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giovedì 8 febbraio 2018

Convergenza “Socialista” e il World Socialist Movement: due poli diametralmente opposti!

Un piccolo partito di recente formazione, noto con il nome di “Convergenza Socialista” (CS), usa impropriamente la corretta definizione di “socialismo”. Questa è stata presa dal vecchio e glorioso Socialist Party of Great Britain (SPGB), attivo fin dal 1904. L’uso improprio di una definizione giusta crea due pericoli, ovvero: quello di passare per un partito che vuole davvero il socialismo, quando invece è altrimenti. E quello di associare in qualche modo il proprio nome al SPGB e quindi al World Socialist Movement (WSM). Questi due rischi noi del WSM non li possiamo correre e, quindi, non solo prendiamo le distanze dalla linea politica revisionista e riformista di CS, ma evidenziamo qui di seguito anche le principali differenze che ci dividono in modo diametrale.
Il SPGB nasce dalla rottura della Socialist Democratic Federation (SDF), appunto nel 1904. La SDF ebbe una nobile origine: fondata da Henry Hyndman nel 1881, vide socialisti del calibro di William Morris, Eleanor Marx e del suo partner Edward Aveling tra i propri membri. Hyndman, già a suo tempo plagiario di Marx (il quale per questo troncò con lui ogni rapporto), era un uomo politico eclettico che guidava il partito in modo autoritario e personale entrando fin da subito in conflitto con molti membri socialisti, tra i quali quelli celebri appena citati. Proprio questi ultimi andarono a formare la Socialist League, una scissione accolta con piacere da Engels, il quale anch’egli poco tollerava Hyndman, ma che, mancando di massa critica, non ebbe il seguito sperato. Proprio per la condotta personalistica e le posizioni revisioniste, riformiste e scioviniste di Hyndman, alcuni membri della sinistra della SDF di Londra andarono successivamente a formare il SPGB. Un partito che da allora non accettò mai più una leadership di partito, né alcuna sorta di riformismo.
Il SPGB e i suoi partiti fratelli, che formano il WSM, ovvero il Socialist Party of Canada, il World Socialist Party of the United States, il World Socialist Party (Ireland), il World Socialist Party (New Zealand) e il World Socialist Party of India, funzionano in modo totalmente democratico e senza alcuna leadership.
La loro intransigenza nei confronti di ogni tipo di revisionismo e di riformismo, allora già incipienti nelle grandi socialdemocrazie della Seconda Internazionale, valse loro il nomignolo di “impossibilisti”. Questo termine (un po’ ironico) fu coniato proprio dai partiti membri della Seconda Internazionale, tra i quali troviamo anche il Partito Socialista Italiano, per indicare coloro i quali pensavano che fosse impossibile partecipare a governi di coalizione con i partiti borghesi “progressisti” (dopo l’affaire Millerand del 1899) e, più in generale, riformare il capitalismo per condurlo gradualmente verso il socialismo.
Invero, Marx ed Engels pensavano che un programma “minimo” di riforme, spontaneamente sollevato dal movimento dei lavoratori stesso, avrebbe aiutato la costruzione di un movimento rivoluzionario socialista globale nel quale la classe lavoratrice sarebbe organizzata come un corpo unico, ma non lo concepivano come strumento per riformare il capitalismo. Tuttavia l’adozione di un programma minimo risultò nella corruzione della natura dei vari partiti social-democratici. Quindi il WSM, nonostante accetti di partecipare alle elezioni politiche, rifiuta categoricamente il programma “minimo”: il suo solo programma è il Socialismo. Come Marx ed Engels, anche il WSM vede i sindacati come organizzazioni di lavoratori occupate, nel migliore dei casi, nella lotta quotidiana di miglioramento delle condizioni lavorative. I sindacati non si occupano del movimento socialista come non si occupano del socialismo. “L’essere membro del WSM non preclude l’attività nei sindacati [anzi], tuttavia ogni membro deve riconoscere i gravi limiti della lotta difensiva dei sindacati sotto il regime capitalista”.

sabato 25 novembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Preambolo)

In occasione del centenario del colpo di stato bolscevico in Russia (7 novembre 1917 secondo il calendario gregoriano vigente in occidente, 25 ottobre per il calendario giuliano), abbiamo preparato un breve saggio sulla reazione dei socialisti unitari, detti anche “minimalisti”, o “riformisti”, del Partito Socialista Italiano (PSI) e la paragoneremo principalmente con la reazione dei socialisti inglesi del “nostro” Partito Socialista della Gran Bretagna (SPGB). Questo sarà diviso in quattro parti. Il preambolo che affronterà molto superficialmente il periodo che va dalla Rivoluzione di Febbraio a quella di Ottobre; un secondo che tratterà la reazione dei socialisti italiani, e in particolare quella degli unitari, la terza parte sulla reazione del SPGB, e infine le conclusioni.

È doveroso sottolineare però due cose. Paragonare il PSI al SPGB ovviamente è storicamente errato e non è l’intento di questo scritto. Il PSI era già agli inizi del ‘900 un partito con un grande seguito nelle masse, e ancor di più, come si vedrà, nel periodo post-rivoluzionario. Il SPGB nasceva dalla scissione doverosa del 1904, contro ogni tipo di riformismo e centralismo, scissione che lo aveva però ridimensionato dal punto di vista del seguito, e ciò nonostante rimaneva fedele al socialismo marxista.

In secondo luogo è importante notare l’omogeneità dell’intransigenza del SPGB, al contrario del PSI non era lacerato tra il gradualismo dei riformisti, l’attendismo dei massimalisti e il dogmatismo programmatico degli intransigenti di sinistra. Ciò nonostante la critica dei riformisti italiani, pur non condividendo noi l’imborghesimento della loro lotta politica, fu una delle più lungimiranti sui fatti di Russia ed è per questo che vale la pena riportarla.                 

Preambolo

La Rivoluzione di Febbraio viene annunciata da “L’Avanti” tramite l’agenzia Stefani, il 16 marzo del 1917 secondo il calendario gregoriano. La discussione verte principalmente sull’impegno russo nell’Intesa, e trova i liberali interventisti euforici dell’idea che questa possa dare nuovo vigore allo sforzo russo sul fronte orientale. Mentre il gruppo parlamentare socialista, nella fattispecie Filippo Turati e Giuseppe Modigliani, è scettico che la deposizione dello zar possa avere questo significato. Turati in un discorso al consiglio comunale di Milano, il 25 aprile, ribadisce la formula zimmerwaldiana della pace senza annessioni né indennità. Sempre in aprile viene pubblicata su “L’Avanti” la dichiarazione del governo provvisorio russo di rinuncia ad ogni ambizione espansionistica. Si riunisce a Milano la Direzione del Partito Socialista, il gruppo parlamentare e il consiglio direttivo della Confederazione del Lavoro, dove il Partito ribadisce la sua posizione pacifista. Da questa riunione scaturisce il documento Ai socialisti di tutti i paesi; al quale si oppone però Amadeo Bordiga con Nulla da rettificare uscito su “L’Avanti” il 23 maggio, dove sottolinea la tendenza intesista di questo documento. Gli risponde Serrati, direttore de “L’Avanti” sdrammatizzando la frase non felice attaccata da Bordiga, ribadendo la linea internazionalista del PSI. Verso la fine di aprile appare il primo articolo di Antonio Gramsci sulla Rivoluzione di Febbraio, Note sulla rivoluzione russa; qui curiosamente Gramsci precisa che “i rivoluzionari russi non sono giacobini, non hanno già sostituito alla dittatura di uno solo la dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far trionfare il programma.” Ovvero quello che avverrà poi in ottobre. Appariva su “L’Avanti” già il 30 marzo un articolo di Genosse Sacerdote su Lenin, spiegando che questi è per la pace e contro il governo provvisorio in favore di un’Assemblea Costituente. Già a fine aprile si leggono articoli inneggianti l’autorevolezza di Lenin e la figura di Lenin rivoluzionario intransigente cresce nell’immaginario degli operai. Nonostante Vasilij Ivanovič Suchomlin (Junior) il corrispondente russo de “L’Avanti”, esalti invece la figura del socialrivoluzionario Černov. Junior aveva forti riserve su Lenin in quanto secondo lui eccessivamente dogmatico. Una volta partito per la Russia Junior, in giugno, la corrispondenza passò alla Balabanoff e ad Ing. questi erano più favorevoli nei confronti dei bolscevichi.
Quindi vi sono i fatti di luglio, ovvero la sollevazione dei soldati e operai di Pietrogrado contro il governo che si concluse con la repressione governativa che vide nei bolscevichi i principali fomentatori dichiarando il loro partito fuorilegge. Serrati nel suo La crisi della rivoluzione pubblicato il 22 luglio su “L’Avanti”, denuncia che il “malcontento popolarenon è sedato… permangono le cause che lo avevano originato… guerra … approvvigionamenti … La rivoluzione, fatta dal proletariato, sta per essere sfruttata dalla borghesia…”, e in un altro articolo intitolato Lenin Serrati esalta la figura di Lenin come il leader del movimento operaio socialista russo. Sfatando un po’ il mito del leninismo divenuto popolare solo post-Ottobre, “Critica Sociale” (si veda Primavera di rivoluzione, Verso albe nuove) dei socialisti unitari, già in occasione della rivoluzione di febbraio denuncia l’arretratezza russa ed è critica della posizione di Lenin a Zimmerwald e Kienthal. Turati e Claudio Treves sono molto chiari a riguardo della pace separata soprattutto per il timore che questa pace rafforzi la Germania a svantaggio dell’Italia. Questa posizione filo-patriottica dei riformisti si acuirà con la disfatta di Caporetto e verrà attaccata dagli intransigenti. Intanto Gramsci aggiusta il tiro in luglio, con I massimalisti russi, apparso su “Il Grido del popolo” e “L’Avanguardia”, dove esalta Lenin e i bolscevichi come i veri rivoluzionari e non evoluzionisti.

Quindi al grido di «Viva Lenin!» viene accolta la delegazione del Soviet di Pietrogrado già nell’agosto del 1917. La delegazione è composta da Goldenberg (ex-bolscevico, ora indipendente), Ehrlich (del Bund), Russanov (socialrivoluzionario) e Smirnov (menscevico). I delegati sono per la pace generale e non separata. Nasce una polemica proprio sul «Viva Lenin!» tra Turati e Serrati. Il primo sostiene che questo grido denunci “una confusione d’idee”, il secondo, invece sostiene che Lenin era “uno dei più fedeli interpreti del socialismo internazionale”. Molti socialisti non vedono di buon occhio però il sostegno che i delegati russi sembrano dare al governo Kerenskij. Questo si palesa il 13 agosto a Torino, dove il comizio dei delegati russi tradotto a braccio da Serrati per la folla, si conclude (proprio per l’esaltazione e il colorire di Serrati) con incidenti che gli costeranno l’incarcerazione e un processo. Scontri molto più seri avverranno sempre a Torino con in moti del 22 fino al 26 agosto. La Conferenza di Stato chiamata da Kerenskij che escludeva i bolscevichi viene aspramente criticata da “L’Avanti”. È chiaro come riportato da Ing. in settembre che la rivoluzione può sopravvivere non solo con la sconfitta del generale Kornilov, ma con la sconfitta del collaborazionismo di Kerenskij. Serrati nei suoi Scampoli-Lenin il 3 ottobre si chiede in tutto questo dove sia Lenin. Con la conquista della maggioranza del Soviet di Pietrogrado da parte dei bolscevichi e la nomina a presidente di Trockij su “L’Avanti” si incomincia già a leggere un mese prima della presa del potere da parte dei bolscevichi che “Lenin occuperà presto il posto di Kerensky”. Una presa del potere non troppo inaspettata in fondo.            

lunedì 15 maggio 2017

La Frazione della sinistra comunista italiana

Con questo articolo continuiamo la serie sul Giovane Bordiga illustrando la sua influenza politica determinatasi nella Frazione della sinistra comunista fino alla sua dissoluzione con la fondazione del Partito Comunista Internazionalista. Bordiga e la sinistra italiana accettarono la rivoluzione bolscevica di Ottobre come loro nuovo punto di riferimento. La loro intransigenza contro ogni tipo di corruzione della dottrina marxista, ogni tipo di collaborazione tra classi, e in alcuni casi con i sindacati, però li farà etichettare dagli stessi bolscevichi come infantili estremisti, settari e dottrinari. Comunque leninisti, i sinistri italiani saranno tra i primi a denunciare negli anni 20 la degenerazione politica del partito bolscevico, e alla fine negli anni 30, la degenerazione economica dell’Unione Sovietica. Nonostante ciò rimarranno ancorati al centralismo e alla coercizione delle masse. Questo articolo si concluderà con la citazione della risposta di Melvin Harris del nostro Partito, alla sinistra comunista, il quale taglierà corto sulla questione della degenerazione della rivoluzione russa. Questa non fu una rivoluzione Socialista, dice, ma condotta da una partito che era giacobino nella struttura e nel fine.

La sinistra comunista italiana storicamente origina dalla frazione intransigente rivoluzionaria presente all’interno del Partito Socialista Italiano (PSI). Questa frazione, come visto nel precedente scritto sul Giovane Bordiga, si opponeva a Filippo Turati e ai riformisti. Nel 1911 l’ex-operaista Costantino Lazzari aveva pubblicato “I principi e metodi del Partito Socialista Italiano” difendendo l’originale programma di partito del 1892 dalle degenerazioni riformiste. In termini semplicistici possiamo trovare in questo l’origine del concetto dell’invarianza del Programma del partito comunista, ovvero il leitmotiv, di Bordiga.  

Nell’Ottobre del 1917 il colpo di mano bolscevico alla rivoluzione russa, divise presto la frazione intransigente. Se i così detti riformisti di Turati, come Rodolfo Mondolfo, erano dell’opinione che la rivoluzione bolscevica era contro le condizioni oggettive storiche per instaurare il Socialismo, la frazione intransigente del PSI si divise tra astensionisti e massimalisti. Gli astensionisti si organizzarono nella “Frazione Comunista” fondata di fatto da Bordiga, subito prima del decisivo XVI Congresso del partito tenutosi a Bologna nell’Ottobre del 1919. La frazione era contro l’uso dello strumento elettorale in quanto spreco di preziose risorse rivoluzionarie, legittimazione dei riformisti, e fonte di corruzione degli intransigenti eletti. I massimalisti erano invece allo stesso tempo sia per la partecipazione elettorale che per la rivoluzione violenta. Alla luce dei fatti di Russia, Germania e Ungheria, durante il XVI Congresso del PSI i massimalisti riscrissero il programma originale del 1892 in uno più genuinamente rivoluzionario, il contributo di Bordiga fu però ridimensionato. Malgrado l’opposizione di Lazzari e Turati, il Partito votò per l’ingresso nella Terza Internazionale (Comintern). Il nuovo capo di fatto, anche se non segretario, divenne Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’Avanti. Bordiga fu molto critico nei sui riguardi perché considerava la sua posizione ipocrita, ovvero sostenitrice dell’azione parlamentare e allo stesso tempo conclamatrice della rivoluzione di classe e dell’unità di partito. Unità di partito che avrebbe significato coesistere con i riformisti di Turati. Tuttavia, la politica unitaria di Serrati, diede in qualche modo, dei frutti, ovvero il 30,4% dei voti per il PSI, alle elezioni del 1919. 

sabato 9 febbraio 2013

Un capitalismo nazionale o un socialismo mondiale?

Questo mese milioni di elettori italiani sono chiamati a votare per le elezioni nazionali. Saremo di fronte a una scelta di candidati apparentemente vasta – liberali, ex democristiani, repubblicani, nazionalisti, razzisti, leghisti, ex fascisti, socialdemocratici, verdi, ex comunisti, trotzkisti e altri sinistroidi che asseriscono di essere socialisti – ma di fatto tutti loro puntano a mantenere, in una forma o in un’altra, il sistema capitalista della padronanza statale o privata e della produzione per il profitto. 
Le differenze tra loro sono attinenti al modo in cui si amministra questo sistema. Alcuni vogliono più intervento statale, alcuni ne vogliono di meno; ma nessuno vuole andare oltre il sistema retribuzioni-prezzi-profitti. Tutti vogliono mantenere la produzione per il mercato, acquisto e vendita, denaro e lavoro per i salari/stipendi. Nessuno di loro – perfino quelli che si definiscono “socialisti”– stanno per il socialismo nel suo originale significato di una società basata sulla proprietà comune e sul controllo democratico, con produzione per uso senza profitto e con una distribuzione senza denaro in concordanza con il principio “da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni”.

sabato 4 giugno 2011

Il sistema del profitto

Pochissime persone negherebbero che lo stato attuale del mondo lasci molto a desiderare. L’umanità barcolla da una crisi all’altra – un continuo susseguirsi di guerre, carestie, depressioni, repressioni…
Il capitalismo ha sviluppato un’enorme capacità produttiva, ma la sua organizzazione e i suoi rapporti sociali causano problemi estremamente seri e lo rendono incapace di soddisfare i bisogni fondamentali della sua gente.

Un vasto ammontare delle risorse del mondo è speso nella produzione di armi da guerra, da pallottole e baionette ad armi nucleari e chimiche. Accanto a queste armi vi sono le forze armate che ogni stato organizza, veste, nutre, addestra e schiera. Questo è uno spreco massiccio di sforzi umani; è tutto volto ad essere distruttivo e niente a creare qualcosa di utile per gli esseri umani.

In un mondo che potrebbe produrre più che a sufficienza per nutrire e prendersi cura della sua popolazione milioni di persone sono senza abitazione e decine di milioni muoiono ogni anno perché non hanno abbastanza da mangiare o per mancanza di opportuno trattamento medico. Nulla di tutto questo è necessario. Succede mentre i coltivatori in Europa e nel Nord America sono pagati per tenete la terra incolta; talvolta perfino il cibo che è stato prodotto viene distrutto o lasciato marcire. Ciò ha senso per la logica del profitto, ma in termini di interessi umani è selvaggiamente folle.

L’ambiente è sempre più minacciato dall’inquinamento e dalla distruzione di alcune delle sue caratteristiche vitali naturali ed ecologiche. Sentiamo avvertimenti ben informati di un disastro incombente, se non agiamo per sradicare il problema, ma questi avvertimenti sono sempre affrontati con l’obiezione che salvare l’ambiente può essere un’attività costosa e a danno del profitto. Non sarebbe necessario per l’industria e l’agricoltura espellere sostanze nocive nell’aria, nella terra, nei fiumi e nei mari. Fanno questo oggi perché l’inquinamento è visto come la scelta più economica, il che significa più profitti facili, e in una società dove il profitto è la motivazione dominante per la produzione quella è una giustificazione sufficiente per non tenere in nessun conto il benessere umano.

Questi sono alcuni esempi di come il capitalismo opera contro gli interessi delle persone del mondo. In contrasto, come spiegano gli articoli di questa rivista, il socialismo avrà rapporti sociali, motivi per la produzione e concetti fondamentalmente  differenti riguardo agli interessi e alla sicurezza degli esseri umani.

Tutti i programmi che attualmente sono avanzati dai politici di professione per occuparsi dei problemi del capitalismo con le riforme sono destinati a fallire a causa del loro metodo essenzialmente frammentario. Tentano di trattare i sintomi invece di procedere per la causa basilare. Ecco perché, dopo un secolo o più di riformismo, i problemi dei quali i riformisti reclamano di occuparsi sono ancora qui.
È necessario un cambiamento molto più radicale e fondamentale per creare la struttura all’interno della quale questi problemi possano essere risolti.

(Traduzione da Socialist Standard, maggio 2005)

venerdì 24 dicembre 2010

I limiti delle riforme

di Paul Mattick

Per quanto possa essere riformabile, il capitalismo non può alterare, senza eliminare se stesso, i rapporti fondamentali tra salario e profitto che lo caratterizzano. L’età delle riforme è un’età di spontanea espansione del capitale, caratterizzata da una crescita non proporzionale ma simultanea dei salari e dei profitti; un’età nella quale, per la borghesia, le concessioni fatte al proletariato sono più tollerabili delle perturbazioni della lotta di classe, che altrimenti accompagnerebbero lo sviluppo del capitalismo. Come classe, la borghesia non favorisce salari minimi e condizioni di lavoro intollerabili, anche se ogni capitalista, per il quale il lavoro è un costo di produzione, cerca di ridurre al massimo questa spesa. Non c’è alcun dubbio sul fatto che la borghesia preferisca una classe lavoratrice soddisfatta piuttosto che insoddisfatta e la stabilità sociale all’instabilità. In effetti, essa considera il miglioramento generale dei livelli di vita come una sua realizzazione e come la giustificazione del suo dominio di classe. A dire il vero, il benessere relativo dei lavoratori non deve essere eccessivo, poiché deve esistere sempre una dipendenza continua dal lavoro salariato.
Tuttavia, pur all’interno di questi limiti, la borghesia non ha alcun’inclinazione soggettiva a ridurre i lavoratori al più basso stadio d’esistenza, anche quando ciò potesse essere oggettivamente possibile attraverso adeguate misure di repressione. Mentre le inclinazioni e le azioni dei lavoratori sono determinate dalla loro dipendenza dal lavoro salariato, quelle della borghesia sono radicate nella necessità di fare profitti e accumulare capitale, indipendentemente dalle loro differenti propensioni ideologiche e psicologiche.

Le limitate riforme possibili all’interno del sistema capitalistico diventano le abituali condizioni
d’esistenza per chi ne è interessato e non possono essere annullate facilmente. In presenza di un basso tasso d’accumulazione, esse diventano un ostacolo per la produzione di profitto, il cui superamento richiede un eccezionale incremento dello sfruttamento del lavoro. D’altra parte, anche periodi di depressione comportano riforme di vario genere, se non altro per resistere alla minaccia di pericolose agitazioni sociali. Appena attuate, tendono a consolidarsi e devono essere compensate da una crescita corrispondentemente maggiore della produttività del lavoro. Naturalmente saranno fatti degli sforzi, alcuni con successo, per ridimensionare ciò che è stato ottenuto per mezzo della legislazione sociale e grazie al miglioramento dei livelli di vita, allo scopo di ristabilire la necessaria redditività del capitale. Alcune conquiste rimarranno comunque, durante i periodi di depressione che di prosperità, con il risultato di un generale miglioramento delle condizioni dei lavoratori nel corso del tempo.

Per i lavoratori vivere alla giornata non rendeva agevole la lotta per salari più alti e migliori
condizioni di lavoro, infatti erano spinti ad agire solo per le brutali provocazioni dei loro datori di lavoro, essendo un male minore rispetto ad uno stato di completa miseria. Consapevole della dipendenza dei lavoratori dal salario giornaliero, la borghesia rispondeva alle loro ribellioni con le serrate, come il mezzo più efficace per imporre la sua volontà. I profitti persi possono essere riguadagnati, mentre i salari no. Tuttavia, la formazione di sindacati e la costituzione di fondi per gli scioperi cambiarono, in qualche misura, questa situazione a favore dei lavoratori, anche se non sempre consentirono di superare una certa riluttanza a ricorrere all’arma dello sciopero. Inoltre, per i capitalisti, la volontà di opporsi alle richieste dei lavoratori diminuiva con la perdita sempre maggiore di profitti su di un capitale accresciuto ma inutilizzato. Con un sufficiente incremento della produttività, le concessioni che venivano fatte ai lavoratori potevano risultare più redditizie della loro negazione. La graduale eliminazione della concorrenza spietata attraverso la monopolizzazione, nonché in generale la crescente organizzazione della produzione capitalistica, comportarono una regolazione del mercato del lavoro. La contrattazione collettiva sui salari e sulle condizioni di lavoro eliminò in qualche misura gli elementi di spontaneità ed incertezza nei conflitti tra capitale e lavoro. L’autodifesa sporadica dei lavoratori lasciò il posto ad un confronto più ordinato e ad una maggiore “razionalità” nelle relazioni capitale-lavoro. I rappresentanti sindacali dei lavoratori diventarono i manager del mercato del lavoro, nello stesso modo in cui i loro rappresentanti politici nel parlamento della democrazia borghese si occupavano dei loro interessi sociali più rilevanti.

Lentamente, ma inarrestabilmente, il controllo sulle organizzazioni del proletariato sfuggì dalle
mani della base e fu centralizzato in quello dei sindacalisti di professione, il cui potere si basava su di un’organizzazione gerarchica e burocratica, il cui funzionamento, pena la distruzione della stessa organizzazione, non poteva più essere determinato dai suoi membri. L’accettazione di questo stato di fatto da parte dei lavoratori richiedeva naturalmente che le attività delle “loro” organizzazioni fornissero qualche beneficio tangibile, che fosse associato col potere crescente delle organizzazioni e con il loro particolare sviluppo strutturale. Era la leadership centralizzata che determinava ora il carattere della lotta di classe come lotta per i salari e per obiettivi politici limitati, che avessero qualche possibilità d’essere realizzati nell’ambito del sistema capitalistico.

Le differenti fasi di sviluppo della produzione capitalistica nei diversi paesi, così come i diversi
tassi d’espansione delle particolari industrie in ogni nazione, si riflettevano nell’eterogeneità dei tassi salariali e delle condizioni di lavoro, che determinavano una suddivisione all’interno della classe operaia, incoraggiando specifici interessi di gruppo a scapito degli interessi generali del proletariato. Di questi ci si sarebbe occupati, presumibilmente, attraverso l’attività politica socialista, e dove tale attività non fosse ancora possibile – o perché la borghesia aveva già occupato l’intera sfera politica attraverso il completo controllo della macchina statale, come nei paesi anglosassoni, o perché i regimi autocratici precludevano qualunque partecipazione all’attività politica, come nelle nazioni orientali capitalisticamente sottosviluppate – l’unica possibilità era la lotta economica che, mentre unificava alcuni strati del proletariato, provocava una divisione al suo interno, vanificando così lo sviluppo di una coscienza di classe.

La rottura della potenziale unità dei lavoratori per mezzo delle differenze salariali, sia nazionali
sia internazionali, non fu il risultato di una cosciente applicazione del vecchio principio di dividere e governare, così da rendere sicuro il predominio della minoranza borghese, ma il risultato dei rapporti tra domanda e offerta sul mercato del lavoro determinati dalla dinamica della produzione e dell’accumulazione del capitale. I lavoratori con occupazioni privilegiate da questo trend cercavano di mantenere le proprie prerogative attraverso la loro monopolizzazione, così da restringere l’offerta di lavoro in particolari settori, non solo a detrimento dei capitalisti loro avversari ma anche nei confronti della gran massa di lavoratori non specializzati che operavano in condizioni più competitive. I sindacati, considerati un tempo strumenti per lo sviluppo di una coscienza di classe, divennero organizzazioni preoccupate solo dei loro particolari interessi, determinati dalla divisione capitalistica del lavoro e dai suoi effetti sul mercato del lavoro. Col passare del tempo, naturalmente, le organizzazioni di categoria furono soppiantate dai sindacati industriali, che incorporavano parecchie categorie e unificavano la manodopera specializzata e non specializzata, ma solo per riprodurre su una base organizzativa allargata le aspirazioni strettamente economiche degli iscritti. In aggiunta alle differenze salariali, caratteristica generale del sistema, la discriminazione salariale fu (ed è) praticata in maniera diffusa anche da singole aziende e dalle industrie allo scopo di rompere l’omogeneità della loro forza-lavoro e indebolirne la capacità di condurre azioni comuni. Le discriminazioni possono essere basate sul sesso, la razza o la nazionalità, secondo le particolarità di un dato mercato del lavoro. Persistenti pregiudizi, associati all’ideologia dominante, sono così utilizzati per indebolire la solidarietà dei lavoratori e con essa il loro potere di contrattazione. In teoria, è irrilevante per i capitalisti a quale razza o nazionalità particolari appartenga la loro forza-lavoro, purché la sua abilità e propensione a lavorare non cada al di sotto della media, ma in pratica una forza-lavoro diversificata con retribuzioni differenti (o anche uguali) produce o accentua i già esistenti antagonismi razziali o nazionali, indebolendo la crescita di una coscienza di classe. Per esempio, riservando la paga migliore o il lavoro meno sgradevole ad una razza o nazionalità favorite, un gruppo di lavoratori è messo in competizione con altri, a detrimento di tutti. Come la competizione generale sul mercato del lavoro , così le discriminazioni fanno abbassare il saggio generale del salario e incrementano la redditività del capitale. Il loro utilizzo è tanto vecchio quanto lo stesso capitalismo. La storia del proletariato è anche la storia della competizione e della discriminazione all’interno di questa classe, che ha diviso i lavoratori irlandesi dai britannici, gli algerini dai francesi, i neri dai bianchi, i nuovi immigrati dai primi colonizzatori e così via, pressoché dappertutto.

Sebbene questa sia una conseguenza della grande diffusione del nazionalismo borghese e del
razzismo dietro sollecitazione dell’imperativo imperialistico, ciò influenza i lavoratori non solo ideologicamente ma anche attraverso la competizione sul mercato del lavoro. Tutto ciò rafforza, della lotta di classe, gli elementi che dividono rispetto a quelli unificanti e contrasta le implicazioni rivoluzionarie della coscienza di classe. Ad ogni modo, ciò porta all’interno del proletariato le stratificazioni sociali del capitalismo. Le sue lotte economiche e le sue organizzazioni sono destinate a servire particolari gruppi di lavoratori, senza alcun riguardo per gli interessi generali di classe, e i confronti tra lavoro e capitale restano necessariamente interni alla struttura del mercato e dei rapporti di prezzo.

Differenze salariali di ampia portata comportano differenti livelli di vita ed è attraverso questi,
non per il lavoro svolto, che i lavoratori giudicano il loro status nella società capitalistica. Se possono permettersi di vivere come la piccola borghesia o quasi, tenderanno a sentirsi più simili a questa classe che al proletariato. Sebbene i lavoratori salariati possano sottrarsi alla loro collocazione di classe solo attraverso l’eliminazione di tutte le classi, singoli lavoratori cercheranno di separarsi dalla loro classe per entrare in un’altra, oppure adottare lo stile di vita della classe media. Un capitalismo in espansione offre qualche possibilità di miglioramento sociale, così come getta nel proletariato individui della classe dominante o media; ma tali spostamenti individuali non influenzano la struttura classista della società, essi producono solo l’illusione di un’eguaglianza delle opportunità, che serve come argomento contro la critica all’immutabile struttura di classe nella produzione capitalistica.

In tempi di prosperità e per l’aumento del numero di famiglie con più redditi, i lavoratori meglio
pagati possono risparmiare una parte delle loro entrate e così percepire interessi, oltre che ricevere salari dal loro lavoro. Ciò fa sorgere l’illusione di un graduale disfacimento della determinazione di classe nel meccanismo di distribuzione del reddito nazionale, giacché i lavoratori vi partecipano non solo come percettori di salario ma anche come beneficiari d’interessi provenienti dal plusvalore, o anche come azionisti nella forma di dividendi. Qualunque cosa questo può significare in termini di coscienza di classe per chi ne è avvantaggiato, è abbastanza insignificante da un punto di vista sociale, poiché non influenza i rapporti fondamentali tra valore e plusvalore, salari e profitti. Ciò significa soltanto che alcuni lavoratori ottengono un incremento del loro reddito dal profitto e dagli interessi prodotti dalla classe lavoratrice. Mentre tutto questo può influenzare la distribuzione del reddito tra i lavoratori, accentuando le già esistenti differenze salariali, non influenza in alcun modo la divisione sociale in salari e profitti, rappresentata dal saggio di sfruttamento e dall’accumulazione di capitale. Il saggio del profitto rimane lo stesso, qualsiasi sia la parte della massa del profitto che può raggiungere alcuni lavoratori attraverso i loro risparmi. Il numero di azioni possedute dai lavoratori non è noto, ma a giudicare dal numero degli azionisti in ogni singolo paese e dai prevalenti saggi medi salariali, dovrebbe essere trascurabile. L’interesse sui risparmi, come parte del profitto, è compensato naturalmente dal fatto che mentre alcuni lavoratori risparmiano, altri ottengono dei prestiti, così l’interesse aumenta ma riduce anche i salari. Con la crescita del credito al consumo, è più probabile che, nel complesso, l’interesse ricevuto da alcuni lavoratori sia più che compensato dall’interesse pagato da altri.

Poiché il proletariato non è omogeneo al suo interno riguardo alla distribuzione del reddito, ma lo
è solo rispetto alla sua posizione nel quadro dei rapporti di produzione, i lavoratori salariati sono propensi a prestare più attenzione alle loro immediate necessità ed opportunità economiche che agli stessi rapporti di produzione, i quali, comunque, appaiono incrollabili in un capitalismo in ascesa. I loro interessi economici, naturalmente, riguardano non solo i privilegi goduti da speciali strati della classe lavoratrice, ma anche il bisogno generale della gran massa dei lavoratori di mantenere, o aumentare, il loro livello di vita. Salari più alti e migliori condizioni di vita presuppongono una crescita dello sfruttamento, ossia la riduzione del valore della forza-lavoro, assicurando così la riproduzione della lotta di classe nel quadro del processo di accumulazione. E’ l’oggettiva possibilità di quest’ultimo che vanifica la lotta economica dei lavoratori come mezzo per lo sviluppo di una coscienza di classe rivoluzionaria. Non c’è alcuna prova che i conflitti di lavoro degli ultimi cento anni abbiano reso il proletariato rivoluzionario, nel senso di un desiderio crescente di liberarsi del sistema capitalistico. In tutti i paesi capitalistici la tipologia degli scioperi varia col ciclo economico, ossia il numero degli scioperi e dei lavoratori che vi partecipano diminuisce in periodi di depressione e cresce ad ogni ripresa dell’attività economica. E’ l’accumulazione di capitale, non la sua mancanza, che provoca l’attivismo dei lavoratori nelle loro lotte salariali e nelle loro organizzazioni.

Ovviamente, una seria contrazione dell’attività economica, che riduce il numero totale dei
lavoratori, riduce anche le ore di lavoro perdute in scioperi e serrate, non solo per il numero minore di lavoratori occupati, ma anche a causa della loro maggiore riluttanza a scioperare, nonostante condizioni di lavoro in via di peggioramento. I sindacati, parimenti, decadono non solo a causa della crescente disoccupazione, ma anche perché sono meno capaci, o non lo sono per nulla, di procurare ai lavoratori benefici sufficienti a garantire la loro esistenza. Tanto in tempi di depressione quanto di prosperità, i conflitti continui tra lavoro e capitale non hanno condotto ad una radicalizzazione politica della classe lavoratrice, ma ad un’accentuata preoccupazione per migliori accomodamenti all’interno del sistema capitalistico. I disoccupati rivendicano il “loro diritto al lavoro” e non l’abolizione del lavoro salariato, mentre quelli ancora occupati dimostrano d’essere propensi ad accettare parecchi sacrifici pur di arrestare il declino dell’economia capitalistica. La retorica delle organizzazioni dei lavoratori esistenti o di quelle fondate recentemente è diventata senza dubbio più minacciosa, ma le loro rivendicazioni concrete, realizzabili o no, sono andate nella direzione di un migliore funzionamento del capitalismo e non della sua abolizione.

Ogni sciopero, inoltre, o è un fenomeno localizzato, che coinvolge un numero limitato di
lavoratori, o una lotta che interessa tutta l’industria, estesa a varie località, che coinvolge perciò un grande numero di lavoratori. In entrambi i casi, riguarda solo interessi particolari, condizionati nel tempo, di piccoli settori della classe lavoratrice e raramente influenza in maniera significativa l’intera società. Ogni sciopero deve finire nella sconfitta di una delle due parti in conflitto, o in un compromesso conveniente ad entrambe; in ogni caso, deve consentire che le imprese capitalistiche mantengano un grado sufficiente di redditività per produrre ed espandersi. Gli scioperi che conducono al fallimento delle imprese vanificherebbero anche gli obiettivi stessi dei lavoratori, obiettivi che presuppongono l’esistenza dei loro datori di lavoro. L’arma dello sciopero come tale è di natura riformistica, essa potrebbe diventare uno strumento rivoluzionario solo attraverso la sua generalizzazione ed estensione all’intera società. Fu per questa ragione che il sindacalismo rivoluzionario sostenne lo sciopero generale come leva per rovesciare la società capitalistica, ed è per la stessa ragione che il movimento operaio riformista si oppone allo sciopero generale, eccetto come un mezzo straordinario e politicamente controllato per salvaguardare la propria esistenza (1).
Forse l’unico sciopero generale nazionale che abbia avuto un completo successo fu quello voluto dallo stesso governo tedesco per sconfiggere il reazionario Putsch di Kapp del 1920.

Sempre che uno sciopero di massa non si trasformi in una guerra civile ed in una lotta per il
potere politico, presto o tardi esso è destinato a finire non appena i lavoratori conseguono o no le loro rivendicazioni. Ci si aspettava, naturalmente, che le situazioni critiche causate da tali scioperi, e con esse le reazioni da parte del capitale e del suo stato, avrebbero condotto al crescente riconoscimento dell’incolmabile antagonismo tra lavoro e capitale, così da rendere i lavoratori sempre più sensibili all’idea del socialismo. Questa non era un’assunzione irragionevole, ma non è stata confermata dal corso degli eventi che si sono verificati. Senza dubbio, il subbuglio procurato da uno sciopero porta con se un’acuita consapevolezza del vero significato di una società di classe e della sua natura sfruttatrice, ma questo, di per sé, non cambia la realtà delle cose.. La situazione eccezionale degenera di nuovo nella routine della vita quotidiana e dei suoi bisogni immediati; la coscienza di classe che si era ridestata, si trasforma di nuovo in apatia e in una sottomissione allo stato delle cose presenti.

La lotta di classe coinvolge la borghesia non meno dei lavoratori, perciò non basterà considerare
solo questi ultimi, riguardo allo sviluppo della loro coscienza. L’ideologia borghese dominante sarà riformulata e notevolmente modificata per neutralizzare i cambiamenti che si possono avvertire negli atteggiamenti e nelle aspirazioni dei lavoratori. L’iniziale aperto disprezzo che la borghesia nutre verso i lavoratori lascia spazio ad un’evidente preoccupazione per il loro benessere e al riconoscimento del loro contributo alla “qualità della vita sociale”; per cui la borghesia fa qualche concessione che in precedenza le veniva imposta attraverso le azioni indipendenti dei lavoratori. La collaborazione è fatta apparire vantaggiosa per tutte le classi, come la via verso armoniose relazioni sociali.

La più importante di tutte le riforme compiute dal capitalismo fu naturalmente rappresentata
dall’ascesa dello stesso movimento operaio. La continua estensione del diritto di voto fino ad interessare l’intera popolazione adulta, nonché la legalizzazione e la tutela dell’attività sindacale, integrarono il movimento operaio nelle strutture di mercato e nelle istituzioni politiche della società borghese. Il movimento operaio divenne da allora parte integrante del sistema, a condizione che questo si conservasse, e così sembrava, proprio per la capacità del sistema stesso di mitigare le contraddizioni di classe per mezzo delle riforme. Peraltro, queste riforme presupponevano condizioni economiche stabili ed uno sviluppo ordinato, che si potevano realizzare attraverso una crescente organizzazione sociale, di cui le stesse riforme erano parte integrante. Naturalmente questa possibilità era stata negata dalla teoria marxiana, sicché la giustificazione di una coerente politica riformista richiese l’abbandono di quella teoria. Dentro il movimento operaio, i revisionisti si convinsero che, contrariamente a quanto pensava Marx, l’economia capitalistica non avesse una tendenza insita al collasso, mentre i sostenitori della teoria marxiana insistevano sulle limitazioni oggettive del sistema. Tuttavia, rispetto alla situazione determinatasi, anche questi ultimi non avevano altra scelta che lottare per le riforme economiche e politiche, differenziandosi dai revisionisti per via dell’assunto che, a causa dei limiti oggettivi del capitalismo, la lotta per le riforme avrebbe avuto significati differenti secondo i momenti in cui veniva condotta. In quest’ottica , era possibile intraprendere la lotta di classe sia nei parlamenti sia nelle strade, non solo attraverso i partiti politici ed i sindacati, ma anche con i lavoratori non organizzati. La base legale conquistata nella democrazia borghese doveva essere garantita mediante le azioni dirette delle masse nella loro lotta salariale, e si supponeva che le attività parlamentari dovessero sostenere questi sforzi. Mentre ciò non avrebbe avuto alcun’implicazione rivoluzionaria in periodi di prosperità, la situazione sarebbe cambiata in periodi di crisi, particolarmente in una fase discendente del capitalismo. Poiché il capitalismo trova un ostacolo solo in se stesso, la lotta per le riforme si sarebbe trasformata in una lotta rivoluzionaria appena la borghesia non fosse stata più in grado di fare concessioni ai lavoratori.

Proprio come i capitalisti (tranne qualche eccezione) non sono economisti, ma uomini d’affari,
anche i lavoratori non sono interessati alla teoria economica. Indipendentemente dalla questione se il capitalismo è destinato o no a crollare, i lavoratori devono badare ai loro bisogni immediati attraverso le lotte salariali, onde difendere o migliorare i loro livelli di vita. Se sono convinti della necessità del declino e della caduta del capitalismo, ciò accade perché già aderiscono all’ideologia socialista, anche se probabilmente non sono in grado di dimostrare “scientificamente” il loro punto di vista. Per la verità, è duro immaginare che un sistema sociale come il capitalismo possa durare ancora a lungo, salvo che, naturalmente, si fosse totalmente indifferenti alle condizioni anarchiche della produzione capitalistica ed alla sua completa decomposizione. Tuttavia, tale indifferenza è solo un altro termine per indicare l’individualismo borghese, il quale non è solo un’ideologia, ma anche una condizione dei rapporti di mercato come rapporti sociali. Tuttavia anche sotto quest’incantesimo, l’indifferenza dei lavoratori non impedisce loro di condurre la lotta di classe, sebbene a volte sia intrapresa solo parzialmente, a causa della violenta repressione che colpisce tutte le azioni indipendenti dei lavoratori.

Finora, il riformismo non ha portato ad una trasformazione del capitalismo in un sistema sociale più accettabile, né a rivoluzioni e neppure al socialismo; d’altra parte, potrebbe aver bisogno di rivoluzioni politiche per realizzare alcune riforme sociali. La storia recente fornisce numerosi esempi di rivoluzioni politiche che finirono col rovesciare l’odiata struttura di governo di una nazione, senza influenzare i suoi rapporti di produzione. Simili sovvertimenti rivoluzionari sostituiscono un regime dittatoriale per perseguire cambiamenti istituzionali e, implicitamente, riforme economiche. In questo caso, le rivoluzioni politiche sono una precondizione per qualunque tipo di attività riformistica e non il risultato di quest’ultima. Non si tratta di rivoluzioni socialiste nel senso marxiano, anche quando sono preminentemente iniziate e realizzate per mezzo della classe operaia, ma di attività riformiste condotte con mezzi politici più diretti.
La possibilità di un cambiamento rivoluzionario non può essere contestata, poiché ci sono state rivoluzioni politiche che hanno cambiato i rapporti di produzione e sostituito il governo di una classe con quello di un’altra. Le rivoluzioni borghesi assicurarono il trionfo della classe media e del modo di produzione capitalistico; una rivoluzione proletaria – ossia una rivoluzione per eliminare ogni rapporto di classe nel processo di produzione sociale – non è finora avvenuta, sebbene siano stati fatti tentativi in questa direzione, all’interno e all’esterno del sistema politico borghese. Mentre la riforma sociale è un surrogato della rivoluzione e questa può dissolversi in pure e semplici riforme capitalistiche, come in niente, una rivoluzione proletaria può solo vincere o perdere. Essa non può basarsi su alcun genere di compromesso di classe, poiché il suo compito è di eliminare ogni rapporto di classe. Conseguentemente, troverà tutte le altre classi schierate contro i tentativi di realizzare i propri obiettivi socialisti. E’ questo carattere speciale della rivoluzione proletaria che spiega le difficoltà eccezionali che incontra sul suo percorso.

(1) Nel suo libro In Place of Fear (New York, 1952, pp. 21-23), Aneurin Bevan riferisce che nel 1919 – quando i sindacati britannici minacciarono uno sciopero nazionale – l’allora primo ministro David Lloyd Gorge disse ai leader sindacali che dovevano essere consapevoli di tutte le conseguenze di una simile azione, perché “se nello stato sorge una forza più forte dello stato stesso, allora essa deve essere pronta ad assumerne le funzioni, o a ritirarsi e accettare l’autorità dello stato.” Da quel momento in poi”, disse un leader sindacale, “noi sapemmo d’essere sconfitti.” Dopo di ciò, continua Bevan, “lo sciopero generale del 1926 fu veramente una delusione. Nel 1926 i leader sindacali non si resero conto delle implicazioni rivoluzionarie di un’azione diretta su una tale scala, né erano ansiosi di farlo … Non fu tanto il potere coercitivo dello stato che limitò il pieno uso del potere dei lavoratori dell’industria …
I lavoratori e i loro leader indugiarono anche quando il loro potere coercitivo era più grande di quello dello stato. L’opportunità di impadronirsi del potere non è sufficiente quando la volontà di conquistarlo è assente, e quella volontà è conseguente all’atteggiamento tradizionalmente tenuto dal popolo verso quelle istituzioni politiche che fanno parte della loro eredità storica.”
Questo può essere vero, ma per la verità, in questo caso particolare, non fu l’atteggiamento dei lavoratori riguardo alla loro eredità storica, ma semplicemente la sottomissione alle loro organizzazioni e alle loro leadership che permise a queste ultime di sospendere lo sciopero generale, per il timore che esso potesse condurre ad agitazioni rivoluzionarie a causa della determinazione
apparentemente ferma del governo di interrompere lo sciopero con la forza.

(Traduzione a cura di www.countdownnet.info)

venerdì 13 agosto 2010

Il bisogno di socialismo

La storia del XX secolo è stata caratterizzata da rivoluzioni, controrivoluzioni, colpi, crolli di regime e guerre di genocidio. Il capitalismo sembra aver eliminato tutti i possibili rivali, benché ancora non risponda ai bisogni fondamentali della gente.

È vero che la privazione materiale – almeno in questa parte del mondo – è minore rispetto a quando il Partito Socialista della Gran Bretagna venne formato nel 1904. Ma è anche vero che da allora c’è stato uno sviluppo tremendo delle forze di produzione – i mezzi tecnici di produzione sufficienti per tutti – cosicché, malgrado l’incremento della popolazione mondiale che vi è stato nel frattempo, non vi è oggi uomo, donna o bambino in qualsiasi parte del mondo che dovrebbe fare a meno di cibo decente, vestiario, protezione o qualsiasi altra amenità della vita. Il fatto che la maggior parte della popolazione mondiale non abbia abbastanza per vivere decentemente serve da accusa potente al presente ordine sociale, il capitalismo.

Contraddizione fondamentale

Il motivo per essere contro il capitalismo e a favore del socialismo è sempre stato semplice. Con la divisione del lavoro risultante dall’uso di macchine e tecnologie sempre più sofisticate, l’umanità già coopera per produrre ciò che è necessario per sostenere la vita e l’attività sociale, ma quello che viene prodotto non appartiene a quelli che lo producono – la classe lavoratrice, coloro i quali sono obbligati a vendere le loro energie mentali e fisiche per vivere e che costituiscono la travolgente maggioranza della società – ma a una minuscola minoranza di persone privilegiate che, per circostanze storiche, possiede e controlla i mezzi di produzione della ricchezza.

Di conseguenza ciò che è prodotto appartiene a questa minoranza e quindi non è a disposizione dei membri della società per essere preso e usato per soddisfare i loro bisogni. I prodotti sono resi a loro disponibili solamente contro pagamento, ma quello che noi della classe lavoratrice possiamo permetterci è limitato dalla misura del nostro assegno salariale o stipendiale, il quale è sempre minore del nuovo valore incorporato in quello che produciamo. La differenza è il profitto – la fonte delle entrate privilegiate della minoranza possedente e lo scopo principale della produzione. Così, non solo il libero accesso a ciò che è prodotto è negato a quelli che, collettivamente, lo producono, ma quello che deve essere prodotto è dettato non da ciò che la gente vuole e necessita, ma da ciò che è maggiormente proficuo.

Questa contraddizione tra la produzione cooperativa/collettiva e l’appropriazione privata della produzione, risultante dai mezzi di produzione che sono monopolizzati da una minoranza, è la causa originaria dei problemi affrontati dalla classe lavoratrice maggioritaria in tutti i campi della vita.

Promettere di risolvere questi problemi, per es. l’alloggiamento, il trasporto, l’ambiente, la disponibilità di cibo, è la materia dei politici, ma i partiti e i politici che votiamo non li risolvono mai. Non perché sono disonesti o non abbastanza determinati o egoisti, ma perché non possono. I problemi che promettono di risolvere sono causati dal capitalismo e perciò non possono mai essere risolti finché al capitalismo è permesso di continuare.

Il capitalismo non può operare per tutti

Il capitalismo, essendo un sistema di profitto basato sul possedimento di classe dei mezzi di produzione, non può mai essere organizzato per operare nell’interesse di tutti. Esso mette sempre i profitti al primo posto. È la sua natura, la quale non può essere cambiata da nessun governo o da nessun altra forma di attività nel contesto del possedimento di classe e della produzione per profitto.

Questo è il motivo per cui il riformismo, che è un tentativo di fare operare il capitalismo nell’interesse di tutti, è in definitiva inutile. Al massimo può solamente piallare un po’ alcune delle parti più scabrose, almeno per alcune persone e per un periodo, ma non può mai risolvere i problemi dei lavoratori salariati o stipendiati.

Questa è la situazione; ciò che la classe lavoratrice, come classe che soffre di più per i problemi causati dal capitalismo, dovrebbe essere impegnata a fare è porre fine alle contraddizioni tra cooperazione nella produzione e appropriazione privata dei prodotti. Ciò può essere fatto solamente portando il possedimento in linea con la realtà produttiva, determinando una situazione dove ciò che è prodotto collettivamente è anche posseduto collettivamente; il che è possibile solamente quando i mezzi per produrre ricchezza sono diventati la proprietà comune di tutti i membri della società.

La soluzione socialista

Questo – la proprietà comune e il controllo democratico dei mezzi di produzione da parte e nell’interesse della società nel complesso – è il socialismo ed è l’unico scopo politico per cui vale la pena adoperarsi. Esso soltanto può fornire la struttura nella quale la produzione può essere “riorientata” non per realizzare profitti a favore di una classe possedente, ma per fornire ciò che la gente vuole e necessita. Sulle basi della proprietà comune e del controllo democratico, abbastanza cibo, vestiario, alloggio, trasporto, energia e altre necessità della vita potrebbero, dovrebbero e sarebbero prodotte per assicurare che nessuno, in nessuna parte del mondo, sia senza ciò di cui ha bisogno. La privazione materiale e le preoccupazioni riguardanti il soddisfacimento dei bisogni materiali – attorno alle quali gira oggi la maggior parte delle vite della gente – non esisterebbero più.

Ma il socialismo non riguarda solo il soddisfacimento dei bisogni materiali della gente. Quello nel socialismo sarà solo routine, una cosa data per scontato. Riguarderà anche il permettere a noi esseri umani di comportarci come gli animali sociali che, biologicamente, siamo. Noi non siamo solamente dipendenti l’uno dall’altro materialmente – dalla cooperazione per produrre ciò di cui abbiamo bisogno – ma anche psicologicamente e culturalmente. Ci siamo evoluti attraverso la cooperazione e abbiamo bisogno di cooperare e sentirci parte di una comunità come altri esseri umani, ma il capitalismo ci nega questo, perché si basa sulla competizione anziché sulla cooperazione. Vi è competizione non solo tra la classe possedente e la maggioranza esclusa – la cosiddetta lotta di classe – ma anche tra i membri della classe possedente per fare profitti – il che, su scala mondiale, porta a guerre e a preparativi per la guerra, per le fonti di materie prime, le rotte commerciali, i mercati e gli sbocchi di investimento – e tra i membri della maggioranza esclusa per i lavori e gli alloggi, alimentando nazionalismo, razzismo e xenofobia.

Il socialismo, mettendo fine alla divisione della società in classi antagoniste, e assicurando che vengano soddisfatti tutti a bisogni materiali di ogni essere umano, fermerà la corsa sfrenata al successo cui siamo costretti a partecipare sotto il capitalismo e creerà una vera comunità e un vero senso di comunità. La gente non sarà più alienata dalla sua natura sociale e dagli altri esseri umani.

In che modo arrivare al socialismo?

Quelli che costituirono il Partito Socialista in Gran Bretagna ebbero un’idea chiara di come il socialismo dovrebbe succedere: attraverso la classe di maggioranza lavoratrice che giunge a capire che essa è una classe sfruttata alla quale il capitalismo non ha niente da offrire, e con l’organizzazione sul campo politico, inseguendo senza compromessi l’unico scopo di strappare il controllo del potere politico alla classe capitalista in modo da usarlo per mettere fine al monopolio esistente della minoranza capitalista sui mezzi di produzione della ricchezza. Questa espropriazione politica e quindi economica veniva vista come un atto consapevole, democratico e politico.

Essa veniva vista come un atto rivoluzionario, non nel senso di rivolta e spargimento di sangue, ma nel senso di un passaggio decisivo, di una rottura, con la rapida conversione dei mezzi di produzione dal monopolio classista di una minoranza alla proprietà comune di tutta la gente. In altre parole, una rivoluzione sociale vista come un rapido e improvviso cambiamento nelle basi della società attuato con i mezzi politici.

A quel tempo c’erano altri che si facevano chiamare socialisti, che proponevano un altro approccio: la graduale trasformazione del capitalismo in socialismo attraverso una serie di riforme sociali che avrebbero dovuto migliorare le condizioni della classe lavoratrice con l’integrazione dei loro salari derivante da benefici statali e che avrebbero dovuto convertire le industrie individuali, una dopo l’altra, in servizi pubblici producendo ciò di cui la gente aveva bisogno non per profitto. Questo andava sotto vari nomi: gradualismo, fabianismo, revisionismo (quando proposto da ex-rivoluzionari marxisti), riformismo.

Il gradualismo fallisce

Questa strategia nega la necessità di una maggioranza socialista consapevole come condizione preliminare per istituire il socialismo. Secondo i suoi proponenti, tutto ciò che era necessario era una maggioranza parlamentare acquisita sulla base di voti per un programma di riforme da essere realizzate nel capitalismo. È stata una strategia sperimentata, in Gran Bretagna, nel 1945 quando il Partito Laburista ebbe una vittoria elettorale schiacciante che gli diede un’enorme maggioranza parlamentare.

Ma non funzionò. Il Partito Laburista, avendo preso la responsabilità di governare il capitalismo, si rese conto, come durante i governi di minoranza in Inghilterra nel 1924 e 1929-1931, che il capitalismo doveva essere governato seconde le proprie regole: cioè la priorità doveva essere data alla produzione di profitto non a miglioramenti sociali per i lavoratori; di fatto, anche i salari dovevano essere contenuti. I governi laburisti di Wilson e Callaghan negli anni 1960 e 1970 non andarono meglio nel riformare il capitalismo nell’interesse di quelli che dipendevano da un salario o uno stipendio per vivere. Inoltre, quei governi finirono con l’amministrare il capitalismo secondo le sue regole, cioè nell’interesse della produzione per il profitto e contro gli interessi degli stipendi e dei salari guadagnati dalla maggioranza. Così fecero tutti i governi simili in altre parti del mondo.

L’esperienza del XX secolo ha mostrato che i gradualisti sbagliano. Tali partiti, invece di cambiare gradualmente il capitalismo, sono stati loro stessi cambiati dal capitalismo. Oggi, addirittura non pretendono di andare verso il socialismo, ma solamente di essere in grado di amministrare il capitalismo in una maniera più efficiente.

I membri del Partito Socialista in Gran Bretagna non erano gli unici critici del riformismo gradualista. I primi membri inizialmente si vedevano come parte della corrente del movimento socialdemocratico che si opponeva al revisionismo e all’opportunismo che si stavano diffondendo all’interno del movimento socialista. Tuttavia, la maggior parte degli altri oppositori del gradualismo prima della prima guerra mondiale, inclusa Rosa Luxemburg, autrice di un opuscolo con il titolo “Riforma o Rivoluzione?”, non videro il pericolo di cercare il sostegno di non-socialisti e la possibilità di diventare loro prigionieri, cioè di un partito socialista che sostenesse le riforme. Dopo il vergognoso crollo del movimento socialdemocratico internazionale quando la guerra irruppe, molti degli altri antigradualisti tornarono al bolscevismo di Lenin per una strategia alternativa.

Anche l’azione minoritaria ha fallito

Laddove i gradualisti sono sempre rimasti a favore di metodi democratici e di azione maggioritaria anche se da parte di non-socialisti, Lenin sosteneva che sotto il capitalismo solo una minoranza sarebbe stata in grado di raggiungere la consapevolezza socialista e che perciò questa minoranza aveva il dovere di organizzarsi come un partito di avanguardia per afferrare il potere per conto della maggioranza.

In altre parole, la strategia alternativa leninista non era un’azione politica socialista conscia e maggioritaria del tipo che sosteneva il Partito Socialista in Gran Bretagna, ma un’azione minoritaria: il socialismo doveva essere introdotto da una dittatura esercitata da una minoranza di socialisti. Così è come fu presentata la presa del potere dei bolscevichi nel corso della rivoluzione russa del 1917. Questa non poteva mai essere una via per raggiungere il socialismo, poiché il socialismo può solo esistere su una base democratica con partecipazione maggioritaria nelle decisioni che vengono prese. E, infatti, il socialismo non è stato raggiunto. Invece che portare al socialismo, la dittatura bolscevica in Russia ha portato a un capitalismo di stato in cui i “socialisti” di avanguardia sono diventati una nuova classe dominante che ha poi esercitato una brutale dittatura sui lavoratori della Russia.

Il XX secolo ha confermato che né la dittatura di minoranza né il riformismo parlamentare possono essere una via al socialismo. La cosa peggiore è stata che la dittatura russa ha rivendicato di essere socialista, con il risultato che milioni di lavoratori in tutto il mondo sono stati scoraggiati dall’idea stessa del socialismo. A dire la verità, il socialismo sta ancora soffrendo per questa sgradita eredità, con la diffusa idea che “il socialismo sia stato sperimentato (in Russia) e sia fallito”.

In realtà il socialismo non è stato sperimentato. Ciò che è stato sperimentato sono due strategie – il riformismo gradualista e la dittatura di minoranza leninista. Entrambe sono fallite. Ciò che non è stato provato è la strategia proposta dai membri fondatori del Partito Socialista della Gran Bretagna nel 1904: un’azione politica consapevole, maggioritaria, rivoluzionaria.

Così come il socialismo rimane urgente oggi come lo era nel 1904, lo è anche quella strategia. “Niente socialismo senza socialisti” rimane un’idea valida oggi come lo era allora. E “il formare socialisti”, come un passo verso l’emergere di un desiderio maggioritario per il socialismo, rimane il compito di quelli che vogliono vedere un mondo socialista di proprietà comune, controllo democratico, produzione per soddisfare i bisogni della gente e libera distribuzione secondo il principio “da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni”.

(Traduzione da Socialist Standard, gennaio 2005)