Qualsiasi cosa si possa pensare del
conduttore radiofonico Russell Brand, almeno ha reintrodotto la parola
‘rivoluzione’ nel vocabolario politico. Ma che cos’è una ‘rivoluzione’?
Una buona definizione del termine
“rivoluzione” è stata data dal socialista britannico del periodo vittoriano
William Morris in una conferenza del 1884, pubblicata successivamente in forma
di opuscolo con il titolo “Come viviamo e
come potremmo vivere”. Morris scrive:
«La
parola Rivoluzione, che noi Socialisti siamo così spesso obbligati a usare, ha
un suono terribile agli orecchi di molta gente, anche se abbiamo spiegato loro
che non necessariamente significa un cambiamento accompagnato da rivolte e da
ogni sorta di violenze, e che non può significare un mutamento fatto
meccanicamente, a dispetto dell’opinione pubblica, da un gruppo di uomini che
sono riusciti in qualche modo a prendere momentaneamente il potere esecutivo. Anche
se spieghiamo che usiamo la parola “rivoluzione” nel suo senso etimologico e
che intendiamo con essa un cambio delle basi della società, la gente ha paura
dell’idea di un cambio così vasto e implora che si parli di riforme piuttosto
che di rivoluzione».
Una rivoluzione, allora, è “un cambio
delle basi della società”, accompagnato o no dalla violenza (in effetti Morris
pensava che ci sarebbe stata), un cambio che deve essere piuttosto rapido
implicando una netta rottura con la società esistente. Il mutamento delle basi
della società che i socialisti prospettano, è un mutamento di ciò che esiste
oggi, dove la società è basata sulla proprietà e sul controllo dei mezzi di
produzione della ricchezza (tramite cui la società stessa sopravvive) da parte
di una esigua minoranza di individui abbienti, di società per azioni e di
stati. Vogliamo passare da questa situazione a una dove i mezzi di produzione
sono divenuti la comune eredità di tutti, per esser usati, sotto controllo
democratico, per il beneficio di tutti. Un cambiamento da una società classista
a una società senza classi. Un cambiamento dal capitalismo al socialismo.
Perché
una rivoluzione?
Perché c’è bisogno di una rivoluzione
contro il capitalismo? Non potrebbe esser riformato gradualmente fino a
scomparire? No, perché il capitalismo non può essere riformato in modo da
funzionare nell’interesse della maggioranza. In primo luogo esso è basato sullo
sfruttamento di questa maggioranza. Poiché la gran parte della gente è privata
dell’accesso ai mezzi di produzione, deve vendere le sua capacità lavorativa
per un salario o uno stipendio a chi l’accesso ce l’ha. Ma gli imprenditori non
sono filantropi. Danno lavoro alla gente solo se c’è un utile per loro, un
profitto. Se non c’è, non danno lavoro alla gente o addirittura la licenziano.
Questo accade continuamente. Dal momento che il solo modo in cui la ricchezza
può esser prodotta è tramite esseri umani che applicano le loro energie fisiche
e mentali ai materiali grezzi provenienti dalla natura, la sorgente di
un’entrata economica non lavorativa, come il profitto, può esser solo lo sforzo
di quelli che lavorano. Sono i lavoratori, e non gli imprenditori, i
“produttori di ricchezza”. Il profitto è la differenza tra quello che i
lavoratori salariati e stipendiati producono e il valore di quello con cui sono
pagati tramite stipendi e salari. L’estrazione e l’accumulazione del profitto è
lo scopo della produzione sotto il capitalismo. Un buon nome alternativo del
“capitalismo” è “il sistema del profitto”. Perché è proprio così. È un sistema
il cui obiettivo economico è l’accumulazione di sempre maggior capitale tramite
i profitti. È un sistema per fare profitto in cui il profitto è sempre venuto
prima dei bisogni della gente. Se il profitto non viene realizzato, l’attività
economica rallenta, si ferma o declina. Una delle leggi economiche basilari del
capitalismo è: “niente profitto, niente produzione”. Questo ha varie
conseguenze. Una ovvia è che la produzione è imperniata solo su quello che la
gente può acquistare e non su quello di cui ha bisogno. I ricchi soddisfano i
loro capricci mentre i poveri devono tirare avanti magari senza il
riscaldamento domestico. Si costruiscono appartamenti di lusso e intanto molti
vivono in alloggi del tutto inadatti. In effetti, mentre dal punto di vista
tecnologico ci potrebbe essere l’abbondanza per tutti, il sistema del profitto
implica che la produzione s’arresta assai prima di questo punto. La lotta per
il profitto è una lotta concorrenziale in cui ogni affarista cerca di
massimizzare i suoi profitti. In questa “battaglia della concorrenza” l’arma
principale è la riduzione dei costi ottenuta istallando macchinari nuovi e
applicando metodi più produttivi. Ma anche questo ha conseguenze. Crea un’accelerazione
e lo stress sul lavoro. E l’inquinamento,
l’incuria e la distruzione dell’ambiente. Tutti questi problemi: carenza degli
alloggi, stress, inquinamento e molti
altri, sono interconnessi. Non sono problemi isolati che possano essere
affrontati uno alla volta. Hanno tutti la stessa radice nel sistema capitalista
di produzione per il profitto e sono conseguenze inevitabili, effetti
inevitabili, di questo sistema.
Rivoluzione
e non riforme
Questo è il motivo per cui il
capitalismo non può esser riformato in modo da funzionare nell’interesse della
maggioranza, mettendo “la gente prima del profitto”. Ogni governo che ha
provato a farlo ha provocato un rallentamento economico, a volte anche una
crisi, e presto o tardi ha dovuto rinunciare e accettare, o perfino applicare,
la legge economica di “prima il profitto”. Ci sono stati governi nel passato,
per esempio i primi due governi laburisti in Gran Bretagna, di cui si può dire
che abbiano sinceramente e autenticamente provato a mettere la gente prima dei
profitti. Ma hanno fallito tutti alla fine. E non necessariamente perché non
fossero sinceri o perché fossero venduti o non abbastanza risoluti, ma perché
si erano posti un compito impossibile: far funzionare il capitalismo in modo
diverso da quello di un sistema orientato al profitto in cui ovviamente la
realizzazione dei profitti deve avere la massima priorità. Il partito laburista
ha imparato la lezione e da parecchio tempo ha rinunciato a comportarsi in
maniera diversa dai conservatori nel gestire il “sistema-paese” del capitalismo
britannico. Ma alcuni della sua ala sinistra, o a sinistra del partito
laburista stesso, non lo hanno capito e ancora pensano di poter imporre altre
priorità al capitalismo, diverse dall’accumulazione del profitto, e di
trasformarlo in qualcosa di differente. Il nuovo partito britannico “Left
Unity”, formato a novembre dell’anno scorso, ne è il caso tipico, dal momento che
include vari gruppi trotzkisti che partecipano alla campagna elettorale con
piattaforme rivendicative del tipo “tassiamo i ricchi per permetterci scuole,
case e trasporti migliori e così via”. Se ciò fosse davvero tentato, a causa
della riduzione dei profitti, condurrebbe probabilmente a una crisi economica.
È sorprendente quanto sia diffusa l’opinione che i governi possano cambiare il
modo in cui il capitalismo funziona quando, all’opposto, ovviamente non ne sono
in grado. Questo è il motivo per cui i socialisti dovrebbero concentrare le
loro energie per porre fine al capitalismo e non per rattopparlo, per
eliminarlo e non per gestirlo. In altre parole, “Rivoluzione e non riforme”. Questa
è la nostra politica ed è ciò che rivendichiamo.
Che
tipo di rivoluzione?
Ma che tipo di rivoluzione ci serve?
Tornando a William Morris abbiamo visto che
“non può significare un mutamento fatto meccanicamente, a dispetto
dell’opinione pubblica, da un gruppo di uomini che sono riusciti in qualche
modo a prendere momentaneamente il potere esecutivo.” Parlando nel 1884
Morris pensava probabilmente al rivoluzionario francese Louis Auguste Blanqui e
ai suoi seguaci che preparavano continuamente piani insurrezionali per occupare
i palazzi del potere a Parigi. Non ci riuscirono mai e Blanqui passò gran parte
della sua vita in prigione. Le sue idee però vennero ereditate da Lenin e dai
bolscevichi e furono propagandate dai loro seguaci per tutto il XX secolo. E lo
sono ancora da parte dei gruppi trotzkisti. È vero che non sono rozzi come
Blanqui e capiscono di aver bisogno di un certo livello di sostegno popolare
prima mettere in scena l’insurrezione. Ma questo sostegno, secondo loro, non
deve esser conquistato con la parola d’ordine di rimpiazzare il capitalismo con
il socialismo, ma semplicemente con il fatto che la gente è scontenta per una
qualsiasi ragione. Il risultato finale è lo stesso: un gruppo di persone, una
minoranza, si trova a detenere il “potere esecutivo”, ma senza il sostegno di
una maggioranza chiaramente a favore del socialismo. Quello che si può fare in
queste circostanze è limitato, esattamente come nel caso dei laburisti e degli
altri riformisti che hanno ottenuto il controllo del potere esecutivo su una
base non-socialista (nello specifico, mediante voti non-socialisti). Anche la
minoranza rivoluzionaria non ha alternative se non gestire il capitalismo in un
modo o nell’altro. Alla fine Lenin se ne rese conto e ebbe l’onestà di
ammetterlo e di dire che l’unica via di sviluppo per la Russia era il
capitalismo di stato, che fu ciò che si realizzò realmente, benché sia Stalin
che Trotzky si rifiutarono di riconoscerlo. Stalin lo chiamò “socialismo”,
mentre Trotzky lo considerò come una sorta di “stato operaio” fino al giorno
della sua morte, che avvenne quando fu assassinato proprio da un agente del suo
ipotetico “stato operaio”.
Rivoluzione
democratica della maggioranza
Così per rivoluzione noi non intendiamo
il tipo di rivoluzione sostenuta dai leninisti con una minoranza cosciente che
guida le masse dei lavoratori esasperati, ma non-socialisti, e di altri strati
popolari. Quello che intendiamo è piuttosto una rivoluzione della maggioranza
in cui la maggioranza vuole e comprende il socialismo e partecipa a
realizzarlo. Per noi questa rivoluzione deve essere democratica in entrambi i
sensi del termine. Deve avere il sostegno della maggioranza e deve esser
realizzata con metodi democratici. In nazioni capitaliste progredite come la
Gran Bretagna e la gran parte dell’Europa una maggioranza socialista può
conquistare il controllo del “potere esecutivo” mediante le elezioni. Questa è
la nostra opinione che è spiegata in dettaglio nell’opuscolo “Cosa c’è di male nell’usare il Parlamento?”.
Ovviamente instaurare il socialismo non è solo una questione di votare per un
candidato socialista e di aspettare che la maggioranza dei parlamentari
socialisti decreti il socialismo in aula (in modo simile a come fa oggi la
gente che vota per un partito che promette qualche riforma del capitalismo). La
gente deve essersi già organizzata fuori dal parlamento in un partito
socialista democratico di massa, in sindacati e altre organizzazioni sul posto
di lavoro, in comitati di quartiere e strutture simili. I parlamentari
socialisti sarebbero così solo i delegati, i portavoce, della maggioranza
socialista organizzata fuori dal parlamento. In questo modo abbiamo in mente
una rivoluzione politica democratica maggioritaria che inizia con la conquista
del potere politico nelle urne elettorali da parte di una maggioranza convinta
del socialismo. La maggioranza poi userebbe questo controllo del potere
politico per espropriare la classe capitalista dichiarando nulli e decaduti
tutti i certificati di proprietà, le cedole azionarie, i fondi, le
obbligazioni, i buoni del tesoro, le società a responsabilità limitata e quelle
per azioni. Questo significa che i mezzi di produzione diverrebbero beni di
tutti. La maggioranza socialista potrebbe anche coordinare la conquista fisica
dei mezzi di produzione da parte della gente fuori dal parlamento, organizzata
e pronta a farlo e a mantenere attiva la produzione. Compiuto questo, la
produzione potrebbe esser orientata verso i bisogni delle persone piuttosto che
verso la vendita sul mercato in vista di un profitto, come è attualmente sotto
il capitalismo. Beni e servizi potrebbero esser resi disponibili gratuitamente
secondo il principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i
suoi bisogni”. Allora questa rivoluzione sociale sarebbe stata completata e il
socialismo sarebbe stato instaurato.
ADAM BUICK
tratto da “Socialist Standard” pp. 10-12 , n. 1316, vol. 110, Aprile 2014.
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