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martedì 19 maggio 2020

ANGELICA BALABANOFF: UN ITINERARIO VERSO IL BOLSCEVISMO E RITORNO

Anželika Isaakovna Balabanova nacque a Černigov nell’Impero Russo (ora Černihiv in Ucraina) in agosto, probabilmente attorno al 1868 [1]. La sua famiglia, di origine israelitica, era ricca, sicché lei ebbe un’infanzia privilegiata. Presto si rese conto di non sentirsi a suo agio in quel tipo di classe sociale abbiente e, con il sostegno finanziario della famiglia ma allo stesso momento contro il suo volere, si trasferì a Bruxelles per frequentare l’Université Nouvelle. Lì conobbe figure di spicco della Seconda Internazionale (o vicine ad essa), come Élisée Reclus, Émile Vandervelde e Georgi Plekhanov.
A Lipsia, dove si trasferì per un breve periodo, conobbe anche Rosa Luxemburg che divenne il suo modello per gli anni a venire. Quindi si recò a Berlino dove frequentò lezioni di economia politica e incontrò vari membri di alto livello del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD), come Clara Zetkin e August Bebel. Sentì quindi parlare di un professore di filosofia italiano, il marxista Antonio Labriola, abbastanza noto persino tra gli studenti della SPD. Così decise di trasferirsi a Roma dove frequentò le lezioni di Labriola e incontrò alcuni fondatori del Partito Socialista Italiano (PSI): Filippo Turati, Claudio Treves e la compagna di Turati, anch’ella un’ebrea russa, Anna Kuliscioff. In quel periodo prese a italianizzare il suo nome divenendo per tutti “Angelica Balabanoff”.

mercoledì 19 febbraio 2020

Antonio Labriola

Introduzione

Sono ormai passati 130 anni dall’ingresso di Antonio Labriola nella scena socialista italiana e mondiale. Nonostante non sia mai stato un nome di spicco nel firmamento marxista, Labriola ha avuto picchi di popolarità seppur in circuiti molto ristretti. Probabilmente nonostante sia stato considerato da diversi studiosi del marxismo uno dei suoi filosofi più rigorosi, il suo pensiero filosofico, appunto, è risultato poco accessibile ed è rimasto pressoché sconosciuto ai molti.

Ad ogni modo, mentre in vita aveva un certo ascendente su alcuni socialdemocratici tedeschi, era infatti in relazione epistolare tra gli altri con Bebel e Kautsky. Diviene perciò comprensibile come possa una giovane Angelica Balabanoff, ancora studentessa universitaria in Germania, decidere di trasferirsi in Italia dopo averne sentito parlare così bene da compagni di corso vicini alla Socialdemocrazia. La Balabanoff in una lettera al Mussolini “socialista” teneva molto a precisare la differenza che passava tra Antonio, il professore di filosofia e marxista ortodosso e Arturo, il sindacalista rivoluzionario, che Engels chiamava argutamente “Labriolino”. 

Quando all’età di 47 anni decide di scrivere a Engels, Labriola è già professore ordinario di filosofia e didattica all'Università di Roma, proveniente dalla scuola di Bertrando Spaventa filosofo neo-hegeliano di spicco. Labriola era stato aiutato a più riprese dai fratelli Spaventa nel trovare una degna occupazione, presso i circuiti governativi post-unitari. Prima di approdare al socialismo Labriola aveva già studiato a fondo, oltre Hegel, anche Feuerbach e la scuola di Herbart. Aveva vinto onorificenze nella trattazione degli antichi greci, di Spinoza e di Giambattista Vico. Nel 1871, ben 19 anni prima di diventare socialista, Labriola entra in politica come pubblicista. Scrive dapprima ne «Il Piccolo» e nella «Gazzetta di Napoli», giornali liberali, quindi nell’ «Unità Nazionale» e nella «Nazione» di Firenze. A quel tempo era vicino alla Destra storica, ma per il superamento della vecchia politica risorgimentale, fino a quando nel 1886 tentò di presentarsi come candidato, senza nessuna appartenenza partitica, su posizioni radical-progressiste contro il trasformismo di Depretis. Quindi, soprattutto dopo un viaggio in Germania allo scopo di studiarne il sistema educativo, si avvicina al socialismo scientifico. Inizia quindi un rapporto epistolare con Engels e Turati.

Come marxista, Labriola prese parte al dibattito scaturito dalla pubblicazione del III libro de “Il Capitale”, si occupò della critica di Böhm-Bawerk, ma, soprattutto, delle “sciocchezze” di Achille Loria e dei suoi ammiratori sulla Critica Sociale, tra i quali Turati stesso. La critica di Labriola si riferisce allo schema di riproduzione semplice, il quale evidenzia come la dimensione temporale (ossia il momento dell’acquisto è distinto da quello della vendita) del ciclo produttivo con la conseguente usura dei macchinari, spieghi la discrepanza tra valore contenuto e valore realizzato. Engels nella prefazione al III libro, si trova costretto a criticare la confusione di Loria tra massa del plusvalore e profitto e l’idea di quest’ultimo che il capitale commerciale possegga il “magico potere” di assorbire in sé tutto il plusvalore eccedente il saggio generale di profitto. Si torna quindi al punto esplicitato da Marx, anni prima in una lettera ad Engels, secondo cui Loria interpreta il capitalismo come una sorta di proprietà terriera intesa sotto forma di rendita fondiaria. Marx scrive: “ero divertito e soddisfatto dal suo [di Loria] modo di scusarsi apertamente dell’avere antiquato ‘Il Capitale’ con la sua proprietà fondiaria. Per tutto ciò, riserbo ancora seri dubbi sul carattere di questo giovane” [1]. Labriola, seppur con i suoi limiti in campo economico, enfatizza l’ignoranza di Loria nel non considerare il ciclo produttivo come un elemento dinamico temporale contenente l’usura dei macchinari.

L’apporto originale al marxismo di Labriola fu quello filosofico. Come descrive lui stesso a Engels “vissi per anni con l’animo diviso fra Hegel e Spinoza”. Sempre a Engels, Labriola confessa “Forse - anzi senza forse - io sono diventato comunista per effetto della mia educazione (rigorosamente) hegeliana, dopo essere passato attraverso la psicologia di Herbart, e la Volkerpsychologie di Steinthal e altro”.

Volgendomi al Socialismo, non ho chiesto a Marx l’abicì del sapere. Al marxismo non ho chiesto, se non ciò che esso effettivamente contiene: ossia quella determinata ‘critica dell’economia’ che esso è, quei ‘lineamenti del materialismo storico’ che reca in sé (...). Non chiesi al marxismo nemmeno la conoscenza di quella filosofia, che esso suppone, e, in un certo senso, continua, superandola per inversione dialettica; ed è l’Hegelismo che rifioriva (...). Per intendere il socialismo scientifico non mi occorreva, dunque, di avviarmi per la prima volta alla concezione dialettica, evolutiva o genetica, che dir si voglia, essendo io ho vissuto sempre in cotesto giro di idee, da che pensatamente penso”.

Labriola era un professore di filosofia e in quanto tale egli spiega che l’essenza del materialismo storico è “la filosofia della praxis [prassi o pratica], in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d’idealismo.” Una filosofia che non è confinata alla comprensione del pensiero e della società che l’ha generato, ma, alla sua trasformazione, attraverso la presa di coscienza dei meccanismi di trasformazione del pensiero stesso.
Specifica ad Engels che in italiano sarebbe più opportuno parlare di metodo genetico invece di metodo dialettico, in quanto il termine dialettico “è denigrato nell’uso comune all’arte retorica ed avvocatesca” mentre il metodo vuole intendere “le cose che divengono” (ovvero la loro genesi).

Vede la storia come processo di creazione di un terreno artificiale che media il divenire delle cose tra cui il capitalismo e quindi il socialismo.

 Le idee non cascano dal cielo, e anzi, come ogni altro tipo di prodotto dell’attività umana, si formano in date circostanze (…). Anche le idee suppongono un terreno di condizioni sociali, ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una forma del lavoro.

Lo stato è (...) messo al suo posto (...) in quanto forma che è effetto di altre condizioni, e a sua volta, poiché esiste, reagisce naturalmente sul resto. (...). Codesta forma sarà mai superata? [Sì] ma come risultato dell’immanente processo della storia. (...). La premessa di tale previsione è nelle condizioni stesse della presente produzione capitalistica [che] concentra di giorno in giorno sempre più la proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di pochi, (...) azionisti e negoziatori (...) la cui direzione passa all’intelligenza. Col crescere della coscienza di tale situazione nei [lavoratori] e col decrescere della capacità nei detentori del capitale a conservare la privata direzione del lavoro produttivo, si verrà a un punto in cui, di un modo o dell'altro, con la eliminazione di ogni forma di rendita, interesse e proprietà privata, la produzione passerà all'associazione collettiva, ossia sarà comunistica. (...). Il governo tecnico e pedagogico dell’intelligenza sarebbe l’unico ordine della società.”

Nell’opera In memoria del Manifesto, Labriola indica che la previsione storica del comunismo critico è una previsione morfologica, ovvero che rivela la forma delle cose, quali le classi sociali.

Qui sotto riportiamo un brevissimo articolo uscito sul Socialist Standard (Febbraio 2016) sul Labriola Socialista più che filosofo. In aggiunta abbiamo digitalizzato una sua lettera ad Engels in merito alla fondazione del Partito Socialista Italiano.



“Quando solo alcuni individui più o meno socialisti si rivolgono a ignoranti proletari che sono apolitici e in gran parte reazionari, è quasi inevitabile che quegli individui vengano considerati utopisti e demagoghi”.
  Antonio Labriola


[1] per approfondire il discorso dei difficili rapporti (sia umani che intellettuali) tra Marx ed Engels da un lato e Achille Loria dall’altro, si puo leggere l’utile artico di G. M. Bravo “Engels e Loria: relazioni e polemiche”, Studi Storici, Anno 11, No. 3 (Luglio - Settembre 1970), pp. 533-550.



mercoledì 29 gennaio 2020

1920 - 2020 L’Occupazione delle Fabbriche e il mito della mancata rivoluzione socialista in Italia

Introduzione

Tra il 25 e il 30 settembre del 1920, esattamente un secolo fa, terminava il cosiddetto movimento di “Occupazione delle Fabbriche”, con gli operai che sgomberavano pacificamente gli stabilimenti riconsegnandoli agli industriali. Quasi contemporaneamente, il 2 ottobre, quando l'occupazione era da poco conclusa, il settimanale socialista torinese L’Ordine Nuovo pubblicava un editoriale [1] in cui, oltre ad ammettere la sconfitta dei lavoratori industriali, si accusavano i dirigenti sindacali e i burocrati di partito di esserne i responsabili. Finiva la cronaca ed iniziava già il mito, quello della mancata rivoluzione socialista in Italia. Una leggenda ancora largamente diffusa nella sinistra “radicale” italiana: dai leninisti agli anarchici, dai trotzkisti [2] ai bordighisti, dagli “operaisti” fino, addirittura, ad alcune frange più intransigenti della socialdemocrazia. Più in generale, tutto il periodo degli anni 1919 e 1920, noto in Italia con il nome pittoresco di “Biennio Rosso”, verrà visto da molti come un susseguirsi di possibili occasioni pre-rivoluzionarie nelle quali i lavoratori, potenzialmente e obiettivamente in grado di conquistare il potere politico ed economico, furono sistematicamente illusi e ingannati dai loro dirigenti partitici e/o sindacali. Traditi dai socialisti del PSI secondo gli anarchici, traditi dalla potente minoranza riformista della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) secondo i socialisti massimalisti, traditi sia, direttamente, dai riformisti sia, indirettamente, dai massimalisti secondo la cosiddetta “frazione astensionista” del PSI, che avrebbe di lì a poco formato il Partito Comunista d’Italia (PCdI) sotto la pressione della potente componente bolscevica russa del Komintern (Internazionale Comunista).    
Personalmente non siamo affatto d’accordo con questo ridicolo scaricabarile. La nostra tesi è radicalmente diversa: nel Biennio Rosso non sarebbe stata possibile alcuna rivoluzione socialista in Italia e nel resto dell’articolo cercheremo di spiegarne chiaramente le ragioni. Tuttavia, prima di cominciare, è necessaria una brevissima ma cruciale precisazione: anche se alcune delle nostre analisi di questo fenomeno storico sembreranno esteriormente simili a quelle apparse in quegli anni sulle colonne della rivista teorica riformista del PSI, la Critica Sociale di Filippo Turati, noi non siamo assolutamente dei riformisti. Anzi, all’opposto, pensiamo che il sistema capitalista non possa esser trasformato gradualmente nel suo successore storico, il Socialismo. In questo senso, pur riconoscendo che su alcuni singoli punti (la critica alla Rivoluzione d’Ottobre, il rifiuto dei moti insurrezionali violenti ecc. [3]) Turati e i suoi compagni interpretarono l’insegnamento di Marx ed Engels meglio dei loro avversari massimalisti e leninisti, non ne possiamo in alcun modo condividere scelta strategica di fondo: faticosi progetti parlamentari di leggi per la riforma sociale, lenta conquista politica dei comuni urbani con la conseguente creazione di cooperative e di aziende municipalizzate ecc., fino all’illusione finale di potersi alleare nel 1924 con la parte più “democratica” della borghesia in vista di un ipotetico fronte antifascista che salvasse il paese dalla dittatura mussoliniana. Come sono lontani i tempi (26 gennaio 1894) in cui Friedrich Engels in persona istruiva [4] il giovane avvocato Turati sui gravissimi rischi di un governo di coalizione tra partiti socialisti e forze politiche borghesi! Ma questa è proprio la parabola storica (1892-1925) del “primo riformismo italiano” che meriterebbe un approfondimento a parte e che esula, ovviamente, dal tema del presente articolo.

giovedì 7 dicembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Conclusioni)

Conclusioni

Questo breve saggio non ha l'ambizione di essere un resoconto storico completo. Lo scopo principale di questo testo è quello di riportare alla luce in un contesto di sinistra socialista, marxista, intransigente, la critica al leninismo successiva i fatti di "Ottobre". L'aspetto cronologico è fondamentalmente, in questo caso, perché fare gli opinionisti col senno di poi su posizioni e idee generatesi durante l'accadimento dei fatti, è scorretto da ogni punto di vista. Negli articoli esposti è chiaro che dopo un periodo di incertezza avendo notizie molto approssimative sugli accadimenti russi, il socialisti unitari, così come i socialisti del SPGB, assunsero una posizione molto critica nei confronti della dittatura bolscevica; mentre i massimalisti italiani accettarono a pieno il leninismo e si divisero principalmente sull’uso del parlamento, prima, e sulla modalità di collaborazione con i riformisti poi. Ovviamente le nostre idee si basano sia sul riscontro della dottrina marxista quanto sugli sviluppi e i risultati di sconvolgimenti sociali quali anche quelli determinati dal bolscevismo in Russia. 
È immediato notare una certa similarità nelle critiche dei socialisti unitari italiani e degli impossibilisti inglesi. L’immaturità delle condizioni economiche, il potere nelle mani di una minoranza e l’utilizzo inappropriato del termine dittatura del proletariato, per giustificare la dittatura di una minoranza, infine l’uso del terrore. In Treves, almeno negli articoli riportati, che ricordiamo sono subito successivi la rivoluzione, più che in Mondolfo e Turati, c’è una sorta di giustificazione delle azioni di Lenin e soltanto un ammonimento della sua applicabilità solo alla situazione russa. Nei tre socialisti unitari, troviamo molti elementi di critica comuni a quelli presenti nel SPGB. La mitizzazione del Soviet, e della sua democraticità, la mancanza di condizioni economiche per poter parlare di instaurazione del socialismo, e ripiegamento sul capitalismo. Turati, Treves, Modigliani e gli altri socialisti unitari, furono presto al centro della polemica tra i bolscevichi e i massimalisti italiani, in merito ai 21 punti per l’ammissione del PSI nella Terza Internazionale e la condizione necessaria di estromissione di tali riformisti dal partito. La loro critica venne quindi vista come quella di social-traditori alla Kautsky del resto.
Come già accennato nel preambolo, nonostante le similarità delle critiche da parte dei socialisti unitari e di quelli inglesi del SPGB, paragonare uno a uno il PSI al SPGB in termini di seguito nelle masse non sarebbe storicamente corretto. Per attenersi a quel periodo il PSI aveva ottenuto 883.409 voti (17,62%) nel 1913; e 1.834.792 voti (32,28%) nel 1919, aveva una grande presenza nei sindacati confederali, soprattutto la frazione unitaria; mentre il SPGB non raccoglierà voti nelle elezioni generali fino al 1945; in più il SPGB (probabilmente sui 150-200 membri all’epoca) era un partito fisiologicamente più piccolo del PSI, che aveva 200.000 iscritti nel 1920. D’altro canto si potrebbe dire che non scendere a compromessi si paga in popolarità.
Questa analisi non vuol fare nemmeno un’associazione tra gli impossibiliti inglesi, ai quali il nostro Movimento Socialista Mondiale si rifà, e i riformisti italiani. I socialisti unitari (ossia i riformisti, italiani) erano oramai dell’idea di cambiare gradualmente il capitalismo mediante l’uso delle riforme e grazie al suffragio universale, nel quale riversavano una fiducia, se non una fede, sproporzionate. La posizione del SPGB era (ed è) chiara in merito: se la maggioranza dei lavoratori non concepisce la produzione sociale (e quindi non è organizzata per essa) non potrà attuare la rivoluzione del sistema socio-economico per mezzo della presa del potere politico. Tale rivoluzione socio-economica attuata da parte della maggioranza dei lavoratori organizzati e addestrati alla produzione sociale sarà democratica. Quindi niente evoluzionismo. Questo ci differenzia dai riformisti-revisionisti, come anche niente salti, niente minoranze o leader illuminati, e questo ci differenzia dai rivoluzionari-centralisti.           
Storicamente, in sostanza, i risultati, e il peso, dei "minimalisti", e degli impossibiliti, furono così marginali, che si tende a dimenticare quello che di buono, talvolta "profetico", la loro analisi a caldo conteneva, e contiene. Per gli anni a venire la bolscevizzazione del Partito Comunista prima, e di quello Socialista poi, egemonizzò il pensiero della maggioranza della classe lavoratrice di sinistra. Questo portò in classico stile bolscevico a cancellare ogni critica, che venisse dalla "destra" e dalla “sinistra” marxista. Il nazional-comunista Palmiro Togliatti fu la personificazione, in Italia, di questa censura, e distorsione, con la sua esaltazione di un certo Gramsci e la distruzione di voci come quelle di Turati, Treves, Rodolfo Mondolfo, ma anche socialisti come Lelio Basso, Angelica Balabanoff, e leninisti come Bordiga, Onorato Damen, Ottorino Perrone, e Pietro Tresso, quest’ultimo addirittura fisicamente eliminato dagli stalinisti.
Quando l’Unione Sovietica non poté più essere difesa neanche dal punto di vista ideologico più bieco, allora si incominciò ad addossare tutte le colpe a Stalin, che nonostante fosse stato un dittatore sanguinario, fu tra la maggioranza degli incerti in merito all’insurrezione d’Ottobre, spinta principalmente da Lenin.
Per la sinistra comunista italiana, il discorso della deviazione della rivoluzione russa fu un po’ più intricato, in quanto ammetteva e ammette sì la rivoluzione politica in Russia, ma ad un certo punto non quella economica. E fu anche, come visto, altrove, forte oppositrice della bolscevizzazione del Partito Comunista d’Italia.      
Infine, nonostante il lunghissimo strascico devastante dell’influenza del leninismo sul socialismo marxista, bisogna dare del credito a Lenin come marxista. Lenin era di sicuro un “blanquista”, ovvero credeva che una minoranza, regolata da una rigida disciplina, potesse rivoluzionare il sistema sociale, che secondo lui doveva passare per il Capitalismo di Stato, ma come si è visto in queste ampie citazioni, fu molto più realista di altri leninisti, o dovremmo dire “blanquisti” per coerenza. Purtroppo, l’identificazione del marxismo col leninismo, che io continuerei a chiamare “blanquismo”, non fece che dar credito agli anarchici bakunisti, della Prima Internazionale, che criticavano in Marx l’eccessivo autoritarismo centralista. Il marxismo è ben altro che autoritarismo, ma spiegalo un po’, dopo che il leninismo è diventato l’emblema del marxismo.   
Cosa impariamo dalla rivoluzione di ‘Ottobre’ quindi? Che la rivoluzione del sistema economico-sociale non fa salti, si deve basare sul massimo sviluppo delle forze produttive capitaliste. Che non può che essere globale e instaurata dalla maggioranza della classe lavoratrice cosciente. Che per quest’ultimo motivo la classe lavoratrice deve vincere l’egemonia culturale della classe dominante e prendere coscienza. La rivoluzione non è né violenza anarchica né un graduale processo di riforme del capitalismo.
Solo oggi incominciamo ad intravedere il pieno potenziale del sistema capitalista applicato a livello globale, con la Cina, l’India, il Medio Oriente in forte sviluppo. Allo stesso momento, vi sono parti nel mondo ancora ai primi passi verso questo processo. Il capitalismo del XXI secolo non ha ancora risolto le sue contraddizioni, nonostante quanto sostengano le svariate creative formulazioni degli economisti asserviti alla classe capitalista. Le contraddizioni del capitalismo sono sempre più evidenti: ricerca del massimo profitto a scapito dell’uomo e dell’ambiente, guerre di interesse commerciale e strategico, terrore, disoccupazione, immigrazione di massa, propaganda di regime, sistema di educazione conformato al pensiero piccolo borghese, povertà, e disparità economica.
Secondo il Movimento Socialista Mondiale la via di uscita c’è, ed è un processo sulle spalle di tutti noi lavoratori, organizzati al di fuori del sistema capitalista, in modo davvero democratico, quindi senza capi o condottieri.


Lavoratori di tutto il mondo unitevi! Da perdere avete solo le vostre catene!  

giovedì 30 novembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Parte I)


Introduzione

Abbiamo in precedenza, anche se alquanto superficialmente, trattato della reazione degli intransigenti rivoluzionari di sinistra ovvero gli scissionisti comunisti di Livorno (21 gennaio 1921), con l'articolo di Gramsci "La Rivoluzione Contro il Capitale" pubblicato su “L'Avanti” il 24 novembre 1917, e la reazione di Bordiga su “L’Avanguardia” nel dicembre del 1917. Aggiungiamo qui alcuni dei loro commenti in merito agli attacchi critici dei socialisti unitari, ma non riporteremo nella loro completezza le analisi dei due marxisti sulle quali e sui quali molto è già stato scritto. Per completezza si dovrebbe anche analizzare la reazione di Giacinto Menotti Serrati, direttore de “L'Avanti” al tempo della rivoluzione d'ottobre, e leader di fatto della corrente a quel tempo maggioritaria all'interno del PSI, ovvero quella massimalista, rivoluzionaria, parlamentare. E della reazione un po’ tardiva degli anarchici italiani, come quella del vecchio Errico Malatesta, e dei suoi discepoli Luigi Fabbri e Armando Borghi. Tuttavia, queste meriterebbero una trattazione separata. Basti ricordare che Serrati si espresse sempre in favore di Lenin fino alla questione dalle 21 condizioni di ammissione alla Terza Internazionale che portarono alla scissione di Livorno nel 1921; mentre gli anarchici videro nel centralismo leninista una conferma della critica bakuniana al supposto “autoritarismo marxista”.  

 

Critica Sociale sul leninismo

Già il 6 novembre un dispaccio della Stefani annuncia il tentativo dei massimalisti russi di impadronirsi del potere in Russia, presa del potere che viene confermata l’8. Con l’articolo di Ing. dell’11 si incominciano ad avere le prime notizie sulla rivoluzione di Ottobre. Il gruppo parlamentare, notoriamente riformista, si esprime dapprima positivamente nei confronti della presa del potere di Lenin, come confermato dall’intervento alla Camera di Modigliani nel dicembre. Il corrispondente Ing. con i suoi ultimi articoli per “L’Avanti” sempre in dicembre delinea una presunta convergenza dei bolscevichi con i socialrivoluzionari e i menscevichi internazionalisti, la quale viene smentita dalla agenzia Stefani con un dispaccio del 22 gennaio, dichiarando lo scioglimento dell’Assemblea Costituente. Nonostante con una certa cautela, le prime aperte critiche al bolscevismo appaiono tra le file dei socialisti unitari. 

sabato 25 novembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Preambolo)

In occasione del centenario del colpo di stato bolscevico in Russia (7 novembre 1917 secondo il calendario gregoriano vigente in occidente, 25 ottobre per il calendario giuliano), abbiamo preparato un breve saggio sulla reazione dei socialisti unitari, detti anche “minimalisti”, o “riformisti”, del Partito Socialista Italiano (PSI) e la paragoneremo principalmente con la reazione dei socialisti inglesi del “nostro” Partito Socialista della Gran Bretagna (SPGB). Questo sarà diviso in quattro parti. Il preambolo che affronterà molto superficialmente il periodo che va dalla Rivoluzione di Febbraio a quella di Ottobre; un secondo che tratterà la reazione dei socialisti italiani, e in particolare quella degli unitari, la terza parte sulla reazione del SPGB, e infine le conclusioni.

È doveroso sottolineare però due cose. Paragonare il PSI al SPGB ovviamente è storicamente errato e non è l’intento di questo scritto. Il PSI era già agli inizi del ‘900 un partito con un grande seguito nelle masse, e ancor di più, come si vedrà, nel periodo post-rivoluzionario. Il SPGB nasceva dalla scissione doverosa del 1904, contro ogni tipo di riformismo e centralismo, scissione che lo aveva però ridimensionato dal punto di vista del seguito, e ciò nonostante rimaneva fedele al socialismo marxista.

In secondo luogo è importante notare l’omogeneità dell’intransigenza del SPGB, al contrario del PSI non era lacerato tra il gradualismo dei riformisti, l’attendismo dei massimalisti e il dogmatismo programmatico degli intransigenti di sinistra. Ciò nonostante la critica dei riformisti italiani, pur non condividendo noi l’imborghesimento della loro lotta politica, fu una delle più lungimiranti sui fatti di Russia ed è per questo che vale la pena riportarla.                 

Preambolo

La Rivoluzione di Febbraio viene annunciata da “L’Avanti” tramite l’agenzia Stefani, il 16 marzo del 1917 secondo il calendario gregoriano. La discussione verte principalmente sull’impegno russo nell’Intesa, e trova i liberali interventisti euforici dell’idea che questa possa dare nuovo vigore allo sforzo russo sul fronte orientale. Mentre il gruppo parlamentare socialista, nella fattispecie Filippo Turati e Giuseppe Modigliani, è scettico che la deposizione dello zar possa avere questo significato. Turati in un discorso al consiglio comunale di Milano, il 25 aprile, ribadisce la formula zimmerwaldiana della pace senza annessioni né indennità. Sempre in aprile viene pubblicata su “L’Avanti” la dichiarazione del governo provvisorio russo di rinuncia ad ogni ambizione espansionistica. Si riunisce a Milano la Direzione del Partito Socialista, il gruppo parlamentare e il consiglio direttivo della Confederazione del Lavoro, dove il Partito ribadisce la sua posizione pacifista. Da questa riunione scaturisce il documento Ai socialisti di tutti i paesi; al quale si oppone però Amadeo Bordiga con Nulla da rettificare uscito su “L’Avanti” il 23 maggio, dove sottolinea la tendenza intesista di questo documento. Gli risponde Serrati, direttore de “L’Avanti” sdrammatizzando la frase non felice attaccata da Bordiga, ribadendo la linea internazionalista del PSI. Verso la fine di aprile appare il primo articolo di Antonio Gramsci sulla Rivoluzione di Febbraio, Note sulla rivoluzione russa; qui curiosamente Gramsci precisa che “i rivoluzionari russi non sono giacobini, non hanno già sostituito alla dittatura di uno solo la dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far trionfare il programma.” Ovvero quello che avverrà poi in ottobre. Appariva su “L’Avanti” già il 30 marzo un articolo di Genosse Sacerdote su Lenin, spiegando che questi è per la pace e contro il governo provvisorio in favore di un’Assemblea Costituente. Già a fine aprile si leggono articoli inneggianti l’autorevolezza di Lenin e la figura di Lenin rivoluzionario intransigente cresce nell’immaginario degli operai. Nonostante Vasilij Ivanovič Suchomlin (Junior) il corrispondente russo de “L’Avanti”, esalti invece la figura del socialrivoluzionario Černov. Junior aveva forti riserve su Lenin in quanto secondo lui eccessivamente dogmatico. Una volta partito per la Russia Junior, in giugno, la corrispondenza passò alla Balabanoff e ad Ing. questi erano più favorevoli nei confronti dei bolscevichi.
Quindi vi sono i fatti di luglio, ovvero la sollevazione dei soldati e operai di Pietrogrado contro il governo che si concluse con la repressione governativa che vide nei bolscevichi i principali fomentatori dichiarando il loro partito fuorilegge. Serrati nel suo La crisi della rivoluzione pubblicato il 22 luglio su “L’Avanti”, denuncia che il “malcontento popolarenon è sedato… permangono le cause che lo avevano originato… guerra … approvvigionamenti … La rivoluzione, fatta dal proletariato, sta per essere sfruttata dalla borghesia…”, e in un altro articolo intitolato Lenin Serrati esalta la figura di Lenin come il leader del movimento operaio socialista russo. Sfatando un po’ il mito del leninismo divenuto popolare solo post-Ottobre, “Critica Sociale” (si veda Primavera di rivoluzione, Verso albe nuove) dei socialisti unitari, già in occasione della rivoluzione di febbraio denuncia l’arretratezza russa ed è critica della posizione di Lenin a Zimmerwald e Kienthal. Turati e Claudio Treves sono molto chiari a riguardo della pace separata soprattutto per il timore che questa pace rafforzi la Germania a svantaggio dell’Italia. Questa posizione filo-patriottica dei riformisti si acuirà con la disfatta di Caporetto e verrà attaccata dagli intransigenti. Intanto Gramsci aggiusta il tiro in luglio, con I massimalisti russi, apparso su “Il Grido del popolo” e “L’Avanguardia”, dove esalta Lenin e i bolscevichi come i veri rivoluzionari e non evoluzionisti.

Quindi al grido di «Viva Lenin!» viene accolta la delegazione del Soviet di Pietrogrado già nell’agosto del 1917. La delegazione è composta da Goldenberg (ex-bolscevico, ora indipendente), Ehrlich (del Bund), Russanov (socialrivoluzionario) e Smirnov (menscevico). I delegati sono per la pace generale e non separata. Nasce una polemica proprio sul «Viva Lenin!» tra Turati e Serrati. Il primo sostiene che questo grido denunci “una confusione d’idee”, il secondo, invece sostiene che Lenin era “uno dei più fedeli interpreti del socialismo internazionale”. Molti socialisti non vedono di buon occhio però il sostegno che i delegati russi sembrano dare al governo Kerenskij. Questo si palesa il 13 agosto a Torino, dove il comizio dei delegati russi tradotto a braccio da Serrati per la folla, si conclude (proprio per l’esaltazione e il colorire di Serrati) con incidenti che gli costeranno l’incarcerazione e un processo. Scontri molto più seri avverranno sempre a Torino con in moti del 22 fino al 26 agosto. La Conferenza di Stato chiamata da Kerenskij che escludeva i bolscevichi viene aspramente criticata da “L’Avanti”. È chiaro come riportato da Ing. in settembre che la rivoluzione può sopravvivere non solo con la sconfitta del generale Kornilov, ma con la sconfitta del collaborazionismo di Kerenskij. Serrati nei suoi Scampoli-Lenin il 3 ottobre si chiede in tutto questo dove sia Lenin. Con la conquista della maggioranza del Soviet di Pietrogrado da parte dei bolscevichi e la nomina a presidente di Trockij su “L’Avanti” si incomincia già a leggere un mese prima della presa del potere da parte dei bolscevichi che “Lenin occuperà presto il posto di Kerensky”. Una presa del potere non troppo inaspettata in fondo.