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lunedì 12 marzo 2018

Bitcoin: cosa ne penserebbe Marx?


  • di Cesco 

Abbiamo sentito di tutto in merito ai Bitcoin. C'è addirittura qualcuno che ha osato affermare che i Bitcoin sarebbero un'alternativa alla struttura economico-politica attuale e per questa ragione Marx li avrebbe apprezzati (‘Bitcoin and Marx’sTheory of History’, Kenny Spotz, Bitcoin Magazine 26, July 2014). Poveri noi!
Vediamo allora se Marx avrebbe apprezzato i Bitcoin oppure no. I Bitcoin sono una 'criptomoneta', ovvero un mezzo digitale criptato di pagamento, sicuro, fino a quando non viene “hackerato”, ovviamente. 
Secondo Marx, la sola alternativa al capitalismo è una società basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e dei loro prodotti, una società senza profitto e senza denaro, nemmeno quello criptato o non convenzionale. 
Marx analizzò esaurientemente la natura e la funzione del denaro nel sistema capitalista. Questa la si può trovare nella prima sezione del primo volume del Capitale. Ripassiamone brevemente un paio di concetti.  Qualsiasi cosa che ha la proprietà di soddisfare un bisogno ha un valore d'uso, che è un'utilità, una particolare qualità. 
Ma quando guardiamo lo scambio di due cose e le loro qualità, per esempio due sedie e 0,3 once d'oro, i loro valori d'uso non sono determinanti nello scambio; ciò che conta è una quantità comune misurabile. Nello scambio, queste due cose diventano merci e i loro valori diventano valori di scambio. Così nel nostro esempio, 2 e 0,3 sono i valori di scambio. Però, se guardiamo questo scambio dal punto di vista dell'utilità, due sedie dovrebbero essere più utili di 0,3 once d'oro (diciamo un anello d'oro). Ma chi o cosa decide che due sedie valgano solo 0,3 once d'oro, piuttosto che 20 once o 0,1 once? Questo è determinato dal fatto che l'ammontare di lavoro umano medio in una società, necessario per produrre due sedie e per estrarre 0,3 once d'oro, è il medesimo. Quindi, due sedie così come 0,3 once d'oro, si possono scambiare, come con 8.000 mele, o quattro paia di scarpe. Ogni merce quindi ha equivalenti, che riflettono il tempo medio di lavoro speso nel produrle dall'inizio alla fine. Per convenzione, storicamente, la forma generale di equivalente era attribuita ai metalli preziosi, come l'oro e l'argento, diventando così merce-denaro, come moneta, la quale in sé incarna uno standard di tempo di lavoro allo stesso modo e permette a tutte le altre merci di essere a lei comparata. 
Marx riassume tutto questo in un chiaro esempio:
Se le merci avessero la parola, direbbero: il nostro valore d’uso può interessare agli uomini. A noi, come cose, non interessa. Ma quello che, come cose, ci interessa, è il nostro valore [di scambio].            
            L’oro [inteso come denaro]… funziona come misura generale dei valori [di scambio]
Originariamente, il denaro era una merce, i metalli preziosi (oro e argento), lo erano per le loro proprietà di durevolezza nel tempo e divisibilità; il loro valore di scambio era determinato dal loro peso. A un certo punto, per permettere scambi di più piccola dimensione, altri metalli meno durevoli come il rame vennero usati come monete, sostituendo l'oro o l'argento. Anche gli stessi oro e argento erano soggetti all'usura del tempo, diventando il loro valore sempre più convenzionale e sempre meno connesso al loro peso. Questo spianò la strada a una moneta puramente convenzionale come le banconote. 
La carta per sé ha un limitato valore di scambio, ma convenzionalmente le banconote hanno valori di £20, £50, £100 etc. Ai tempi di Marx le banconote della Banca d'Inghilterra erano ripagabili in oro. La Banca, alla quale era concesso dallo Stato di stampare carta moneta, doveva avere il corrispettivo in riserve auree nelle sue casseforti. 
Come scritto da Marx,
            La monetazione, come pure la definizione di scala di misura dei prezzi, è compito dello Stato.
Inoltre,           
La carta è segno di valore, solo perché rappresenta quantità d’oro che sono pure quantità di valori, come tutte le quantità di merci.

Uno alla volta, i vari governi del mondo decisero di revocare la convertibilità del loro conio in oro, facendone moneta a corso legale (fiat money)Fiat significa in latino “lascia che sia”. Che vuol dire: soldi senza obblighi di convertibilità. Quindi, oggigiorno, una banca centrale, che stampa banconote per concessione statale, può creare soldi dal nulla, aumentando le possibilità d'inflazione. 
Torniamo quindi alla criptomoneta, e a come la giudicherebbe Marx.
È decisamente possibile creare criptomoneta dal nulla; è solo una questione di convenzione. Per diventare una vera moneta, lo Stato deve riconoscerla e in molti paesi, ma non in tutti, Bitcoin e altre criptovalute sono riconosciute legalmente ma solo come valute private. È importante notare che gli inventori dei Bitcoin hanno imposto un limite nel numero circolante (21 milioni) e questa scarsità, assieme ad altri vantaggi, ha dato loro una certa popolarità. L'altro principale vantaggio è che i Bitcoin garantiscono l'anonimato, ideale per chi è interessato a evadere il fisco, al gioco d'azzardo e al riciclaggio. In più gli acquisti non sono tassati. I Bitcoin non richiedono intermediari e quindi hanno costi di trasferimento più bassi. Le imprese possono raccogliere capitali, con i Bitcoin, senza essere valutate nella borsa valori ufficiale. Ad ogni modo, questi vantaggi non spiegano la loro popolarità e loro rapido aumento di valore azionario.
Il Chicago Mercantile Exchange, l'operatore di scambio di derivati più grande al mondo, sta considerando di offrire la vendita di Bitcoin. Questo ha agevolato la bolla speculativa sui Bitcoin anche più grande di quella del “dot-com” della fine anni novanta. Mentre scriviamo questo articolo, nel dicembre 2017, i Bitcoin valevano $15.500, nella loro fase discendente, da un picco di $18.000 circa. Quanto varranno domani, $10.000, $500, $1? Gli investitori compravano Bitcoin perché contavano sul fatto che qualcun altro li ricomprasse da loro, e così via. Contavano su un 'fesso più grosso' che li comprasse da loro, come descritto nell'Economist (1 novembre). Chiaramente, nonostante quello che dice la “Bitcoin community”, questa non è una valuta adeguata per comprare beni quotidiani, ma si è dimostrata ideale per una bolla speculativa, di sicuro non un passo avanti verso il futuro dell'evoluzione umana. 
Marx non penserebbe neanche che i Bitcoin siano una buona valuta, in quanto non stabile come equivalente universale. Marx, allo stesso modo, non penserebbe che neanche il dollaro o ogni altra moneta a corso legale siano una buona forma di equivalente universale, in quanto fittiziamente sostenuti dallo Stato e quando stampati in eccesso causa d'inflazione. Marx non penserebbe che una moneta, invisibile perché digitale e criptata, sia intrinsecamente un passo in avanti o che sia in grado di cambiare l'ordine sociale. Il capitalismo può essere superato solo da un sistema dove i mezzi di produzione e i loro prodotti diventino di comune proprietà dell'intera società, e l’accesso a questi ultimi sia completamente libero. Una società dove l'oro non sarebbe la forma di equivalente universale, come neanche nessun altro tipo di moneta. 
(Tradotto da “Socialist Standard” n. 1362 Febbraio 2018 “Bitcoin: What Would Marx Think?”)

sabato 11 settembre 2010

Il contenuto economico del Socialismo. Marx vs Lenin

Il seguente articolo fa un’accurata descrizione di quello che Marx pensava. Se noi, dopo 150 anni, dovremmo pensare esattamente la stessa cosa su alcuni punti, è un’altra questione. Per esempio, non penso che abbiamo ancora bisogno di pensare in termini di un lungo “periodo politico di transizione” tra la cattura del potere politico da parte della classe lavoratrice di mentalità socialista e l’istituzione della “prima fase” della società socialista/comunista; né che abbiamo bisogno di pensare di dover usare i “buoni lavoro” in questa prima fase. Entrambi sono stati resi non necessari dal tremendo sviluppo delle forze di produzione dai tempi di Marx; il che significa che il socialismo/comunismo può essere istituito molto rapidamente dopo la cattura del potere politico e che possiamo far ricorso abbastanza velocemente al pieno libero accesso secondo i bisogni autodeterminati.

Il contenuto economico del Socialismo. Marx vs Lenin

giovedì 12 agosto 2010

I boom e le crisi – che cosa li causa?

Le “Recessioni”, i “Crolli” o le “Crisi”, come vengono chiamati in vario modo, sono ora accettati come parte del tutto regolare della vita economica. I politicanti ora razionalizzano tali crisi, descrivendole come una “sofferenza necessaria” che deve essere talvolta sopportata. In definitiva, è l’economia che controlla i politicanti e non il contrario.

Che cos’è una Crisi Economica?

Le crisi economiche sono periodi di crescita economica bassa o perfino negativa. Questo significa che i livelli di produzione sono più bassi e ciò comporta aumento di disoccupazione. Come risultato, la posizione contrattuale dei lavoratori è indebolita e le loro retribuzioni declinano.

Il Cambiamento negli Atteggiamenti

Una volta molti economisti pensavano che le crisi economiche fossero evitabili. Quando Karl Marx disse che il capitalismo inevitabilmente si sviluppa in modo instabile con periodi sia di espansione che di contrazione, la sua teoria fu fieramente respinta da molti.

Nel suo principale lavoro, Il Capitale, Marx formulò la legge fondamentale del progresso capitalista nei seguenti termini:

L’enorme capacità di espansione a grandi sbalzi del sistema delle fabbriche, e la sua dipendenza dal mercato mondiale, hanno per necessario effetto una produzione febbrile e quindi una congestione dei mercati, con la contrazione dei quali subentra una paralisi. La vita dell’industria si trasforma in una successione di periodi di vitalità media, prosperità, sovrapproduzione, crisi e ristagno. (1)

In quel periodo e per alcuni decenni successivi, gli economisti capitalisti reclamarono che le crisi e i crolli non fossero una parte integrante del capitalismo stesso ma piuttosto determinati da interferenze esterne con il libero mercato. Videro le “irregolarità di mercato” quali l’eccessivo potere dei sindacati, le restrizioni sul liberoscambismo o l’incorretta politica monetaria del governo come la causa delle crisi economiche.

Questa visione che se il libero mercato fosse lasciato libero di agire non ci sarebbero crisi di nessun tipo era basata sulla dottrina proposta dall’economista francese dell’inizio del diciannovesimo secolo J. B. Say, secondo la quale

ogni venditore porta un compratore al mercato.

Certamente, se ogni bene prodotto venisse veramente comprato allora non ci sarebbero crisi economiche (questo è vero per definizione). Tuttavia, tale presupposto è basato su un ragionamento difettoso. Marx così lo espone:

Nulla può essere più sciocco del dogma che la circolazione delle merci determini un necessario equilibrio di vendite e acquisti… ciò che è implicito in tale asserzione è che ogni venditore si porta al mercato il suo compratore… Ma non è detto che uno compri immediatamente perché ha venduto. (2)

Alcuni oggi credono ancora nella visione data da Say. I più ora accettano che gli eventi abbiano provato che il libero mercato sia incapace di provvedere alla crescita duratura quanto gli interventi restrittivi statali. Benché la visione marxista sia ora implicitamente accettata, relativamente pochi comprendono il perché.


Marx vs Keynes

Secondo Marx, la divisione nel capitalismo tra i compratori e i venditori di merci innalza la possibilità di crisi e di depressioni economiche, dal momento che i possessori di denaro non sempre trovano nel loro interesse trasformare immediatamente il denaro in merci. Perciò, finché la compravendita, il denaro, i mercati e i prezzi continueranno a esistere, esisterà anche il ciclo economico.

Ai tempi della Grande Depressione degli anni ’30, la maggior parte degli economisti arrivò a essere d’accordo sul fatto che i crolli erano parte integrante del capitalismo, avendo seguito la guida nel loro tempo fornita da John Maynard Keynes. Come Marx prima di lui, Keynes disse che la Legge di Say era insensata e che il libero mercato non portava naturalmente a un punto di equilibrio di piena occupazione con crescita sostenuta. Il capitalismo, disse, se fosse lasciato libero di agire, ristagnerebbe come fece dopo il Crollo di Wall Street dell’ottobre del 1929. Keynes e i suoi seguaci scelsero la visione che, come il capitalismo si sviluppava, la tendenza osservabile del sistema di concentrare la ricchezza in sempre meno mani porterebbe a eccessivo risparmio, al fare provvista di ricchezza e a un declino nella domanda complessiva. Questo subito dopo farebbe piombare il capitalismo in un crollo prolungato.

Keynes, nell’elaborare una dottrina economica con l’intento di influenzare i governi in tutto il mondo, sostenne che l’intervento del governo era necessario per prevenire future crisi. I governi dovevano aumentare le tasse su quelli con meno probabilità di spendere ampie parti del loro reddito, e dirigere i fondi verso quelli che lo facevano. Inoltre, i governi dovevano intraprendere azioni per assicurare un adeguato livello di domanda nell’economia, aumentando la spesa e facendo deficit di bilancio dove necessario.

Il commercio mondiale nel 1932 fu poco più di un terzo di quello che fu prima del Crollo di Wall Street. I due paesi più influenzati furono gli USA, dove la disoccupazione superò i tredici milioni, e la Germania dove si mantenne a sei milioni e aiutò a spingere per la salita al potere di Hitler. In Gran Bretagna più di tre milioni di persone, ossia il venti percento della forza lavoro, nel 1932 erano disoccupate.

I rimedi di Keynes della spesa statale aumentata e dei deficit di bilancio furono messi in pratica dal 1933 in poi negli USA dall’amministrazione dei democratici sotto Roosevelt. La disoccupazione calò per un periodo di tempo, ma non di più di quanto in Gran Bretagna, che non aveva ancora agito in maniera keynesiana e che operò direttamente politiche opposte. Il 1938 vide l’arrivo di una depressione nuova di zecca negli Stati Uniti che diminuì soltanto durante la Seconda Guerra Mondiale. La prognosi iniziale per l’intervento keynesiano non fu perciò buona, anche se l’alternativa del libero mercato sembrava morta e sepolta.

Dopo la seconda guerra mondiale, i vari paesi capitalisti basati sull’impresa privata adottarono le raccomandazioni di Keynes a gradi variabili, essendo guardinghi nei confronti di un’altra possibile Grande Depressione e del tumulto sociale che poteva causare, e fiduciosi che il libero mercato senza impedimenti fosse una cosa del passato. Nonostante ciò, la maggior parte dei paesi continuò con il ciclo economico operando come prima, anche se non c’era nessuna grande depressione. Una delle poche eccezioni fu la Gran Bretagna. Nel Regno Unito la crescita rimase relativamente forte per tutti gli anni ‘50 e ‘60 e la disoccupazione non superò mai le 900.000 unità. I sostenitori delle politiche keynesiane affermarono che fu un trionfo dell’amministrazione della domanda da parte del governo.

La storia susseguente dell’economia in Gran Bretagna fu il provare quanto sbagliate esse fossero. Dopo la guerra la Gran Bretagna aveva raggiunto una posizione relativamente vantaggiosa nel mercato mondiale per molte merci, con i rivali come la Germania e la Francia economicamente devastati. Per del tempo la Gran Bretagna emerse come uno dei maggiori produttori di veicoli a motore, di aeroplani, di prodotti chimici, di corrente elettrica e di altre merci. Per la fine degli anni ‘60, tuttavia, i rivali della Gran Bretagna erano aumentati, facendo competizione sulla base della nuova e migliorata tecnologia che venne introdotta come conseguenza della devastazione del tempo di guerra. Negli ultimi anni ‘60 e nei primi anni ‘70, il classico ciclo economico cominciò a riaffermare se stesso furiosamente sull’economia britannica – alla fine promuovendo un ritorno alle politiche del libero mercato negli anni ‘80. La disoccupazione salì, sfondando la barriera di 1.000.000 per la prima volta dal 1945 sotto il Primo Ministro Edward Health nei primi anni ‘70.

Una Guida Passo dopo Passo

In verità, la sola esistenza della compravendita innalza sempre la possibilità di crisi, ma la spinta ad accumulare capitale – la linfa vitale del capitalismo – assicura che periodicamente le crisi diventino estremamente una realtà, e i politicanti non possono fare nulla per prevenirle. Quando il capitalismo è in fase di boom, le imprese sono in una posizione in cui i loro profitti stanno aumentando, il capitale si sta accumulando e il mercato è affamato di più merci. Ma questa situazione non dura. Le imprese sono in una lotta perpetua per i profitti – hanno bisogno di profitti per essere in grado di accumulare capitale e perciò sopravvivere contro i loro competitori. Durante un boom questo inevitabilmente porta alcune imprese – tipicamente quelle che sono cresciute più rapidamente – a sovraestendere le loro attività per il mercato disponibile.

Nel capitalismo, le decisioni riguardo all’investimento e alla produzione sono prese da migliaia di imprese in competizione che operano senza controllo sociale o regole. La spinta competitiva ad accumulare capitale costringe le imprese a espandere le loro capacità produttive come se non ci fosse alcun limite al mercato disponibile per le merci che stanno producendo.

La crescita non è pianificata ma governata dall’anarchia del mercato. La crescita di un’industria non è collegata alla crescita delle altre industrie ma semplicemente all’aspettativa di profitto, e ciò dà luogo ad accumulazione e crescita sbilanciate fra i vari rami della produzione. L’accumulazione eccessiva di capitale in alcuni settori dell’economia presto appare come una sovrapproduzione di merci. I beni si accumulano, non possono essere venduti, e le imprese che hanno sovraesteso le loro attività devono tagliare sulla produzione.

Come le merci giacciono invendute le rendite e i profitti cadono, rendendo l’ulteriore investimento allo stesso tempo più difficoltoso e meno proficuo. L’accumulazione va in stallo, il risparmio e la tesaurizzazione aumentano e le forze instabili del denaro e del credito presto trasmettono la depressione agli altri settori dell’economia. Quelle che inizialmente erano le imprese sovraestese tagliano sull’investimento e questo porta a una caduta nella domanda per i prodotti dei loro fornitori, i quali a loro volta sono obbligati a tagliare, causando delle difficoltà ai loro fornitori (i fornitori dei fornitori) e così via. I profitti cadono, i debiti crescono e le banche spingono in su i tassi d’interesse e contraggono il loro prestito in una viziosa spirale verso il basso di contrazione economica. In questo modo, ciò che ha inizio come una parziale sovrapproduzione per mercati particolari viene trasformata in sovrapproduzione generale con la maggior parte dei settori dell’industria influenzati.

Le crisi e i crolli immancabilmente seguono questo modello generale. Qualche volta la sovrapproduzione iniziale ha luogo in industrie di beni di consumo, come avvenne nel 1929, e si estende da quel punto. In altri casi, come nella metà degli anni 1970, la sovraestensione iniziale è nel settore dei beni dei produttori dove le imprese producono nuovi mezzi di produzione come l’acciaio industriale o l’apparecchiatura robotica. Nella crisi dei primi anni ‘90 uno dei maggiori fattori fu la sovraestensione del settore della proprietà commerciale e alcune delle appena sorte industrie high-tech. Qualunque sia la causa, il risultato è sempre lo stesso – produzione in caduta, fallimenti in aumento, tagli delle retribuzioni e disoccupazione, con un’annessa crescita nella povertà.

In una crisi vi è simultaneamente un problema di domanda di mercato in caduta accanto ai profitti in declino. Chi prova a occuparsi di un problema (diciamo la domanda dei consumatori) a costo dell’altro (profitti) come hanno fatto i keynesiani, non migliorerà la situazione.

Un numero di cose completamente distinte e separare devono succedere prima che una crisi possa mettere in azione il suo corso. Innanzitutto, il capitale si trova a essere annientato se la capacità produttiva eccessiva deve essere affrontata con capitale svalutato che è comprato a buon mercato da quelle imprese nella migliore posizione per scampare alla crisi. In secondo luogo, facendo in modo che abbia luogo il rifornimento dei bisogni, con merci sovraprodotte accaparrate a buon mercato o ammortizzate completamente. L’investimento non riprenderà, se c’è ancora sovrapproduzione. In terzo luogo, dopo che questo è accaduto vi è la necessità di un incremento del saggio di profitto industriale aiutato sia dai tagli delle retribuzioni reali che dalla caduta dei tassi d’interesse (che decrescono naturalmente quando la domanda per più capitale monetario diventa meno intensa nella crisi). Questo aiuterà a rinnovare l’investimento e ad aumentare l’accumulazione. Inoltre, se si vuole che il recupero sia sostenuto, un’ampia parte del debito fatto durante gli anni del boom dovrà essere liquidata, se non esiste per agire come un erpice sulla futura accumulazione. Attraverso questi meccanismi una crisi aiuta a costruire le condizioni per la futura crescita, liberando il capitalismo delle unità inefficienti di produzione.

Ciclo Continuo

Quando questi processi hanno messo in azione il loro corso, l’accumulazione e la crescita possono iniziare un’altra volta con il capitalismo che crea ancora una situazione di boom che sarà inevitabilmente seguita da una crisi e da un crollo. Questa è stata la storia del capitalismo da quando si è sviluppato per la prima volta. Nessun intervento riformatore da parte dei governi – per quanto sinceri – ha impedito o può impedire a questo ciclo di operare. I sostenitori del laissez faire e il libero mercato hanno fallito e così gli interventisti keynesiani. Oggi, quando si trovano di fronte al ciclo economico, i sostenitori del capitalismo non hanno nulla da gestire.

Il ciclo economico dimostra l’impotenza dei riformisti e dei politici, ed è un ulteriore stato d’accusa del sistema capitalista nel complesso, che porta miseria per milioni di lavoratori i quali perdono i loro lavori, vanno in fallimento o si trovano con le loro retribuzioni ridotte e le loro condizioni di lavoro peggiorate. E lontano dall’essere un’aberrazione, questo ciclo di miseria è il ciclo naturale del capitalismo.

Regno Unito, agosto 1996

Fonti:
(1) Il Capitale – Libro Primo, K. Marx, Capitolo 13 – Macchine e grande industria, Par. 7
(2) Il Capitale – Libro Primo, K. Marx, Capitolo 3 – Il denaro e la circolazione delle merci, Par. 2

(Traduzione da www.worldsocialism.org)

giovedì 22 luglio 2010

Attacchi soggettivi degli “economisti” borghesi all’analisi marxiana

“L’interpretazione delle intenzioni degli scritti dei defunti è sempre un’impresa discutibile, particolarmente perché gli autori defunti non si possono difendere da sé. Però ci sono dei casi in cui una lettura attenta degli scritti pertinenti indica che l’autore parlò in sua difesa e parlò molto chiaramente – il problema in questi casi sembra essere qualcosa in merito alla presentazione originale che previene molti lettori anche alcuni dei più attenti, dal vedere cosa l’autore intendeva” (W.J. Baumol, the transformation of values: What Marx “Really” Meant (An Interpretation), Journal of Economic Literature, 1974).

Quel qualcosa di cui Baumol parla è la soggettività dell’ideologia borghese che previene l’economia politica (borghese) dal diventare scienza.

Per dirla con le parole di Marx stesso:

“L’economia politica, dato che è borghese, cioè dato che intende l’ordinamento capitalistico, invece che come grado di sviluppo storicamente temporaneo, addirittura al contrario come forma assoluta e ultima della produzione sociale, può restare scienza solo fino a che la lotta delle classi rimane latente o appare solamente in casi sporadici” (K. Marx, Il Capitale, prefazione alla prima edizione, 1867).

Di certo l’economia politica non rimase scienza a lungo.

“(nel 1830)…la borghesia aveva conquistato il potere politico in Francia e in Inghilterra. Da allora la lotta tra le classi raggiunse aspetti sempre più netti e minacciosi, sia in pratica che in teoria. Quella lotta suonò la campana a morto per la scienza economia borghese.” (K. Marx, Il Capitale, poscritto alla seconda edizione, 1873).

È di quella lotta teorica che Marx aveva già previsto che ci occupiamo qui.

Il punto cardine attorno il quale l’economia capitalistica ruota è, come individuato da Marx per primo, che la forza lavoro (fornita dal lavoratore) crea il valore delle merci (teoria del valore) e che grazie a una parte di questa forza lavoro non pagata (teoria del plusvalore) il capitalista (padrone) trae il suo profitto.

Marx aveva anche individuato la contraddizione del capitalismo generatrice delle crisi. Nel sistema capitalistico vi è una tendenza a diminuire la forza lavoro impiegata nella produzione, determinando in ultima analisi una caduta tendenziale del saggio di profitto, che alla lunga determina la crisi economica.

Marx illustra chiaramente che il capitalismo si basa sul lavoro non pagato e tende alla crisi.

Ovviamente il pensiero economico borghese, il quale sostiene che il capitalismo sia comunque la “forma assoluta e ultima della produzione sociale”, attacca l’analisi marxiana opponendo ad essa una critica teorica soggettiva.

L’esempio più significativo che tuttora viene proposto agli studenti di economia politica è il così detto problema della trasformazione dei valori in prezzi.

Qui il MSM riporta un importante testo marxista scritto da Guglielmo Carchedi che chiaramente illustra la soggettività e l’ingenuità su cui si basa tale critica borghese.

Ci vuol ben altro per far vacillare le basi scientifiche del marxismo.

I lavoratori socialisti hanno delle basi solide per la lotta contro il capitale!


Il problema inesistente: la trasformazione dei valori in prezzi
in parole semplici


Guglielmo Carchedi 2001

Università di Amsterdam


È da quando uscì postumo il terzo volume del Capitale di Carlo Marx che economisti di varie scuole hanno scoperto e riscoperto una ‘contraddizione’ nell’economia marxista che ne invaliderebbe le fondamenta. Si tratta del cosiddetto problema della trasformazione dei valori in prezzi. Lo scopo di questa breve nota è duplice. Primo, fare uno schema dell’essenza del cosiddetto problema per i ‘non-addetti ai lavori’, vale a dire in termini comprensibili a tutti. Secondo, dimostrare che il problema, se c’è, e solo nelle menti confuse dei critici di Marx. Premetto che quanto segue è solo ciò che è strettamente necessario per capire il dibattito sulla trasformazione.
Che cos’è dunque la trasformazione? Nella teoria di Marx, il valore di una merce è dato dal valore dei mezzi di produzione, chiamati capitale costante, dal valore della forza lavoro, chiamato capitale variabile, e dal plusvalore creato dai lavoratori. Se V è il valore della merce, c quello del capitale costante, v quello del capitale variabile e s è plusvalore, il valore di una merce è V = c+v+s. Consideriamo adesso due settori rappresentati dalle merci che essi producono, e chiamiamoli V1 e V2. Ciascuno di essi ha bisogno del suo c e del suo v e produce il suo s.
In tal caso

V1 = c1+v1+s1
V2 = c2+v2+s2.

Diamo adesso dei valori a questa notazione astratta. Per esempio, se i valori del capitale investito sono espressi in percentuali (cosicché il totale del capitale costante più quello variabile è uguale a 100)

Settore 1: V1 = 80+20+20 = 120

Settore 2: V2 = 60+40+40 = 140

In questo schema, il settore 1 impiega capitale costante per un valore di 80 e capitale variabile per un valore di 20. Si presuppone che il plusvalore prodotto sia uguale al valore della forza lavoro (il capitale variabile). Questo implica un tasso di plusvalore (il rapporto tra plusvalore e capitale variabile) uguale a 20/20 = 100%. La stessa ipotesi è fatta per il plusvalore prodotto nel settore 2 in cui il valore del capitale costante è 60 e quello del capitale variabile è 40. Quindi il plusvalore prodotto è di 40.
Fino a qui abbiamo supposto che in ciascuno dei due settori vi sia solo un produttore. Supponiamo adesso che in ciascuno di questi settori vi siano più produttori (tutti i produttori nello stesso settore impiegano la stessa percentuale di c e v e in entrambi i settori il tasso di plusvalore è del 100%). Introduciamo la nozione di tasso di profitto. Quando un’impresa vende i suoi prodotti, ricava un certo plusvalore che, diviso per la somma del capitale investito (c+v), da il tasso di profitto. Supponiamo che la domanda sia distribuita in modo tale che ciascun settore realizzi il plusvalore in esso prodotto. In tal caso il settore 1 ha un tasso di profitto uguale a 20/100 = 20% e il settore 2 di 40/100=40%. Ora, se le imprese nel settore 1 ricavano un tasso di profitto inferiore a quelle nel settore 2, vi sarà una tendenza a disinvestire nel primo settore e a investire nel secondo. La produzione e quindi l’offerta nel settore 1 diminuisce e quella nel settore 2 aumenta. Se la distribuzione della domanda (cioè del potere d’acquisto) tra i due settori è invariata, i prezzi aumentano nel settore 1 e cadono nel settore 2. Lo stesso vale per i tassi di profitto: il tasso nel settore 1 cresce al di sopra del 20% e quello nel settore 2 cade al di sotto del 40%. Cioè vi è una tendenziale perequazione dei tassi di profitto verso (20+40)/(80+20+60+40)= 60/200 = 30%. [1]
Tuttavia, una distribuzione della domanda tale che ciascun settore realizzi esattamente il plusvalore in esso prodotto è puramente accidentale. In realtà, la distribuzione della domanda e quindi i prezzi dei due settori saranno diversi da quelli appena ipotizzati. Come prima ipotesi di lavoro supponiamo che essi siano tali che i due settori realizzano il tasso medio di profitto del 30% (conseguentemente, non vi è movimento di capitali). In tal caso, ciascun impresa del settore 1 venderà i suoi prodotti per 130 e lo stesso vale per le imprese del settore 2. Ossia, i lavoratori di ciascun impresa nel settore 1 producono un plusvalore di 20 ma quell’impresa ricava un plusvalore uguale a 30 mentre i lavoratori di ciascun’impresa nel settore 2 producono un plusvalore di 40 ma tale impresa ricava un plusvalore di 30. Vendendo a tali prezzi, ciascun’impresa nel settore 1 si appropria di un plusvalore aggiuntivo di 10 e ciascun’impresa del settore 2 perde un plusvalore di 10. La trasformazione dei valori in prezzi è tutta qui: è una redistribuzione del plusvalore totale prodotto tale che i settori a basso tasso di profitto vendono ad un prezzo che assicura il tasso medio di profitto (30%) e i settori ad alto tasso di profitto vendono ad un prezzo che riduce il loro tasso alla media. Si noti che la media è solo un esempio. Ogni altro valore entro 120 e 140 andrebbe ugualmente bene. Il vantaggio di ipotizzare la media è che ci permette di astrarre dai movimenti di capitale e quindi di focalizzare la nostra attenzione sull’appropriazione di valore attraverso il sistema dei prezzi. La trasformazione quindi non è nient’altro che la teoria della formazione dei prezzi in Marx che a sua volta non è nient’altro che la differenza tra valore prodotto e appropriato. Niente di trascendentale.
Tra parentesi, l’appropriazione di valore dovuta ad una struttura di domanda ed offerta tale che ciascun settore realizza o di più o di meno del plusvalore prodotto (l’ipotesi di cui sopra) è chiamata ‘scambio diseguale’ (una nozione da non confondersi con quella di Emmanuel). Questa nozione è importante non tanto perché spiega l’appropriazione di valore nelle condizioni sopra ipotizzate quanto perché (1) ci permette di focalizzare l’attenzione sull’essenza della trasformazione dei valori nei prezzi e perché (2) tale spiegazione è il punto iniziale che ci permette di rivelare l’appropriazione di valore in seguito alle innovazioni tecnologiche e a prezzi costanti nei settori innovativi (la causa ultima delle crisi economiche). Ma quest’argomento non può essere trattato qui. Ritorniamo alla trasformazione.
Introduciamo ora la dimensione temporale. A ciascuna produzione segue la distribuzione (vendita) e il consumo dei beni prodotti. La economia è quindi un susseguirsi di periodi che iniziano con l’ acquisto dei beni necessari (gli inputs), che prosegue con la loro trasformazione (produzione), e che finisce con la vendita e consumo del prodotto (output). Chiamiamo t1 il momento iniziale (acquisto degli inputs) del primo periodo e t2 quello finale (vendita e consumo degli outputs). Al momento t1 le imprese del settore 1 comprano mezzi di produzione per 80 e forza lavoro per 20. A t2 vendono un prodotto per 130. In maniera simile, a t1 le imprese del settore 2 comprano mezzi di produzione per 60 e forza lavoro per 40 e a t2 ricavano 130. A t2, i capitalisti del settore 1 consumano 30 e accantonano 100 per ricominciare un nuovo periodo. Lo stesso vale per i capitalisti del settore 2. Il nuovo ciclo incomincia a t2 (se si suppone, per semplificare le cose, che la data della fine del primo ciclo coincide con quella dell’inizio del secondo ciclo) e finisce a t3. E cioè a t2 ciascun’impresa compra gli inputs per un totale di 100 e a t3 vende gli outputs per 130. E cosi via. Questo è il cosiddetto schema di riproduzione semplice (in cui il plusvalore è completamente consumato dai capitalisti invece di essere parzialmente reinvestito in addizionale c+v, come nella riproduzione allargata).
Questo schema dell’attività economica è estremamente semplificato ma contiene in nuce tutti gli elementi per essere esteso a situazioni sempre più complesse. Le sue potenzialità per capire il capitalismo dal punto di vista del proletariato sono immense, ed è proprio per questo che è stato attaccato e continua d’essere attaccato dalla ‘scienza’ economica la cui matrice ideologica è esattamente l’opposta di quella di Marx. Vediamo in che consiste tale critica. Consideriamo l’esempio di cui sopra

Settore 1: valore prodotto = 80+20+20 = 120 Valore realizzato = 130

Settore 2: valore prodotto = 60+40+40 = 140 Valore realizzato = 130

Supponiamo ora che i due settori rappresentino l’economia di un paese (l’introduzione di più settori renderebbe tale esempio più realistico ma due settori sono sufficienti per capire la questione). La critica verte sui seguenti tre punti. Primo, c’è la domanda su cui molti si sono spremuti le meningi: che cos’è il valore e come si misura? La risposta per Marx è molto semplice. Il valore è lavoro umano eseguito entro relazioni economiche capitalistiche, cioè eseguito da coloro che non sono i proprietari dei mezzi di produzione per i proprietari di tali mezzi. Molto dovrebbe essere aggiunto, ma questa è l’essenza.
Quindi il valore ha sia un aspetto naturalistico (e in questo senso il lavoro è la sostanza del valore) sia un aspetto socialmente determinato. Bene, dicono i critici, ma per Marx il lavoro semplice conta meno di quello complesso e il lavoro più intenso conta più di quello meno intenso.
Questa tesi è stata criticata, come al solito, semplicemente perché non è stata capita. Consideriamo prima il valore prodotto dal lavoro semplice e da quello complesso. La forza lavoro del lavoratore non-qualificato, (per esempio, lo spazzino) richiede meno tempo per essere prodotta, per esempio un più basso livello di scolarità, di quella del lavoratore qualificato (per esempio, l’ingegnere). Se alla società creare un ingegnere costa un multiplo del tempo necessario per creare uno spazzino, ogni volta che un ingegnere è creato e come se venissero creati diversi spazzini (diversi spazzini non potrebbero fare il lavoro dell’ingegnere ma ciò è irrilevante, dato che è l’aspetto quantitativo e non quello qualitativo che conta in questo contesto). Quindi, ogni volta che un ingegnere lavora per un’ora è come se lavorassero diversi spazzini per un’ora. E per questo che il lavoro della forza lavoro qualificata (lavoro complesso) conta come un multiplo del lavoro della forza lavoro non-qualificata (lavoro semplice). Per quanto riguarda l’intensità del lavoro, uno spazzino (e lo stesso vale per l’ingegnere) che lavora ad una intensità doppia di quella di un altro produce un valore uguale a quello di due spazzini più ‘pigri’. Infatti, ci vorrebbero due di questi ultimi per produrre quello che produce lo spazzino più alacre. Questa è la tesi di Marx.
Pur ammettendo che tale tesi sia giusta, dicono i critici, siccome noi non possiamo osservare tipi diversi di lavoro, il concetto di valore non può essere empirico e diventa metafisico. Questa è una sciocchezza bella e buona. Che i diversi tipi di lavoro non siano osservabili è solo ed unicamente una conseguenza di un sistema di rilevazioni statistiche che (non a caso) non si presta a tale tipo di osservazioni. Date le risorse ad un gruppo di ricercatori e loro vi produrranno un sistema di rilevazione del lavoro adatto a misurare il valore prodotto da ciascun lavoratore (si veda il volume curato da A.Freeman e G.Carchedi, Marx and Non-Equilibrium Economics, Edward Elgar, 1996, capitolo 7).
La seconda critica è chiamata pomposamente la ‘regressione ad infinitum’, un nome tale da incutere timore. E cioè, dicono i critici (tra cui penne illustri, come Joan Robinson), per calcolare il valore del prodotto di un certo periodo, bisogna sapere il valore degli inputs, per esempio dei suoi mezzi di produzione. Ma questi sono stati a loro volta outputs del periodo precedente. Quindi per calcolare il loro valore dobbiamo fare un ulteriore passo indietro nel tempo, e cosi via presumibilmente fino alle origini della vita. Questa è una sciocchezza ancora maggiore. Come ho argomentato più volte, questo criterio renderebbe impossibile qualsiasi tipo di scienza e di conoscenza (compresa la storia). Ogni tipo di scienza deve prendere un certo punto di partenza come dato. Per esempio, per capire le origini del capitalismo devo prendere il feudalesimo come un dato punto di partenza. Se, per capire il capitalismo, penso che sia necessario indagare anche sulle origini del feudalesimo, allora devo prendere l’epoca precedente come data. Ma alla fine dovrò fermarmi e prendere un certo punto come dato. Similmente, uno psichiatra che indaghi sui problemi del suo paziente può pensare che sia necessario esaminare la psiche dei suoi genitori. Eventualmente potrebbe fare un passo indietro nell’albero genealogico del paziente ma alla fine si dovrà fermare. Per tornare a noi, per calcolare il valore di un prodotto devo prendere quello dei suoi inputs come dati. Anche se volessi fare ulteriori passi indietro, ad un certo punto dovrò pure prendere gli inputs di un certo periodo come dati. E incredibile ma vero: è con questo tipo di balbettio metodologico che un gigante come Marx viene attaccato.
La terza ed ultima critica richiede un certo impegno per essere seguita. Supponiamo che il settore 1 produca beni di investimento (macchine, ecc.) e che il settore 2 produca beni di consumo (vestiti, cibo, ecc.). Questo è il modello più semplice di un’economia. Consideriamo il settore 1. Esso vende i mezzi di produzione da esso prodotti per un valore di 130, sia al suo interno che al settore 2. Ora, dicono i critici con l’aria di chi ha avuto una grande pensata, anche un bambino sa che lo stesso prodotto è comprato dal compratore per un certo prezzo è venduto dal venditore allo stesso prezzo. Nell’esempio precedente, 130 è il valore a cui sono venduti i mezzi di produzione ad entrambi i settori ed ovviamente dovrebbe essere il valore pagato dai compratori. Pero i mezzi di produzione sono comprati dai capitalisti nel settore 1 per un valore di 80 e nel settore 2 per un valore di 60. Il totale è 140. Voilà, ecco la prova definitiva dell’incoerenza del pensiero di Marx. I capitalisti comprano i mezzi di produzione per 140 ma li vendono per 130. Il prezzo ricevuto dal venditore non è lo stesso del prezzo pagato dal compratore. È questa l’essenza della critica della circolarità, la critica maggiormente diffusa ed accettata della teoria marxista della trasformazione dei valori in prezzi. Fu originariamente proposta da Bohm- Bawerk, ripetuta, con una ‘soluzione’ che accettava la validità della critica, da von Bortkiewicz, e, ahimè, accettata e diffusa nei circoli marxisti dall’influente economista marxista Paul Sweezy nel secondo dopoguerra. Dopo di loro, intere biblioteche sono state scritte su questo ‘problema’ come se il problema esistesse veramente e numerose soluzioni sono state trovate ad un problema che non esiste. Ma le cose stanno diversamente e per ben due motivi.
Primo, la discrepanza (tra 130 e 140) è dovuta al fatto che negli esempi di cui sopra (e per estensione in tutte le discussioni sulla trasformazione) il capitale costante e quello variabile sono espressi in percentuali piuttosto che nei loro valori assoluti (vedi sopra). Questi valori percentuali sono stati implicitamente considerati dai critici come valori assoluti e quindi sono stati fatti contare come una unità di capitale investito per settore. Ma se si ipotizzano diverse unità di capitale investito nei vari settori, il problema sparisce.
Vediamo perché.
Consideriamo il periodo t1-t2. Se entrambi i settori hanno comprato mezzi di produzione a t1 per 60+80=140 è ovviamente perché tali mezzi di produzione erano allora disponibili a quei prezzi (indagare sulla formazione di questi prezzi significherebbe accettare la validità della regressione ad infinitum). Se, durante il periodo t1-t2, il settore 1 produce mezzi di produzione che vende a t2 solo per 130 vuol dire (1) o che la produzione è calata (e con essa è anche calato il potere d’acquisto, la domanda, per tale offerta) cosicché a t2 (come inizio del periodo t2-t3) i mezzi di produzione che possono essere comprati avranno un prezzo di 130 (2) o che nel settore 1 operavano più di una unità di capitale e quindi la quantità di capitale investito e i mezzi di produzione prodotti sono tali per cui il prezzo totale dei mezzi di produzione è 140. Ciò non può essere visto perché l’esempio considera implicitamente solo una unità di capitale investito invece di mostrare il capitale effettivamente investito, cioè l’esempio mostra le percentuali invece dei valori assoluti. La critica non comprende l’ipotesi su cui si basa la teoria marxista della trasformazione.
Per di più, anche se si considerano valori percentuali, cioè solo una unità di valore investito per settore, per ciascun esempio in cui c’è una ‘discrepanza’ come sopra, un altro esempio può essere fatto in cui tale ‘discrepanza’ non esiste. Nell’esempio di cui sopra basta ipotizzare che il settore 1 investe 73.3c e 26.7v per ottenere i seguenti risultati

Settore 1: 73.3c+26.7v+26.7s = 126.7

Settore 2: 60.0c+40.0v+40.0s = 140.0

133.3c+66.7v+66.7s = 266.7

Dopo la perequazione del tasso di profitto (66.7/200=0.33), ciascun settore realizza un valore pari a 133.3. Quindi il settore 1 vende i mezzi di produzione a 133.3 e entrambi i settori li comprano a 73.3+60.0=133. [2].
Secondo, abbiamo visto che non vi è ‘discrepanza’ tra i valori dei mezzi di produzione comprati e venduti. Vediamo ora perché i critici hanno potuto pensare che vi fosse tale discrepanza, cioè perché il metodo di Marx sia presumibilmente affetto da circolarità. La ragione è che la critica si basa su un madornale errore logico. Consideriamo il primo periodo, t1-t2. A t1 le imprese di entrambi i settori comprano mezzi di produzione per 80+60=140. Con tali mezzi di produzione nuovi mezzi di produzione vengono prodotti dalle imprese del settore 1 che li vendono (sia all’interno del loro stesso settore che al loro esterno, al settore 2) per 130. Cioè, indipendentemente dai valori a cui sono comprati e venduti, i mezzi di produzione comprati a t1 (che servono per il periodo t1-t2) non sono gli stessi di quelli venduti a t2 (che servono per il periodo t2-t3). Tuttavia, la supposta circolarità nel metodo di Marx si basa sull’assurda ipotesi che i mezzi di produzione comprati a t1 sono gli stessi di quelli venduti a t2. Ciò è evidente se si considera l’affermazione su cui si basa la critica della circolarità secondo cui nel metodo marxiano gli stessi mezzi di produzione sono venduti ad un prezzo e comprati ad un altro prezzo (vedi sopra).
In altre parole, la critica sarebbe valida se i mezzi di produzione prodotti dal settore 1 nel periodo t1-t2 (quindi venduti da tale settore per 130 al momento t2) fossero comprati da entrambi i settori non al momento t2 ma al momento t1 (quindi per 140). In questo caso essi sarebbero contemporaneamente venduti per 130 ma comprati per 140. Ma questo significa sovrapporre i due momenti t1 e t2, significa cioè abolire il tempo. Questa è la contro-critica che rivela la vacuità del cosiddetto problema della circolarità nella trasformazione dei valori in prezzi. Tale contro-critica, da quando è stata formulata negli anni 80 (si veda G. Carchedi, The Logic of Prices and Values, Economy and Society, Vol.13, No.4, 1984 e G. Carchedi, Frontiers of Political Economy, Verso, London, 1991, ch. 3) ad oggi non è mai stata ribattuta. Si continua a parlare del ‘problema’ della trasformazione e a trovare delle ‘soluzioni’ la cui assurdità metodologica è direttamente proporzionale al poderoso arsenale matematico impiegato.
Concludendo, ridotta alla sua essenza, la questione è semplice. In una concezione in cui il tempo non esiste,la teoria di Marx è incoerente. Ma in una teoria in cui il tempo esiste è la critica a Marx che è incoerente.
Ciascuno faccia la sua scelta.

Note

[1] N.d.R.: ovviamente il ragionamento è valido qualsiasi siano i valori scelti.
[2] N.d.R.: come già annotato in precedenza, la critica al simultaneismo non dipende dall’esempio, numerico scelto ma è valida qualsiasi siano i valori di riferimento adottati.

Lavoro astratto

“Marx, grazie al concetto del lavoro astratto, basa tale lotta su solide fondamenta oggettive che spiegano sia il movimento oggettivo del capitalismo verso il proprio superamento che la possibilità per il Lavoro di sviluppare una sua soggettiva alternativa conforme a tale oggettività” (G. Carchedi, Il contenuto di classe della teoria autentica di Marx, 2009).

Marx nella prefazione alla prima edizione del Capitale (Volume I, 1867) ammette che

“la comprensione … della sezione che comprende l’analisi della merce (presenta)… la difficoltà maggiore…”

Data l’importanza del concetto del lavoro astratto per la lotta di classe come sottolineato da Carchedi, molti sono stati i tentativi da parte dell’economia politica borghese di screditarlo, indebolendo così le fondamenta teoriche su cui si basa la lotta socialista.

Per questo motivo il Movimento Socialista Mondiale ripropone il concetto di lavoro astratto così come presentato da Marx nel primo capitolo del primo volume del Capitale.

Seguiamo quindi il ragionamento di Marx:

“La merce … è un oggetto … che … soddisfa bisogni umani di qualunque specie. ... L’utilità di una cosa fa che essa abbia un valore d’uso. Ma questa utilità non è campata in aria, è una determinazione della qualità del corpo di una merce e non esiste senza di esso.”

p.es. un sedia serve per sedersi (il suo uso è quello di fornire un posto a sedere), una mela serve per nutrirsi (il suo uso è quello di nutrire).

“I valori d’uso formano il contenuto materiale della ricchezza, qualunque sia la sua forma sociale. Nella forma di società, che noi dobbiamo esaminare (n.d.a quella capitalista) essi sono nello stesso tempo i depositari materiali del valore di scambio.”

p.es una sedia o una mela servono da sedia o da mela sia che siamo in un sistema feudale sia che siamo in un sistema mercantile o capitalista. Ma sul mercato se si vuol scambiare tale sedia ci vorranno diversi chili di mele per ottenere uno scambio equo.

Se il valore d’uso rappresenta la qualità della merce

“il valore di scambio si mostra dapprima come il rapporto quantitativo, come la proporzione nella quale valori d’uso di un tipo si scambiano con valori d’uso d’altro tipo, e tale rapporto muta in continuazione coi tempi e con i luoghi”

p.es 1 sedia si scambia equamente con 50 chili di mele, i valori d’uso in gioco sono il sedersi e il nutrirsi ma i valori di scambio sono 1 a 50. E’ ovvio che questo rapporto 1 a 50 non è fisso ma può oscillare.

Nel sistema capitalista una volta ricordato che per essere merce un oggetto deve avere una certa utilità (valore d’uso) nello scambio tra merci quello che conta è solo il valore di scambio.

“…se non si considera il valore d’uso dei corpi delle merci, rimane loro una sola qualità quella di essere prodotti del lavoro. Ma già il prodotto del lavoro ci si è trasformato non appena lo abbiamo nella mano.”

Questo è il punto cardine del ragionamento di Marx, la merce è prodotto del lavoro umano, ma il contributo umano nel trasformare una cosa senza valore d’uso in una cosa con valore d’uso, ovvero il lavoro impiegato, rimane nella merce. Per esempio abbiamo della farina e dell’acqua, per fare della pasta c’e’ bisogno di unire questi due ingredienti e impastarli fino a farli diventare omogenei. Il lavoro impiegato per trasformare la farina e l’acqua in pasta non è visibile (è astratto) ma il risultato, ovvero la pasta, è visibile e tangibile e sicché la pasta ha un valore d’uso, il nutrire, essa può essere scambiata come merce.

“se tralasciamo il suo valore d’uso, tralasciamo anche le parti fondamentali e le forme corporee che lo fanno valore d’uso … viene meno insieme al carattere di utilità dei prodotti del lavoro anche il carattere di utilità dei lavori in essi rappresentati, vengono meno quindi anche le svariate forme concrete di tali lavori, le quali non si distinguono più, bensì sono tutte ricondotte al medesimo lavoro umano, a lavoro umano astratto”

p.es se ho bisogno di 10 minuti per impastare 1 chilo di farina e mezzo bicchiere d’acqua e 30 minuti per riparare una bicicletta e non considero che la pasta ha una diversa utilità della bicicletta, ho investito 3 volte più lavoro nella bicicletta che nella pasta. I tipi di lavoro impastare e riparare sono totalmente diversi, ma nella mezzora in cui riparavo la bicicletta avrei potuto impastare 3 chili di pasta.

“Nulla resta (dei prodotti del lavoro) tranne una eguale fantastica oggettività, una pura gelatina di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di forza lavorativa umana senza badare alla forma del suo dispendio … Nella produzione è stata spesa forza di lavoro umano, vi è accumulato lavoro umano.”

La conclusione a cui Marx arriva è quindi che:

“Un valore d’uso o bene ha valore solo in quanto viene oggettivato, o materializzato, in esso astratto lavoro umano. Come misurare allora la grandezza del suo valore? Per mezzo della quantità della sostanza che crea valore, cioè del lavoro, che è contenuta in esso. La quantità del lavoro si misura a sua volta con la sua durata nel tempo.”

Perché questo è importante?

Perché il lavoro produce valore e nel sistema capitalista una parte di questo valore viene sottratto al lavoratore (plusvalore) durante il processo di produzione. Questa parte di valore, essendo lavoro non pagato, è quella che in ultima analisi va a costituire il profitto del capitalista.
Inoltre questo è importante perché è l’origine della contraddizione del sistema di produzione capitalista.

“…per Marx il (plus)valore aumenta o diminuisce nella misura in cui il lavoro astratto aumenta o diminuisce e la diminuzione percentuale del lavoro astratto è la tendenza mentre il suo aumento è la controtendenza.” (G. Carchedi, Il contenuto di classe della teoria autentica di Marx, 2009).

In altre parole il capitalismo tende ad aumentare la produttività attraverso le innovazioni tecnologiche tendendo a diminuire il contributo umano alla produzione (diminuzione di lavoro astratto). Dato che il valore e il plusvalore derivano dal lavoro astratto (ogni tipo di lavoro), una sua diminuzione determina una tendenza alla caduta del saggio di profitto.

La caduta tendenziale del saggio di profitto determina la crisi economica, infatti il capitalismo quindi tende ciclicamente alla crisi.

Socialismo, Comunismo, Leninismo, Keynesismo

In primo luogo la distinzione tra socialismo e comunismo è un concetto assente in Marx per una ragione molto semplice, tale distinzione è un’invenzione di Lenin. Ma non del Lenin prerivoluzione di ottobre. Tale distinzione infatti è assente nell’articolo dell’“Enciclopedia” su Marx scritto da Lenin alla vigilia della prima guerra mondiale (1914) dove parla solamente di socialismo. Lenin fa questa distinzione tra socialismo e comunismo nel testo “I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione” (1917), affermando che “il socialismo si deve inevitabilmente sviluppare… gradualmente in comunismo”. Egli si riferisce alla nota del manifesto (fine della seconda sezione), identificando il “socialismo” con la “prima fase del comunismo” di Marx (K. Marx, Critica al Programma di Gotha, 1875). L’idea del socialismo come transizione tra capitalismo e comunismo non si basa su testi di Marx (P. Chattopadhyay, Economic Content of Socialism in Lenin, is it the same as in Marx? 1991).
Chiarito questo punto il MSM ci tiene a precisare che Marx non ha dubbi sul fatto che in una società comunista o socialista “il capitale monetario sarà completamente eliminato e insieme con esso saranno eliminati i travestimenti che esso assume nelle operazioni (economiche).” (K. Marx, Il Capitale, vol. II capitolo 2).

La storia chiaramente mostra che il partito bolscevico rovesciò la borghesia russa (utilizzando la questione agraria e il malcontento dei soldati-marinai) diventando una forza dittatoriale. Tale dittatura non fu del proletariato (ovvero della classe dei lavoratori) ma sofferta dal proletariato (imposta ai lavoratori). Il partito formato da un’avanguardia di rivoluzionari di professione non è l’unico “difetto” del leninismo, ma un tratto delineante della sua indole borghese, come direbbe Rosa Luxembrug, “giacobina”. Tale concetto non arriva dalla filosofia marxista, la quale è dalla parte dei lavoratori, ma dalla filosofia borghese Černyševskiana. Lenin sostituisce un’oligarchia dominante con un'altra. Per il lavoratore russo nulla era cambiato dal punto di vista dell’assoggettazione al capitale. La cosa che cambiò veramente fu che con la scusa del socialismo, i lavoratori persero ogni sorta di potere contrattuale: “ogni interferenza diretta dei sindacati nella direzione delle fabbriche dev’essere considerata decisamente dannosa e non permissibile” (V. I. Lenin, Role and Functions of the Trade Unions Under The New Economic Policy, Decision Of The C.C., R.C.P.(B.), 1922) e ancor peggio ogni sorta di diritto umano.

Maestro degli slogan Lenin usò la spontaneità dei consigli (soviet) di cui diffidava per conservare il potere politico. Lenin inoltre adottò a pieno la visione errata della Seconda Internazionale secondo cui il socialismo è una sorta di capitalismo di Stato. Marx aveva parlato di “accentramento di credito nelle mani dello Stato per mezzo di una banca nazionale” (nazionalizzazione), ma questo non era il socialismo ma il passaggio dalla proprietà borghese alla proprietà “degli individui associati” (Manifesto del partito comunista, K. Marx e F. Engels, 1848). Lenin confondeva la proprietà borghese con la proprietà privata in generale. Ciò derivava dal fatto che dal punto di vista economico, quando si atteneva a Marx, Lenin non riusciva a concepire nulla più di quanto era stato già scritto. Lenin creò quindi un sistema centralizzato e burocratico dal quale Stalin ne uscì come una sua naturale creatura.

Per non parlare del fatto che Lenin si oppose aspramente ai marxisti che coerentemente ritenevano che un paese arretrato come quello russo non poteva saltare la fase capitalistica, riconoscendo poi con la NEP l’errore… “Noi…pensavamo di stabilire – direttamente comandato dallo stato proletario – lo stato di produzione e distribuzione dei prodotti su linee comuniste in un piccolo paese di contadini. La vita ha mostrato il nostro errore” (per la fonte vedi P. Chattopadhyay, Economic Content of Socialism in Lenin, is it the same as in Marx? 1991). Non considerando che quando interpellato sul merito da Vera Ivanovna Zassulich, Marx si era mostrato molto cauto, affermando che “l’inevitabilità storica di questo processo è quindi esplicitamente limitato ai paesi dell’Europa Occidentale […] L’analisi nel “Capitale” non contiene una sola prova – né a favore né contro la vitalità della comunità di villaggio. Ma lo studio speciale che ho condotto sull’argomento e per il quale ho fatto uso di materiale originale, mi ha dato la convinzione che questa comunità di villaggio è alla base della rinascita della società Russa.” (K. Marx, Lettera di Karl Marx a Vera Ivanovna Zassulich, 1881).
Per quanto riguarda il valore, quando i mezzi di produzione e di distribuzione della ricchezza diventano proprietà comune dei produttori socializzati la legge del valore perde di senso, “tutta l’economia o è regolata dalla legge del valore o non è regolata dalla legge del valore. Non è possibile dire con Stalin, per esempio, che la legge del valore regola la sfera del consumo ma non la sfera della produzione; la legge o regola l’intera economia o non ne regola neppure una parte” (P. Mattick, Marx e Keynes, i limiti dell’economia mista, 1972). Inoltre, in accordo con Marx, il MSM ritiene che il modo di distribuzione dipende dal modo di produzione.

Il MSM ribadisce che come il keynesismo non favorisce il passaggio dal capitalismo al socialismo dal punto di vista economico non lo favorisce neanche dal punto di vista sociale.
Il keynesismo mette gli interessi dell’economia borghese in generale davanti agli interessi dei singoli capitalisti. Lo Stato (borghese) è lo strumento attraverso il quale tale mediazione, economia generale-singolo capitalista, avviene. Il keynesismo è applicato dalla classe capitalista fin quando è in grado di assicurare la realizzazione di profitto.
Anche se Keynes ha elaborato la sua teoria per il capitalismo maturo (paesi economicamente sviluppati) tale teoria ha effetti anche sui precapitalismi e/o capitalismi sottosviluppati.
Nel capitalismo maturo lo Stato, mediante la tassazione, le imprese statali e il prestito, finanzia, con il debito pubblico, le opere pubbliche a spese del capitale privato. Tale interevento statale è atto a diminuire temporaneamente la disoccupazione e aumentare temporaneamente il consumo (domanda effettiva) rilanciando, nel migliore dei casi, temporaneamente l’economia. Il capitale privato in primis perde, finanziando il debito, ma in secundis, se l’economia si riattiva adeguatamente vince su due fronti, in quanto creditore e in quanto produttore. Ovviamente il keynesismo non si è rivelato, dal punto di vista capitalista, infallibile e per questo ha subito critiche e trasformazioni.
Comunque in linea di principio nei paesi sviluppati un intervento keynesiano vincente allontana temporaneamente i lavoratori di tali paesi dalla necessità di organizzarsi in classe al fine di lottare contro il capitale in crisi.
“Insistendo sul fatto che solo il volume e non la direzione della produzione si doveva sottoporre alla pianificazione statale, Keynes faceva intendere di non aver interesse a modificare gli esistenti rapporti di classe ma di voler solo rimuovere le tendenze pericolose nei periodi di crisi” (P. Mattick, Marx e Keynes, i limiti dell’economia mista, 1972).
Keynes non si occupa direttamente dei paesi economicamente sottosviluppati, egli ritiene che “la collettività sarà propensa a consumare la massima parte della produzione, cosicché basterà un volume molto modesto di investimento per assicurare un’occupazione piena” (J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, 1936).
La disoccupazione nei paesi sottosviluppati non è però dovuta all’abbondanza di capitale ma alla sua scarsità quindi la teoria keynesiana non è pedissequamente applicabile. Gli investimenti di cui Keynes parla non sono una sua invenzione economica, ma sono frutto della tendenza naturale del capitalismo a investire capitale per ottenere più capitale.
Il capitale privato investito nei paesi sottosviluppati è generalmente estero e generalmente sottrae le risorse naturali da tali paesi. Anche le sovvenzioni, chiamati aiuti economici, che vanno nella costruzione di infrastrutture di questi paesi aiutano principalmente il capitale privato che si serve di tali infrastrutture.
A questo punto lo sviluppo di capitale nei paesi poveri viene ottenuto attraverso l’aumento della produzione che grazie all’intervento dello Stato (keynesianamente), il quale aumenta l’inflazione monetaria, tiene basso il consumo locale di tali prodotti e genera profitto nei paesi ricchi.
Questo amplia il divario tra i pochi ricchi e le masse di poveri che in questi paesi sottosviluppati è ancora più accentuato.
Se nei paesi sviluppati il keynesismo, finché funziona, imborghesisce i lavoratori, nei paesi sottosviluppati non crea le basi per un miglioramento delle masse povere le quali non hanno alcun potere contrattuale quindi alcuna possibilità di lottare convincentemente contro il capitale, nel loro caso classe dominante locale e capitale estero.
La ragione per la quale si ha il divario tra i movimenti dei lavoratori degli anni passati e quelli odierni non è il keynesismo ma la riduzione del potere contrattuale determinata dalla globalizzazione del mercato del lavoro.

Mattick, come il MSM, va oltre la critica dell’avanguardismo leninista, egli critica la mancanza dei seguenti concetti marxisti:

  1. “L’emancipazione della classe lavoratrice deve essere il lavoro della classe lavoratrice stessa”.
  2. La dittatura del proletariato non è la dittatura del Partito, com’era inteso da Lenin.
  3. Il socialismo è una società in cui i mezzi di produzione sono della società nel complesso (e non dello Stato/Partito), dove non ci sono classi sociali, quindi niente lavoro salariato, denaro e divisione del lavoro. Il socialismo non è quindi una fase (capitalismo di Stato) di passaggio dal capitalismo al comunismo.
  4. Democraticità del movimento dei lavoratori, che non è quindi gerarchico-centralizzato come quello bolscevico dove il leader è indiscusso e infallibile.
  5. Contro il culto della personalità, per un approccio scientifico e non dogmatico.
Di buono in Lenin c’è davvero poco e se si legge attentamente Mattick o gli scritti del Socialist Party of Great Britain (SPGB), si può notare chiaramente il riconoscimento soprattutto della sua battaglia contro il revisionismo della Seconda Internazionale.
Il MSM ha avuto origine dal SPGB, il quale esiste dal 1904 e deriva direttamente dal Social Democratic Federation (SDF) (1884), che annovera tra i suoi membri William Morris, Edward Aveling e Eleanor Marx.
La politica del MSM non è quella di “cancellare tutto”, ma sicuramente non quella di farsi corrompere dal giacobinismo piccolo borghese. Il MSM è dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati che ogni giorno sono alla mercé del capitale. Il MSM ha una struttura democratica dove non esistono leader.

Disuguaglianze nel mondo

Notare la Cina pseudocomunista e il Venezuela pseudosocialista.

domenica 18 luglio 2010

Che cos'è la proprietà comune

Il fondamento di qualsiasi società è il modo in cui i suoi membri sono organizzati per la produzione e la distribuzione della ricchezza. Se solo un gruppo della società controlla l’uso dei mezzi di produzione, vi è una società di classe. Un altro modo di esprimere la stessa idea è che i membri di questo gruppo o classe possiedono i mezzi di produzione, dal momento che poter controllare l’uso di qualcosa è come possederlo, con o senza dei titoli di proprietà legali.

Ne consegue che una società senza classi è una società in cui l’uso dei mezzi di produzione viene controllato da tutti i membri della società su una base equa, e non solamente da un solo gruppo con l’esclusione di tutti gli altri. James Burnham esprime bene questa idea nel suo libro La rivoluzione manageriale:

“Una società ‘senza classi’ vuol dire che all’interno della società non c’è nessun gruppo (ad eccezione, forse, di provvisori gruppi delegati liberamente eletti dalla comunità e soggetti sempre al richiamo) che eserciti, come gruppo, qualsiasi controllo speciale sull’accesso agli strumenti di produzione; e nessun gruppo che riceva, come gruppo, trattamento preferenziale nella distribuzione.”

In una società senza classi ogni membro può contribuire, a parità di condizioni con ogni altro membro, a decidere come i mezzi di produzione devono essere usati. Ogni membro della società è socialmente uguale e sta esattamente nella stessa relazione di ogni altro membro riguardo ai mezzi di produzione. Similmente, ogni membro della società ha accesso ai frutti della produzione su base uguale.

Non appena l’uso dei mezzi di produzione viene messo sotto il controllo democratico di tutti i membri della società, la proprietà di classe è abolita. In queste circostanze si può sempre dire che i mezzi di produzione appartengono a coloro i quali li controllano e ne approfittano, ma in questo caso si tratta dell’intera popolazione organizzata su base democratica, e si può dire perciò che i mezzi di produzione sono “comunemente posseduti” da tutti. La proprietà comune è stata definita come:

“Uno stato delle cose in cui nessuna persona viene esclusa dalla possibilità di controllare, usare e gestire i mezzi di produzione, distribuzione e consumazione. Ogni membro della società può acquisire la capacità, vale a dire l’opportunità di realizzare una varietà di scopi, per esempio, di consumare ciò che vuole, di usare i mezzi di produzione per i fini di lavoro socialmente necessari o non necessari, di amministrare la produzione e la distribuzione, di pianificare le risorse, e di prendere delle decisioni su scopi collettivi di breve termine e di lungo termine. La proprietà comune, quindi, riguarda ogni potenziale capacità dell’individuo di beneficiare della ricchezza della società e di partecipare al suo funzionamento” (Jean-Claude Bragard, Un’indagine sul concetto del comunismo di Marx).

Tuttavia, la parola “proprietà” può essere ingannevole poiché non porta alla luce completamente il fatto che il trasferimento a ogni membro della società del potere di controllare la produzione della ricchezza rende superfluo il concetto stesso di “proprietà”. Con la proprietà comune nessuno è escluso dalla possibilità di controllare o beneficiare dell’uso dei mezzi di produzione, cosicché il concetto di proprietà nel senso di possesso esclusivo non ha senso: nessuno è escluso, non c’è nessun non-proprietario.

Potremmo inventare qualche nuovo termine come “niente-proprietà” e dire che la società senza classi che prenderà il posto del capitalismo è una società di “niente-proprietà”, ma la stessa idea può essere espressa in modo diverso se la proprietà comune è intesa come un rapporto sociale e non come una forma di padronanza proprietaria. Questo rapporto sociale – uguaglianza fra gli esseri umani riguardo al controllo dell’uso dei mezzi di produzione – può ugualmente e correttamente essere descritto dai termini “società senza classi” e “controllo democratico” come da “proprietà comune” dal momento che questi tre termini sono differenti solo per il modo in cui lo descrivono da differenti punti di vista. L’uso del termine “proprietà comune” per fare riferimento al rapporto sociale basilare della società alternativa al capitalismo non significa in nessun senso perciò che la proprietà comune dei mezzi di produzione potrebbe esistere senza il controllo democratico.

Quando ci riferiamo a una società basata sulla proprietà comune, generalmente usiamo il termine “socialismo”, anche se non abbiamo niente da obiettare a quelli che usano il termine “comunismo”, dato che per noi questi termini significano esattamente la stessa cosa e sono interscambiabili.

Contro la proprietà statale

La proprietà comune non deve essere confusa con la proprietà statale, dato che un organo di coercizione, o uno stato, non può esistere nel socialismo. Una società di classe è una società con uno stato perché il controllo di un gruppo sui mezzi di produzione e l’esclusione del resto della popolazione non possono essere imposti senza coercizione, e perciò senza uno speciale organo per esercitare questa coercizione. D’altro canto, una società senza classi è una società senza stato perché tale organo di coercizione smette di essere necessario appena tutti i membri della società stanno nello stesso rapporto riguardo al controllo dell’uso dei mezzi di produzione. L’esistenza dello stato come strumento di controllo e di coercizione da parte della classe politica è del tutto incompatibile con l’esistenza del rapporto sociale della proprietà comune. La proprietà statale è una forma di padronanza proprietaria esclusiva la quale implica un rapporto sociale che è totalmente differente dal socialismo.

La proprietà comune è un rapporto sociale di uguaglianza e democrazia che rende superfluo il concetto di proprietà perché non ci sono più dei non-proprietari esclusi. La proprietà statale, invece, presuppone l’esistenza di una macchina governativa, un sistema legale, forze armate e altre caratteristiche di un organo di coercizione istituzionalizzato. I mezzi di produzione posseduti dallo stato fanno parte di un’istituzione che si oppone ai membri della società, che li costringe e li domina, sia come individui che come collettività. Sotto la proprietà statale la risposta alla domanda “chi possiede i mezzi di produzione?” non è “tutti” o “nessuno” come con la proprietà comune; la risposta è “lo stato”. In altre parole, quando uno stato possiede i mezzi di produzione, i membri della società restano non-proprietari, esclusi dal controllo. Sia legalmente che socialmente, i mezzi di produzione non appartengono a loro, ma allo stato, che si mantiene come un potere indipendente separandoli dai mezzi di produzione.

Lo stato non è un’astrazione che esiste indipendentemente dalla società e dai suoi membri; è un’istituzione sociale, e, come tale, un gruppo di esseri umani, una parte della società, organizzata in un particolare modo. Ecco perché lo stato si oppone agli interessi della maggior parte dei membri della società ed esclude la maggior parte di loro dal controllo dei mezzi di produzione. Dovunque c’è uno stato, c’è sempre un piccolo gruppo di esseri umani che stanno in rapporti differenti con esso rispetto alla maggior parte dei membri della società: non come dominati, né come esclusi, ma come dominatori e vietatori. Sotto la proprietà statale, questo gruppo controlla l’uso dei mezzi di produzione escludendo gli altri membri della società. In questo senso, questo gruppo possiede i mezzi di produzione, sia quando ciò è riconosciuto formalmente e legalmente sia quando non lo è.

Un’altra ragione per cui proprietà statale e socialismo sono incompatibili è che lo stato è una istituzione nazionale che esercita controllo politico su una limitata area geografica. Dato che il capitalismo è un sistema mondiale, la proprietà statale dei mezzi di produzione all’interno di una determinata area politica non può rappresentare l’abolizione del capitalismo, neanche in quell’area. Ciò significa l’istituzione di qualche forma di capitalismo di stato il cui modo di funzionamento è condizionato dal fatto che deve competere in un contesto di mercato mondiale contro altri capitali.

Dal momento che oggi il capitalismo è a livello mondiale, la società che sostituisca il capitalismo può solamente essere a livello mondiale. L’unico possibile socialismo oggi è il socialismo mondiale. Il socialismo, come il capitalismo, non può esistere in un solo paese. Perciò la proprietà comune nel socialismo è la proprietà comune del mondo, delle sue risorse naturali e industriali, a disposizione della società nel suo complesso. Il socialismo può solamente essere una società universale in cui tutto quello che è sopra la Terra è diventato l’eredità comune di tutta l’umanità, e in cui la divisione del mondo in stati ha ceduto il passo a un mondo senza frontiere con un’amministrazione democratica mondiale e anche democrazie locali e regionali.

(Traduzione da Socialist Standard, aprile 2005)

sabato 17 luglio 2010

Il capitalismo di Stato

Il quotidiano italiano "liberalsocialista" Avanti! ha pubblicato qualche anno fa un articolo su Bruno Rizzi (1901-1977) descrivendolo come "un socialista eretico". Non vorremmo dire che fu un socialista nel proprio senso della parola, ma diede un importante contributo alla discussione sulla natura dell'U.R.S.S., introducendo il concetto di una classe che possiede i mezzi di produzione collettivamente, come una classe, senza che i suoi membri individuali possiedano i titoli della proprietà legale a loro nome come nel capitalismo tradizionale.

Riproduciamo qui il capitolo III del suo libro del 1939, Il Collettivismo Burocratico, dove espone i suoi argomenti a riguardo. Noi piuttosto chiameremmo la passata U.R.S.S. "capitalismo di Stato" e senza dubbio la predizione di Rizzi che il mondo intero stesse rapidamente aprendosi verso il suo "collettivismo burocratico" risulta essere selvaggiamente errata. Tuttavia, come abbiamo detto, egli diede un importante contributo a una comprensione della passata U.R.S.S. come una società di classe, con una proprietà collettiva e una classe sfruttata lontanamente rimossa da qualsiasi cosa vagamente somigliante al socialismo - che deve essere una società democratica senza classi e senza stati.

LA PROPRIETÀ DI CLASSE

(Capitolo 3, Il Collettivismo Burocratico. Bruno Rizzi, 1939)

Dato che Trotzky conferisce un valore incommensurabile al fatto che la contraddizione non è passata dal dominio della ripartizione a quello della produzione, vien fatto di pensare che egli concepisca la produzione sovietica come di marca socialista. Ci sembra che questa volta ci sia ancora un'illusione ottica che non è dalla nostra parte.

Per il solo fatto che la proprietà è nazionalizzata e l'economia pianificata, si pensa che la produzione sia di una qualità sufficientemente socialista onde assicurarci il permanere dello “Stato Operaio”. In realtà tutto il sistema di produzione resta collettivo come nella organizzazione delle grandi imprese capitaliste, mentre la proprietà passa dalla forma privata a quella collettiva. Ne viene quindi che se le caratteristiche economiche sono le sole determinanti della natura dello Stato, per quanto riguarda l'U.R.S.S., noi siamo ridotti alle nazionalizzazioni ed ai piani statali.

Resta da vedere che cosa rappresenti effettivamente la nazionalizzazione della proprietà nell'U.R.S.S. e qui anche noi, senza avere la pretesa di essere marxisti ortodossi, ci permettiamo di esaminare il disotto dei fatti. Certamente essa è stata la prima misura rivoluzionaria decretata dalla classe operaia al potere nel fine della costruzione socialista, ma questa si è arrestata con la degenerazione staliniana ed è logico indagare che cosa sia socialmente diventata quella nazionalizzazione che doveva concludere in una socializzazione della proprietà. In un modo semplicista ci si dice che la proprietà è “nazionalizzata”. È ben poco per dei marxisti scientifici. Chi la dirige? Non certamente il proletariato, ma bensì la burocrazia sovietica. Tutti sono d'accordo su questo punto nel campo di Agramante, e Trotzky aggiunge che la ripartizione dei prodotti viene fatta in modo per cui la burocrazia si taglia la parte del leone. Noi ci domandiamo quale sorta di proprietà “nazionalizzata” sia questa, diretta in modo esclusivo da una classe che s'impossessa poi dei prodotti in modo altrettanto sfacciato di quello usato dalla vecchia borghesia. Negli effetti esiste in Russia una classe sfruttatrice che tiene in mano i mezzi di produzione e si contiene esattamente come una proprietaria di questi. Il suo possesso non è frazionato tra i suoi componenti ma, quest’ultimi, in blocco, come classe, sono i reali possessori di tutta la proprietà “nazionalizzata”.

Sembra che la proprietà dopo esser stata di tutti, quasi inesistente per gli uomini dell'epoca selvaggia ed esser passata poi alle comunità per trasformarsi quindi in proprietà privata, riassuma ora una forma collettiva nella veste di proprietà di classe.

La classe sfruttatrice in Russia è diventata proprietaria ed ha concretizzata la sua essenza giuridico-sociale. Per sfuggire all'assalto dei lavoratori essa li incanta con la “nazionalizzazione” della proprietà, come se ciò rappresentasse negli effetti una proprietà di tutti. Ciononostante essa ha paura e non può sviluppare il suo lavoro in un ambiente democratico; è, almeno momentaneamente, condannata a costruire uno Stato poliziesco.

Le forme di proprietà devono mettersi al passo col sistema di produzione e se la classe sfruttata non è all'altezza del suo compito storico, dal dissolvimento della classe dominante ne esce una nuova classe, chiamiamola storicamente parassitaria, che nello Stato poliziesco forse manifesta la condanna della Storia.

La contraddizione tra il modo di produzione e la forma della proprietà, proprie della società capitalista, viene quindi ad essere risolta nell'U.R.S.S. anche senza il raggiungimento del Socialismo e l'elevarsi del proletariato a classe dominante. Lo sfruttamento resta e passa soltanto dal dominio dell'uomo a quello della classe sulla classe. Lo sfruttamento umano sotto la spinta dell'ineluttabile sviluppo economico ha assunta una nuova forma. La proprietà da privata è diventata collettiva, ma di classe; in modo diverso noi non sapremmo definire questa proprietà “nazionale” che non è di tutti, questa proprietà che non è, né borghese, né proletaria, che non è privata, ma che non è neanche socialista.

Trotzky non riesce a concepire la nuova classe sfruttatrice in Russia, non riesce a concepire la progressiva polverizzazione della borghesia nel mondo, non intravede la determinazione sempre più rimarchevole della proprietà di classe non solo in Russia, ma anche nei paesi totalitari. Concepisce il mondo “come società borghese in disfacimento (pourissant)“.

Ben poca cosa per un marxista che pretende all'analisi scientifica. Da Mussolini a Labriola, da Tardieu a Wallace, tutta la letteratura di questo quarto di secolo non è che un'accusa ed un sarcasmo indirizzato alla vecchia società borghese. Il de profundis è stato cantato al capitalismo in tutte le lingue. A noi sembra che il compito dei marxisti “scientifici”, depositari della dialettica della lotta di classe, non sia quello di svignarsela con una definizione banale, ma consiste precisamente nel vedere qual è il movimento di classi che si avvera in questa epoca della fine del capitalismo, e di fissare, oltre le nuove forme di proprietà, i nuovi rapporti sociali. Vediamo così che il celebre “plus-valore” non è scomparso neanche in questo Stato-rebus che è l'Unione Sovietica, sulla qual cosa sono tutti d'accordo. Le discordanze sopravvengono quando si tratta d'individuare dove va a finire. Va forse alla borghesia inesistente? No. Va forse agli operai? Neppure poiché allora si avvererebbe il fatto che il Socialismo è in costruzione in un solo paese e precisamente in quello della “grande menzogna”. Dobbiamo forse pensare che il plus-valore va allo ”Stato Operaio”?

Per le ragioni sopraddette sarebbe il trionfo dello stalinismo di cui Trotzky è il primo nemico e se qualcuno volesse pretendere che il plus-valore è scomparso nel paese dei Soviet, bisognerebbe dedurne che anche la forza-lavoro non è più comperata ed allora il Socialismo sarebbe un fatto contro ogni evidenza.

In realtà non vi è che una risposta possibile ed ammissibile: il plus-valore passa alla nuova classe sfruttatrice: la burocrazia in blocco.

Quando si ammette che la società è in via di decomposizione, già significa che essa sta perdendo le sue caratteristiche economiche; ciò precisa che le caratteristiche peculiari della classe dominante scompaiono e la Società diviene un’altra. Il fenomeno compiuto, nel cosiddetto Stato Sovietico, si trova in via di formazione ovunque nel mondo. Quella proprietà di classe che in Russia è un fatto acquisito non risulta certamente registrata presso alcun notaio o in nessun catasto, ma la nuova classe sfruttatrice sovietica non ha bisogno di queste bagattelle, essa ha la forza dello Stato nelle mani e ciò vale ben più che le vecchie registrazioni giuridiche della borghesia. Essa salvaguardia la sua proprietà con le mitragliatrici del suo apparecchio d'oppressione onnipotente e non con documenti notarili.

Se per il fascismo, con i suoi concetti di collaborazione di classe e di Stato al di sopra delle classi, è sostenibile la tesi della proprietà nazionalizzata noi non comprendiamo come dei marxisti, anche se scientifici, se la possono cavare su questo punto. Per Marx e Lenin lo Stato è l'organo di oppressione della classe dominante; fin che esiste lo Stato permangono le classi; e la proprietà sotto l'egida dello Stato è negli effetti gestita dalla classe dominante a mezzo del suo apparecchio di dominio. Marxisticamente parlando, il concetto di proprietà nazionalizzata non ha senso, è antiscientifico e antimarxista. Per Marx la proprietà privata doveva divenire socialista e come tale l'intendeva, almeno in forma potenziale, anche nel periodo della dittatura proletaria. Seguendo la teoria marxista, dietro lo Stato c'è sempre la classe e se non fu preveduta la possibilità di una forma immediata di proprietà (la proprietà di classe), ciò dipende quasi certamente dal calcolo errato di una rapida scomparsa delle classi dopo che il proletariato avrebbe preso il potere. In realtà, anche durante la dittatura del proletariato, la proprietà assume il carattere di classe, appartiene ed è gestita dai burocrati, solo potenzialmente manifesta il suo carattere socialista. Che se poi la proprietà viene nazionalizzata in un regime non proletario, perde anche il suo carattere potenziale di proprietà socialista per restare unicamente proprietà di classe.

Nel caso dell'U.R.S.S., Stato ove la borghesia ha un peso sociale trascurabile, se l'organizzazione statale permane, ciò significa che almeno due classi devono essere ancora in vita ed efficienti. Se il buon senso si rifiuta di ritenere i lavoratori sovietici proprietari dei mezzi di produzione è logico pensare che la proprietà di questi appartenga effettivamente alla burocrazia. Altroché “commesso”; si tratta di un proprietario ben definito.

Molto probabilmente il fatto che non sia stata prevista una forma transitoria di proprietà tra quella privata e quella socialista sta alla base non solo della discordia nel campo di Agramante, ma anche della confusione politica ancora regnante nel mondo ove si valuta per Socialismo o Capitalismo l'operato di Stalin, Mussolini o Hitler mentre in realtà si tratta di Collettivismo Burocratico.

Nel campo di Agramante si fanno degli sforzi terribili per parare a queste logiche deduzioni.

Il luogotenente Naville chiedendosi di quale differenza si tratti tra la proprietà privata e la proprietà collettiva se solo una burocrazia può approfittarne di questa, risponde non esservi che una differenza di grado tra la proprietà privata capitalista e la gigantesca proprietà ”privata” della burocrazia.

Mirabolante trovata. La proprietà di svariati milioni di cittadini concepiti nel loro complesso sociale resterebbe ancora privata. Ma ci sa dire allora questo marxista scientifico che cosa intende per proprietà collettiva? E perché allora non resterebbe privata anche la proprietà di una società socialista, se è soltanto questione di grado? Forse che questo Solone scambia la Società Umana con una Società per azioni?

Le Società Umane vanno considerate in sintesi e non in somme. La proprietà privata è e resta tale finché con lo statizzarsi continuo non cambia le sue caratteristiche.

La legge dialettica di Hegel della trasformazione della quantità in qualità vale anche per la proprietà. La prima cristallizzazione della proprietà collettiva si identifica con la proprietà di classe anche se sotto l'egida del proletariato. Che i marxisti non l'abbiano previsto e non lo vedano, è un altro affare.

Se per Naville resta privata la proprietà delle statizzazioni fasciste, anche se questo processo sta per sommergere tutto il capitalismo, non vediamo per quale ragione non si debba considerare come privata anche la proprietà delle nazionalizzazioni sovietiche, dove il processo è completamente acquisito e la burocrazia ne è la grande beneficiaria. Seguendo il suo ragionamento questa deduzione è logica anche se errata. In realtà la nazionalizzazione dei mezzi di produzione nell'U.R.S.S. ha creato una forma di proprietà collettiva, ma di classe che risolve l'antagonismo capitalista della produzione collettiva e dell'appropriazione privata. Noi non usiamo due pesi e due misure nell'esame dei fatti sociali ed affermiamo che anche il profondo travaglio economico degli Stati Totalitari con le nazionalizzazioni ed i piani economici porta alla risoluzione dello stesso antagonismo con la conseguenza sociale dell'apparizione della proprietà di classe, del dominio della burocrazia, del polverizzamento della borghesia e della trasformazione dei proletari in sudditi di Stato.

Riferendosi alla burocrazia in genere, Naville continua: ”Che essa abbia o no dei titoli di proprietà, ed essa non ne ha, la burocrazia non può disporre (ripartire) liberamente, né di un capitale accumulato, né del plus-valore prodotto. Non si tratta per essa che di una proprietà capitalista privata, anche su scala di monopoli statali”.

A noi pare che la verità abbia proprio un senso contrario. La burocrazia sovietica in specie dispone dei capitali accumulati e ripartisce il plus-valore. Trotzky arriva a dire: “Ciò che non era se non una deformazione burocratica si appresta ora a divorare lo Stato Operaio senza lasciar nulla e a formare sulle rovine della proprietà nazionalizzata una nuova classe possidente”. Ed aggiungiamo noi: chi dirige l'economia? Chi appresta i piani quinquennali? Chi fissa i prezzi di vendita? Chi decreta le opere pubbliche, gli impianti industriali ecc. se non la burocrazia sovietica? E se la proprietà non fosse a disposizione di questa, per chi dunque è a disposizione e chi è incaricato della ripartizione del plus-valore? Forse la sepolta borghesia zarista, l’imperialismo mondiale od il proletariato russo? Naville non ci dà spiegazioni e continua: “Si tratta allora di una nuova forma di proprietà, dei rapporti stabiliti storicamente sulla base dell'appropriazione collettiva, ma a beneficio di una classe particolare, la burocrazia? In questo caso, bisognerebbe ammettere che la burocrazia gioisce del sistema come una classe capitalista, poiché si approprierebbe il plus-valore come un'impresa capitalista.”

Si, perbacco, proprio si tratta di questo, ma bisogna ammettere che la burocrazia gioisce del sistema della Società divisa in classi, non già come classe capitalista, ma burocratica e che si appropria del plus-valore non già come una impresa capitalista, ma come una classe sfruttatrice.

Al contrario, alla domanda che il Naville timidamente si pone egli risponde in questo modo: “La storia dimostra che il fenomeno della produzione e della appropriazione del plus-valore non è proprio limitato al capitalismo liberale o al monopolio privato. La rendita fondiaria e il plus-valore che esistevano all’epoca del feudalesimo hanno preso il loro senso con l'economia mercantile e poi con lo sviluppo industriale. Essi continuano ad esistere nell'U.R.S.S. malgrado i dinieghi di Stalin, Boukharin e della loro scuola. Solo essi sono nazionalizzati; e la differenza esenziale è qui. Se si vuole chiarire la natura della società sovietica attuale, bisogna evitare gli errori anche da questa parte.”

Messo al muro e nell'ineluttabile necessità di ammettere che il plus-valore “prende tutto il suo senso” anche nel Collettivismo Burocratico, il discepolo di Trotzky gira poco scientificamente l'ostacolo e sottolinea la posizione ambigua, antimarxista e reazionaria, per cui rendita fondiaria e plus-valore verrebbero nazionalizzate nella società sovietica. Vi riscontra anche una differenza essenziale.

Gli risponderemo con le parole del suo maestro che nella Rivoluzione Tradita così si esprimeva: “Non è contestabile che i marxisti, a cominciare da Marx stesso abbiano impiegato relativamente allo Stato Operaio i termini di proprietà “statale”, “nazionale” o “socialista” come dei sinonimi. A delle grandi scale storiche, questo modo di parlare non presentava degli inconvenienti. Ma esso diviene la sorgente di errori grossolani e di inganni allorché si tratta delle prime tappe non ancora assicurate dell'evoluzione della nuova società isolata ed in ritardo dal punto di vista economico sui paesi capitalisti.”

La proprietà privata, per divenire sociale, deve ineluttabilmente passare per la statizzazione, cosi come il bruco, per divenire farfalla deve passare per la crisalide. Ma la crisalide non è una farfalla. Delle miriadi di crisalidi periscono prima di trasformarsi in farfalle. La proprietà dello Stato non diviene quella del “popolo intero” che nella misura della scomparsa dei privilegi e delle distinzioni sociali, fase in cui lo Stato, per conseguenza, perde la sua ragione di essere. Detto altrimenti: la proprietà dello Stato diviene socialista via via che cessa di essere proprietà di Stato. Ma al contrario: più lo Stato sovietico si eleva al di sopra del popolo, più duramente egli si oppone come dilapidatore guardiano della proprietà e più chiaramente egli testimonia contro il carattere socialista della proprietà statizzata.

Non sembra quindi che in seguito ad una cosiddetta nazionalizzazione della proprietà, la rendita fondiaria ed il plus-valore risultino effettivamente nazionalizzati ossia di tutto il popolo. Differenze essenziali non ne esistono se non quella per cui non e più la borghesia la classe sfruttatrice e che incassa il plus-valore, ma è la burocrazia che si è aggiudicata questo onore.

Naville gioca sull'identità tra la proprietà nazionalizzata e proprietà socialista il che non ci sembra, né troppo scientifico, né troppo marxista. Era scusabile un tale errore ai tempi di Marx, ma non più ai discepoli ora che le previsioni del maestro, anche se non chiare, prendono sostanza sociale.

Se si vuol appurare “la natura della società sovietica attuale” bisogna proprio evitare degli errori anche da questa parte e sviscerare che cosa realmente rappresenta socialmente parlando, la proprietà nazionalizzata. D'accordo che questo lavoro deve essere fatto in modo scientifico, marxista se così meglio aggrada ai cavalieri d'Agramante. Noi non pretendiamo di averlo compiuto, ma solamente abbozzato.

Seguendo questa strada, anche l'avvento dello Stato Totalitario nel mondo risulterà un poco più chiaro a coloro che fin qui ci hanno dimostrata una totale incomprensione nei confronti del Fascismo ancora bollato quale salvatore e continuatore del capitalismo.

In questi regimi una nuova classe dirigente in formazione dichiara che il capitale è al servizio dello Stato. Fa seguire i fatti, fissa già in gran parte i prezzi delle merci ed i salari dei lavoratori, organizza su di un piano prestabilito l'economia nazionale.

Evidentemente la proprietà dei mezzi di produzione non è cosi semplice ad individuarsi come quella dei mezzi di consumo. Questi ultimi sono di uso personale, ma gli altri sono più fissi delle montagne. Non c'è alcun proprietario, né alcuna classe, né alcun Stato che se li possa collocare sulle spalle e trascinarli dove meglio gli piace. Niente da meravigliarsi quindi se si avverano momenti in cui è difficile determinarne la proprietà.

Per conto nostro, nell'U.R.S.S. i proprietari sono coloro che tengono la forza nelle mani: i burocrati. Sono coloro che dirigono l'economia così com’era normale tra i borghesi. Sono coloro che si appropriano dei profitti come è regolare presso tutte le classi sfruttatrici. Sono coloro che fissano i salari ed i prezzi di vendita delle merci: i burocrati ancora una volta.

Gli operai non hanno che fare con la direzione sociale, tanto meno con gli incassi del plus-valore e tanto peggio per quanto riguarda la difesa di questa strana proprietà “nazionalizzata”. Gli operai russi sono ancora degli sfruttati ed i burocrati sono i loro sfruttatori.

La proprietà nazionalizzata dalla Rivoluzione di Ottobre appartiene ora come un “tutto” alla classe che la dirige, la sfrutta e la salvaguardia: essa è proprietà di classe.

Col sistema di produzione collettivo integratosi durante l’evoluzione capitalista, la proprietà privata non poteva sfuggire alla collettivizzazione. La realtà è che la proprietà collettiva non si trova sotto la protezione della classe proletaria, ma bensì sotto quella di una nuova classe che nell’U.R.S.S. rappresenta un fatto sociale ormai compiuto, mentre negli Stati Totalitari è in via di formazione.