromarxismo di Otto Bauer e Max Adler.
Tornando ai rapporti tra massimalisti
e Occupazione delle Fabbriche è interessante il giudizio del leader forse più
importante del PSI di quel periodo, Giacinto
Menotti Serrati, che in una lettera dell’aprile 1921 al giornalista comunista
Jaques Mesnil scrive: “Mentre tutti parlavano di
rivoluzione, nessuno la preparava (…). La famosa occupazione delle fabbriche,
che fu un atto sindacale compiuto in concomitanza di interessi colla borghesia
giolittiana, fu interpretata come una decisa azione rivoluzionaria e non era
invece che un aspetto (…). Ora la borghesia, impaurita dal nostro abbaiare,
morde e morde sodo. Si difende accanitamente, quasi [come] prima dell’attacco.”
Il testo lascia davvero di stucco visto che i massimalisti (Serrati in primis) avevano predicato per tutto
il 1920 l’inevitabilità della rivoluzione e del metodo violento per abbattere
lo Stato borghese, nonché la necessità di passare alla formazione e all’organizzazione
del cosiddetto “esercito rosso”. Presa di coscienza, benché tardiva,
dell’enorme abbaglio subito o ennesima acrobazia politica motivata
dall’opposizione al gruppo torinese di “Ordine
Nuovo” confluito nel PCdI pochi mesi prima? Non lo sappiamo, ma sia
Candeloro [21] che Spriano [23] (benché quest’ultimo sia stato uno storico
piuttosto vicino al PCI togliattiano) sembrano condividere l’opinione di
Serrati, negando chiaramente che
l'Occupazione delle Fabbriche avesse realmente la possibilità di costituire
l'occasione di una rivoluzione vittoriosa. Invece è certo che il mito della
“rivoluzione socialista mancata” proprio all’ “Ordine Nuovo” va fatto risalire. Uno dei suoi intellettuali di
punta, Antonio Gramsci, affermò esplicitamente nel 1926, qualche anno dopo gli
eventi, che:
“Come
classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono
all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le
necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti.
Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché
non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi
finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende
commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e
internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi
avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito Socialista e dai sindacati che
invece capitolarono vergognosamente, pretestando l'immaturità delle masse; in
realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne
la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il
Partito Comunista” [25].
Successivamente la vulgata dell’infallibilità analitica di
Gramsci, tanto cara alla sinistra italiana a partire dagli anni ’50 (e
incomprensibilmente in grado di accomunare stalinisti, maoisti, trotzkisti ed
eurocomunisti) s’incaricò di fare assumere a questo giudizio un carattere quasi
dogmatico: tutto fallì, in mancanza di un vero partito bolscevico, per il
plateale tradimento dei dirigenti sindacali riformisti e l’insipiente ignavia
dei dirigenti massimalisti del PSI. Ma paradossalmente non ci si rese conto che
così facendo si andava semplicemente a recepire e a ripetere la più trita delle
argomentazioni propagandistiche del fascismo il quale dipinse l'Occupazione
delle Fabbriche come un episodio emblematico di un'epoca di profondi disordini,
caratterizzato da gravi e ripetute violenze operaie e dal pericolo incombente
di una rivoluzione comunista, pericolo che, in Italia, sarebbe stato sventato
solo dal provvidenziale avvento di Benito Mussolini nell’ottobre del 1922.
In estrema sintesi, l’Occupazione
delle Fabbriche fu solo un episodio dell’incessante lotta di classe tra
lavoratori e capitalisti in Italia, sicuramente importante, ma forse meno del
famoso “primo sciopero generale” del settembre 1904, dove il carattere
anti-governativo e politico dell’azione fu ancora più forte. La mitizzazione
dei fatti del 1920 non può quindi che essere attribuita alla prossimità della
Rivoluzione d’Ottobre, non compresa nella sua vera essenza burocratica e
capitalista di stato, ma equivocata come alba del Socialismo mondiale [28].
Bibliografia
[1] L’articolo
è a pag. 1 ed è intitolato Cronache dell’
“Ordine Nuovo”, in L’Ordine Nuovo, n. 16 anno II, del 2
ottobre 1920.
[2] Un
esempio tipico della visione dei trotzkisti sull’argomento si trova in un breve
articolo del 2010:
[3] Si veda, per esempio, il celebre discorso
di Filippo Turati al XVII Congresso del PSI (Livorno, 19 gennaio 1921), noto
come “La Profezia di Turati”, in cui si
contesta punto per punto la visione bolscevica di Umberto Terracini:
https://www.circolorossellimilano.org/MaterialePDF/discorso_di_turati_a_livorno.pdf
[4] Friedrich
Engels a Filippo Turati in Milano (26 gennaio 1894): https://www.marxists.org/archive/marx/works/1894/letters/94_01_26.htm
[5] Si veda,
per esempio, Il Manifesto del Partito
Comunista (1848), un’opera giovanile e un po’ schematica, ma già abbastanza
completa. Non si tralascino però le importanti prefazioni alle edizioni
successive: da quella tedesca del 1872 a quella russa del 1893:
[6] Uno fra
tutti è il massimo ideologo dal Partito
Socialdemocratico Tedesco di quegli anni, Karl Kautsky, certamente non un
estremista, che tuttavia nel 1909 scrive un libro dall’eloquente titolo di “La
via al potere” (Der Weg zur Macht ):
[7] Giovanni
Montroni, La società italiana
dall'unificazione alla Grande Guerra (Laterza, Roma-Bari, 2002).
[8] N. F. R. Crafts, Explorations in economic history, vol. 20, pagg. 387-401 (1983).
[9] Giovanni
Federico, Le nuove stime della produzione agricola italiana, 1860-1910: primi
risultati e implicazioni, Rivista di storia economica, vol. 3, pagg. 359-382 (2003).
[10] Guido
Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo
economico in Italia 1750-1913 (Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2014).
[11] Paolo Sylos Labini, Le classi sociali
negli anni '80 (Laterza, Roma-Bari,
1987).
[12] Meglio che da un saggio si potrebbe davvero assaporare lo spirito
dell’epoca dall’eccellente film dei fratelli Taviani intitolato “San Michele aveva un gallo” (1972),
tutto imperniato sul contrasto tra vecchio insurrezionalismo anarchico e nuova militanza
proto-socialista nell’Italia del 1880-85:
[13] Il
famoso programma di Erfurt della SPD, commentato in modo tutto sommato positivo
da Engels, fu opera principalmente di Karl Kautsky e venne ufficialmente
approvato nel 1891, rimanendo in vigore fino al 1921. A fianco di una versione
breve:
https://www.marxists.org/history/international/social-democracy/1891/erfurt-program.htm
Kautsky ne produsse
anche una commentata, molto più densa dal punto di vista teorico, che fu
pubblicata successivamente con il titolo di “La Lotta di Classe”, dove un
intero capitolo è dedicato alla futura società socialista:
https://www.marxists.org/archive/kautsky/1892/erfurt/index.htm
[14] A.A.
V.V., Almanacco Socialista (Ed.
Avanti!, Milano, 1946).
[15] a cura di Valerio Castronovo e Nicola
Tranfaglia, La stampa italiana nell'età liberale, pag. 212 (Laterza, Roma-Bari, 1979).
[16] Fabrizio Loreto, Storia della CGIL. Dalle origini ad oggi (Ediesse,
Roma, 2009).
[17] Gaetano Arfè, Storia
del socialismo italiano 1892-1926, (Einaudi, Torino, 1965).
[18] Giacinto Menotti
Serrati, Il manuale del perfetto carcerato (Castelvecchi, Roma, 2016).
[19] V .I. Lenin, L’estremismo,
malattia infantile del comunismo, maggio 1920 (Ed. Lotta Comunista, Milano,
2005):
[20] Filippo Turati, Socialismo
e riformismo (Frazione di Concentrazione Socialista, Milano, 1919):
http://media.regesta.com/dm_0/GRAMSCI/gramscixDamsBiblio002/allegati//Op._A_19_58/Coperta/0000_0.jpg
[21] Giorgio Candeloro, Storia
dell'Italia moderna VIII: la prima guerra mondiale, il dopoguerra, l'avvento
del fascismo (Feltrinelli, Milano, 1996).
[22] Carlo Felici, Dalla
Grande Guerra alla Guerra Civile, parte VII: le elezioni del 1919. La resa dei
conti nel Paese, in Avanti! on-line del 7/1/2019:
[23] Paolo
Spriano, L’occupazione delle
fabbriche. Settembre 1920, quarta edizione (Einaudi, Torino, 1973).
[24] G. Bosio, La Grande paura. Settembre 1920.
L’occupazione delle fabbriche nei verbali inediti delle riunioni degli Stati
generali del movimento operaio, pagg. 100-101 (Samonà e Savelli, Roma,
1970).
[25] Antonio Gramsci,
Scritti Politici (Editori Riuniti, Roma,1969).
[26] Gaetano
Salvemini, Scritti sul fascismo
(Feltrinelli, Milano, 1962).
[27] Philippe
Bourrinet, The Dutch and
German Communist Left (Haymarket, Chicago (IL), 2018).
[28] per un’efficace descrizione del fascino e degli equivoci generati
dalla Rivoluzione Russa nell’Italia del 1919 si può vedere l’interessante
volume di Pietro Nenni, Il diciannovismo
(Ed. Avanti!, Milano, 1962), scritto in retrospettiva. L’autore, futuro leader
del PSI, in quell’epoca era addirittura un giovane repubblicano eppure il
portato degli eventi lo condusse al socialismo e a scrivere in maniera febbrile
un pamphlet dall’emblematico titolo di “Lo
spettro del comunismo, 1914-1921” pubblicato nel 1921 dall’Editrice
Modernissima di Milano.D. C.
Lavoratori
della fonderia “Il Pignone” a Firenze durante l’occupazione (dal 2 al 30
Settembre 1920). In quegli anni la fabbrica impiegava a regime circa 600 operai
ed era la seconda per dimensioni della provincia di Firenze, superata solo
dalle officine “Galileo” con circa 1.200 operai [23]. Si riconoscono le
bandiere rosse a destra e a sinistra, nonché l’emblema della FIOM al centro.
Io ho 80 anni e pos so dire con assoluta certezza che in Italia nessuno ha mai parlato o auspicato una rivoluzione socialista, casomai si parlava di una rivoluzione comunista o sovietica. Il socialismo europeo era odiato dal PCI, che definiva "democratica" la Germania sovietica
RispondiEliminaPer corroborare il fatto che a spingere il mito ci fu un apporto considerevole della componente torinese sarebbero da precisare brevemente le dinamiche presenti nella Frazione Comunista Astensionista. La frazione comunista era stata costituita già nel 1919 e gli ordine novisti ne facevano parte. Anche se i torinesi avevano mostrato tendenze scissioniste.
RispondiElimina“Gli astensionisti si organizzarono nella “Frazione Comunista” fondata di fatto da Bordiga, subito prima del decisivo XVI Congresso del partito tenutosi a Bologna nell’Ottobre del 1919. “
“La prima conferenza della frazione astensionista avvenne nel Maggio del 1920.” Dalla conferenza nazionale di Firenze 8-9 Maggio è già chiaro che “il Partito, per la sua attuale costituzione e funzione, non è assolutamente in grado di porsi alla testa della Rivoluzione Proletaria”... spingendo la formazione del Partito Comunista.
Nelle Tesi della Frazione, è presente il tema dei Consigli operai come rappresentanza dei lavoratori.
“È il genere errore credere che la rivoluzione sia un problema di forma di organizzazione dei proletari secondo gli aggruppamenti che essi formano per la loro posizione e i loro interessi nei quadri di sistema capitalistico di produzione. Non è quindi una modifica della struttura di organizzazione economica che può dare al proletariato e mezzo efficace per la sua emancipazione. I sindacati e azienda o consigli di fabbrica assorbono quali organi per la difesa degli interessi dei proletari e varie aziende, quando comincia ad apparire possibile il limitare l’arbitrio capitalistico nella gestione di esse.” “I soviety o consigli degli operai, contadini e soldati costituiscono gli organi del potere proletario e non possono esercitare la loro vera funzione che dopo l’abbattimento del dominio borghese. I soviety non sono per se stessi organi di rivoluzione; essi divengono rivoluzionari quando la maggioranza e conquistata dal partito comunista. I Consigli operai possono sorgere anche prima della rivoluzione, in un periodo di crisi acuta in cui il potere dello Stato borghese sia messo in serio pericolo. L’iniziativa della costituzione dei soviety può essere una necessità per il partito in una situazione rivoluzionaria, ma non è un mezzo per provocare tale situazione.”
In risposta ad Ambrosini che invocava la costituzione dei Consigli di Fabbrica da parte della Frazione intesa come futuro Partito, Bordiga risponde nel giugno "Circa la questione dei consigli di fabbrica e dei soviet non vi è alcuna incertezza nel pensiero del compagno Bordiga- che egli [Ambrosini] chiama in causa personalmente -del comitato centrale della conferenza di Firenze. ... né i consigli di fabbrica, né i soviets possono essere considerati organi per la lotta rivoluzionaria, e la loro costituzione non può rappresentare il contenuto dell’opera rivoluzionaria, che opera politica di preparazione reale e materiale la cui premessa è l’esistenza di un partito comunista.”
In luglio e agosto Bordiga è impegnato nel congresso dell’internazionale comunista a Pietrogrado e quindi per nulla attivo nel commentare gli scioperi. Bordiga è altresì impegnato a rispondere alle critiche di Lenin sull’estremismo.
Nonostante fosse rientrato solo il 16 settembre in Italia, quindi a giochi fatti, assistendo alla fase finale del movimento dell’occupazione delle fabbriche, Bordiga aveva visitato delle fabbriche di Napoli ancora occupate. Aveva fatto visita ai bacini di carenaggio dove aveva incontrato le guardie rosse, che l’avevano accolto con entusiasmo. Fece un discorso dove portò il saluto dei compagnia russi.
…continua dal commento sopra:
RispondiEliminaSolo il 3 ottobre con una serie di articoli risponderà alle questioni interne degli scioperi e delle occupazioni.
In un articolo pubblicato sul “Soviet” intitolato “Orientarsi e Rinnovarsi!” scrive, con proverbiale lucidità: “Il famoso << problema del controllo >> , e tutta l’agitazione iniziata a Torino da un gruppo di compagni il cui orientamento lasciava a desiderare, non ci hanno mai troppo entusiasmati. Fin dai primissimi accenni abbiamo facilmente preveduto che su questo terreno si apriva la via a nuovi espedienti riformistici, e che il << controllo >> operaio sulla produzione, lungi dal bastare a suscitare un incendio rivoluzionario, sarebbe andato a finire in una qualunque provvidenza legislativa dello Stato borghese. Non vogliamo dire che è un tale problema non abbia contenuto reale, che consigli di fabbrica e le occupazioni delle aziende siano organismi e movimenti artificiali. Tutt’altro: abbiamo in essi manifestazioni fondamentali dello svolgimento della crisi borghese, in cui i comunisti, il partito comunista, hanno il dovere di intervenire appunto per introdurvi quel contenuto rivoluzionario che << intrinsecamente >> non hanno, come non lo era la tradizionale lotta sindacale.”
Nonostante negli anni 60 rivisiterà questo periodo in chiave più nostalgica. Il Bordiga del 20 non sembrava troppo per il mito della rivoluzione mancata.
In aggiunta come si evince anche dalla ricostruzione di Angelo Tasca (in Una Storia del Partito Comunista Italiano, 1953) "Negli anni successivi alla prima guerra mondiale una << rivoluzione >> italiana s'imponeva ed era possibile, ma come rivoluzione democratica, non bolscevica. L’esempio ed il modello russi suscitarono altri miraggi, che fecero abortire la rivoluzione di tipo sovietico, di cui non esistettero mai le condizioni, in nessun momento.
Gramsci il gruppo dell'<< Ordine nuovo >> credettero di riconoscere nei Consigli di fabbrica l'embrione dei soviet italiani, il cui sviluppo avrebbe risolto insieme il problema del potere e quello della produzione. Bordiga non condivise mai l giudizio, ne' le speranze di quel gruppo; egli vi sentiva puzzo di sindacalismo e s'inquietava del compito secondario, di semplice fiancheggiamento, che pareva si fosse attribuito al partito politico e la sua ferma direzione."