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martedì 3 aprile 2018

Capitalismo di Stato sovietico?


Storia di un’idea

Capitalismo di Stato sovietico?

di W. Jerome e A. Buick
(con postilla di R. Mondolfo)


La differenza fra il sistema sovietico e il sistema sociale dell’Europa occidentale e del Nord America sembra così marcata da giustificare una etichetta distintiva; e l’etichetta che è stata adottata per un sistema di proprietà statale dei principali mezzi di produzione è «socialismo». L’ampio accordo, tuttavia, non nasconde divergenze radicali di svariate gradazioni d’opinioni, che rifiutano di applicare la denominazione «socialismo» al sistema sovietico. Ma fra gli stessi dissenzienti non c’è accordo riguardo alla definizione che dovrebbe applicarsi. Il fine di questo saggio è considerare la storia di quella definizione che descrive l’Unione Sovietica come una società capitalista di Stato. Questa teoria è stata sostenuta da tre diversi gruppi ben distinti ideologicamente: 1) i marxisti ortodossi; 2) i «comunisti dei consigli»; 3) i leninisti dissidenti.

I Marxisti ortodossi

Riuscirà probabilmente una sorpresa per la maggior parte dei lettori apprendere che è la scuola di lingua inglese del marxismo tradizionale, derivante dalla Federazione socialdemocratica di Hyndman, e rappresentata dal piccolo Partito Socialista di Gran Bretagna (SPGB) e dagli ancor minori partiti fratelli dei paesi di lingua inglese (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda, Stati Uniti) quella che ha, senza esitazione, affermato che la rivoluzione bolscevica ha portato ad una società capitalista di Stato. Il SPGB si oppose alla guerra del 1914-18, e perciò approvò decisamente l’azione anti-imperialista dei bolscevichi russi, pur condannando la tattica leninista (che riteneva opportunista) sollecitante i lavoratori inglesi a sostenere il Partito laburista. Il SPGB riteneva che il partito bolscevico fosse formato da socialisti intenzionati ad introdurre un sistema di proprietà sociale. Tuttavia il SPGB predisse che questo tentativo sarebbe fallito per la mancanza di un requisito fondamentale per il socialismo, cioè l’esistenza di un’industria moderna e di un proletariato con mentalità socialista. Lenin stesso ammetteva che la proprietà sociale era fuori questione in Russia finché il capitalismo non avesse portato ad un alto sviluppo della produzione sociale. Egli si riferiva all’attività del settore nazionalizzato dell’economia (che era solo un piccolo settore a quel tempo) come ad una forma di capitalismo di Stato. Il SPGB citò Lenin su questo punto, ma ciò non bastava a definire il sistema sociale della Russia sovietica come capitalismo di Stato. La maggior parte della società russa, come Lenin ammetteva, consisteva in un classico sistema di rapporti capitalistici, ben noto in occidente, che coesisteva con una produzione contadina semifeudale e perfino con attività prefeudali di pastorizia e caccia. Poiché il SPGB credeva che lo sviluppo del capitalismo fosse una premessa necessaria al socialismo, esso non condannò Lenin e i bolscevichi. Tuttavia insistette nell’affermare che la Unione Sovietica non era una società socialista, e, inoltre, nel sostenere che il «dominio di una minoranza — sia pure minoranza marxista — non è socialismo». Fu solo nel periodo 1929-30 che cominciò ad applicare il termine capitalismo di Stato alla URSS, quando Stalin collettivizzò l’agricoltura e organizzò una produzione pianificata di merci sotto il controllo dello Stato. In Germania, diversamente dalla Gran Bretagna, i socialisti marxisti avevano un largo seguito e favorevoli prospettive per giungere a posizioni di governo. Dal 1918 il SPD era dunque partito di governo, e l’atteggiamento del suoi dirigenti di fronte al governo bolscevico era determinato più da considerazioni politiche immediate che da una analisi teorica. Perfino Karl Kautsky, la guida ideologica della socialdemocrazia tedesca (sebbene membro dell’opposizione formata dal Partito Socialista Indipendente nel 1918), non tentò alcuna particolare analisi economica della società sovietica. Tuttavia in vari suoi scritti di critica ai bolscevichi si riferì all’Unione Sovietica come a una società di capitalismo di Stato. In Terrorismo e comunismo egli dice: «il capitalismo industriale, lungi dall’essere un sistema privato, è diventato ora un capitalismo di Stato» «Oggi (…) ambedue, stato e burocrazia capitalista, sono fusi in un unico sistema». Tuttavia questo concetto non venne elaborato più a lungo; evidentemente Kautsky considerava la Russia matura solo per l’abolizione dei rapporti feudali della terra, ma non per l’abolizione del capitalismo. Entrambi, Kautsky ed i bolscevichi, credevano che la proprietà statale dei mezzi di produzione e un sistema di retribuzione mediante salario fossero compatibili col socialismo. Essi concordavano altresì nel ritenere che sebbene una società senza salariati e senza Stato possa essere possibile nel futuro, gli sforzi immediati dovessero essere diretti a fini meno ambiziosi. Kautsky e i bolscevichi non erano invece d’accordo sui mezzi adatti ad ottenere questo obiettivo minore. Molte critiche kautskiane al regime instaurato dai bolscevichi erano fondate sul fatto che la loro azione repressiva negava la democrazia politica, e senza democrazia politica la classe lavoratrice non poteva controllare la macchina economica a cui era soggetta, per cui era lasciata nella stessa posizione in cui si trovava in qualsiasi paese capitalista. Di fatto, i lavoratori russi erano in una situazione peggiore di quella del lavoratori di quei paesi dove prevaleva qualche forma di democrazia politica. Più tardi Kautsky parlò di Lenin «che usava il potere statale per la creazione del suo capitalismo di Stato». Egli spiegava che la Russia potrebbe diventare socialista «solo quando il popolo espropri gli espropriatori». «Un cambiamento nelle relazioni formali di proprietà non basta per stabilire il socialismo, perché occorre anche il controllo democratico dello Stato da parte del lavoratori. Mancando questo, i lavoratori si trovano, rispetto al problema del controllo del mezzi di produzione, nella stessa situazione che ha di fronte a sé il lavoratore nei paesi capitalisti». Per Kautsky il controllo democratico del mezzi di produzione attraverso il potere politico era la differenza essenziale fra socialismo e capitalismo di Stato. In scritti ulteriori erano usati da lui altri termini, ma la sua critica rimase sostanzialmente la stessa. Un altro eminente teorico, l’austriaco Otto Bauer, in linea con la tradizione critica marxista nei confronti della rivoluzione bolscevica, affermava che la mancanza di forti e vitali istituzioni democratiche in Russia, così come la sua arretratezza economica, impedivano il raggiungimento del socialismo. Ma a differenza di Kautsky, Bauer prevedeva una graduale maturazione e democratizzazione del regime sovietico. Egli riteneva che il programma di industrializzazione dei bolscevichi avrebbe condotto a una «razionalizzazione economica». Questa a sua volta avrebbe portato alla conseguenza che Bauer credeva derivante dallo sviluppo economico: la democrazia politica. Così egli si aspettava che il regime sovietico divenisse più democratico: «dal dittatoriale capitalismo di Stato sorgerà un ordinamento socialista della società». In certo senso il capitalismo di Stato russo stava costruendo il socialismo. Bauer credeva che la transizione dal capitalismo di Stato al socialismo non avrebbe richiesto una rivoluzione politica, e quindi si opponeva al veemente incitamento di Kautsky per una nuova rivoluzione russa contro i bolscevichi. Al pari di Kautsky, Bauer non usò sempre gli stessi termini nell’analisi dell’URSS come forma di capitalismo. Occasionalmente egli usò il termine «socialismo dispotico». I socialdemocratici tedeschi ed austriaci si opponevano ai bolscevichi a causa delle caratteristiche dittatoriali del loro potere. Quando definivano il regime sovietico «quale capitalismo di Stato», era più per motivi politici che economici. A differenza del SPGB e degli altri partiti socialisti, i socialdemocratici tedeschi non pensavano che il sistema della retribuzione mediante salario, la moneta e lo Stato fossero incompatibili col socialismo. Per i socialdemocratici tedeschi, socialismo significava il controllo democratico delle forze produttive di una società altamente industrializzata. Inoltre la rivalutazione del significato del sistema socio-economico sovietico negli anni ‘30 accentuava la distinzione fra il capitalismo tradizionale e la società sovietica. Nel 1940 l’eminente teorico socialdemocratico Rudolf Hilferding pubblicò una critica della teoria del capitalismo di Stato dell’URSS, nel periodico di lingua russa di New York, Socialist Courier. Hilferding indicava come segno distintivo del capitalismo un’economia di mercato, nella quale i prezzi sono il risultato di un minimo di concorrenza fra i diversi proprietari dei mezzi di produzione. Questa concorrenza «in ultima analisi dà origine alla legge del valore», e determina che cosa e quanto è prodotto. «Un’economia di Stato, tuttavia, elimina precisamente l’autonomia della legge economica... Non è più il prezzo, ma una commissione statale pianificatrice che determina la produzione». Hilferding definiva l’Unione Sovietica come una nuova organizzazione economica né capitalista, né socialista, come una economia di Stato totalitario. L’economia nazista tedesca e quella fascista italiana eran specie meno sviluppate di questo genere.

domenica 7 gennaio 2018

Elezioni politiche 2018



La Sinistra riformista:
cosa può ottenere e cosa non farà mai


(adattato da un articolo di Adam Buick intitolato “Corbyn: what he can achieve and what he could not have” apparso sul “Socialist Standard”, n. 1355 del luglio 2017)

Introduzione

Nel 2017 alcuni politici progressisti europei, come per esempio Jeremy Corbyn in Gran Bretagna, Jean-Luc Mélenchon in Francia e Sahra Wagenknecht  in Germania, hanno dimostrato almeno una cosa: presentarsi alle elezioni politiche con un programma che promette di tassare le multinazionali e i super-ricchi per finanziare la sanità, l’edilizia popolare e l’istruzione non sempre causa quell’emorragia di voti che tanti politologi-“guru” spesso prevedono. Molti, inclusi vari parlamentari della stessa Sinistra, pensano che scendere in campo oggi con un programma del genere sia un suicidio politico. Alla fine, tornando all’esempio britannico, il programma è stato proprio uno dei fattori che ha permesso al Partito Laburista di aumentare il numero dei suoi parlamentari di 30 unità e il voto popolare del 40%. Naturalmente né Corbyn, né Mélenchon, né la Wagenknecht hanno vinto, ma all’inizio si pensava che sarebbero stati letteralmente polverizzati.
Le elezioni politiche del 2017 in Europa sono state nuovamente una competizione per decidere quale gruppo di politici dovesse guidare l’azienda-paese, ma questa volta per lo meno non è stata, come a volte accade, solo una gara tra due o tre squadre tutte pronte a giurare che il loro partito sarebbe stato il migliore a gestire il capitalismo così com’era. In effetti quest’anno è avvenuta una certa competizione tra molti raggruppamenti che ancora proponevano questo programma e pochi altri (per esempio i Laburisti britannici, La France Insoumise, die Linke) che sostenevano, al contrario, che avrebbero fatto importanti modifiche al capitalismo. Che un numero crescente di persone si esprima contro lo stato attuale delle cose è comunque sempre meglio che votare, senza entusiasmo o cinicamente, come se si dovesse scegliere tra due marche di un detersivo più o meno identico. Se la gente non fosse scontenta dello status quo e non sperasse in qualcosa di migliore allora le prospettive del socialismo sarebbero davvero nulle.

Tuttavia

C’è una bella differenza tra essere in grado di conquistare voti con un programma moderatamente di Sinistra volto a riformare il capitalismo ed esser capaci poi di metterlo in pratica. Se, per esempio, il Partito Laburista di Corbyn avesse avuto ancora più successo e fosse riuscito a vincere effettivamente le elezioni, allora, alla luce di quanto dimostrato dalle esperienze passate dei governi di Sinistra, avrebbe fallito a far funzionare il capitalismo “nell’interesse dei molti e non dei pochi”. E questo non perché i suoi ministri avrebbero dato prova di esser incapaci o venduti, ma perché il capitalismo è un sistema sociale basato, in modo rigoroso, sull’esclusione della maggioranza dalla proprietà e dal controllo dei mezzi di produzione della ricchezza. Questi appartengono a una minoranza che però usa la maggioranza per farli funzionare. Sotto il capitalismo (in quanto sistema economico) la ricchezza è prodotta per esser venduta sul mercato in vista di un profitto la cui origine sta nel lavoro non pagato “dei molti” di cui si appropriano “i pochi”. Promettere di far funzionare il sistema economico nell’interesse della maggioranza e non di una minoranza, implicitamente assume che tale minoranza continui a esistere. Così la Sinistra europea sta dicendo che sotto un ipotetico governo di Corbyn, di Mélenchon o della Wagenknecht, “i pochi” rimarrebbero ai loro posti di privilegio, ma un po’ del loro denaro verrebbe preso e usato a beneficio de “i molti”. Il problema è che l’origine delle entrate de “i pochi” sta nel profitto, e proprio la ricerca del profitto è ciò che guida il sistema capitalista. Minacciando i profitti il sistema economico entrerebbe in stallo. Un governo di Sinistra che tassasse i profitti semplicemente per migliorare la vita de “i molti” si scontrerebbe con la legge economica fondamentale del capitalismo: “niente profitti, niente produzione”.

Ci siamo già passati

Lo scenario tipico, confermato dalla Storia, di un governo di Sinistra è questo: viene eletto e inizia ad applicare il suo programma; scoppia una crisi economica; il governo reagisce facendo retromarcia sulle sue riforme e accettando, in modo più o meno riluttante, che i profitti abbiano il primo posto e poi agendo di conseguenza. Perde popolarità e nell’elezione successiva, o viene sostituito, o viene rieletto con un programma molto diverso: non più riforme radicali, ma soltanto “il male minore”.
Questo è il motivo per cui non possiamo essere entusiasti di Corbyn, di Mélenchon o della Wagenknecht. Per quanto ragionevoli e umani possano essere da vari punti di vista (e nonostante le ampie campagne contro di loro, sono risultati essere certamente più ragionevoli e umani degli altri politici), i loro programmi non sono realizzabili.  Il capitalismo, semplicemente, non può esser fatto funzionare in modo diverso da quello di un sistema che anteponga il profitto alla gente. È il modo in cui opera e in cui deve operare.

Illusione

Ciò vuol dire che la politica e le elezioni politiche sono in realtà basate su un’illusione: chi controlla il governo può controllare il modo in cui funziona l’economia, mentre è esattamente l’opposto: i governi devono adattare le loro politiche al modo in cui opera il capitalismo. Così, alla fine, non importa quale gruppo di politici sia stato eletto per formare un governo. Chiunque siano, qualunque cosa abbiano promesso, dovranno sempre governare nei termini fissati dal capitalismo. In altre parole, se la gente vota per migliorare la propria sorte sotto il capitalismo, sarà frustrata dall’azione delle forze economiche stesse del capitalismo. Non è un sistema che possa accettare la volontà democratica della gente, espressa per esempio in un’elezione, di migliorare le proprie condizioni. I votanti propongono, ma il capitalismo dispone. Questa è la base del detto: “cambiare il governo non cambia nulla”.
L’aspirazione a migliorare le cose è molto positiva, ma non può esser soddisfatta nell’ambito del capitalismo. Ciò che serve a realizzare le speranze di chi ha votato a Sinistra non è la tassazione de “i pochi” a vantaggio de “i molti”. È l’abolizione della divisione sociale in “molti” e “pochi”, convertendo i mezzi di produzione della ricchezza dal possesso (e dal vantaggio) de “i pochi”, alla proprietà comune di tutti per il vantaggio di tutti. Ciò costituirebbe il quadro in cui riorientare la produzione: dal raggiungimento del profitto al soddisfacimento dei bisogni della gente. Non lo slogan riformista: “Il popolo prima dei profitti”, ma quello rivoluzionario: “Il popolo, non i profitti”!

DC

domenica 7 maggio 2017

Imperialismo: dove Lenin sbagliò

Abbiamo tradotto questo recente articolo pubblicato sul Socialist Standard n. 1353 di Maggio 2017, non solo perché ne condividiamo a pieno il contenuto, ma anche perché riteniamo che sia un elemento di analisi importante per ridare credito al socialismo marxista. Considerare personaggi del passato, come del presente del resto, infallibili o allo stesso modo dei completi falliti non è mai realistico. Il Movimento Socialista Mondiale ha spesso pubblicato materiale anti-leninista, ma questo non va letto come un voler screditare l’uomo politico, il rivoluzionario o il socialista a prescindere da tutto. E’ importante però analizzare la sua opera e le sue azioni con gli strumenti forniteci dal materialismo storico. Secondo il nostro punto di vista Lenin, già dalla sua presa di posizione del 1902 nel impostare il partito socialdemocratico russo in termini gerarchici avanguardisti, è uscito dal seminato. Il suo atteggiamento denigratorio nei confronti di chi lo criticava, premiato dal suo indiscusso successo politico grazie a quello che fu davvero il suo più grande risultato, ovvero ottenere il potere politico con il colpo di stato di Ottobre, ha determinato una visione ampiamente deformata di cosa è il Socialismo e di come si può raggiungere. Questo breve articolo a seguire rimette in prospettiva l’analisi di Lenin sull’imperialismo e la questione coloniale. Questione coloniale che è anche oggi lungi dall’esser chiusa, se consideriamo, per esempio, gli strascichi nel nord Africa e nel medio oriente. E’ storia dell’altro ieri di movimenti di sinistra internazionalisti sfaldatisi sulla questione della lotte di liberazione dal colonialismo, ci riferiamo per esempio alla sinistra comunista italiana e francese all’inizio degli anni ottanta.                     


Imperialismo: dove Lenin sbagliò

Il mese scorso sono passati cento anni dalla pubblicazione dell’opuscolo di Lenin ‘Imperialismo, la fase superiore del capitalismo’. Riguardiamo qui i suoi difetti.  
Nella sua introduzione Lenin scrisse che l’opuscolo era basato sui punti di vista espressi nel libro ‘Imperialismo’ (1902) dallo scrittore inglese, non marxista, JA Hobson e quelli del socialdemocratico austriaco Rudolf Hilferding nel ‘Capitale Finanziario’ (1910). Hilferding, si basava soprattutto sull’esperienza tedesca, descrivendo come le banche, attraverso quello che oggi chiameremmo investimento bancario, erano arrivate a fondersi con il capitale industriale, raccogliendo capitale per gli industriali e non solo facendoli pagare per questo servizio ma trattenendo una quota per se stesse. Hobson, il quale era un sottoconsumista, sosteneva che ciò che aveva portato all’imperialismo, inteso come investimento e espansione territoriale all’estero, era il sovrappiù di capitale che non riusciva a trovare uno sbocco proficuo nel paese d’origine.        
Lenin combinò queste due visioni venendone fuori con una definizione di imperialismo come ‘lo stadio monopolistico del capitalismo’ dove ‘il capitale finanziario’ e allo stesso tempo ‘il capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche’ si era ‘fuso con il capitale delle unioni monopolistiche industriali’. Accettando la teoria del sovrappiù di capitale di Hobson, Lenin disse che il ‘capitalismo monopolistico’ aveva condotto alla formazione di ‘associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo tra di loro’ e la ‘ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche’.   
Questa era una descrizione passabile di alcuni aspetti del capitalismo a quei tempi, specialmente in Germania, e Lenin aveva ragione nel vedere la prima guerra mondiale come una guerra di ripartizione del mondo tra le più grandi potenze capitaliste. D’altro canto però la sua approvazione della teoria del sovrappiù di capitale di Hobson come una spiegazione per ‘esportazione di capitale’, ovvero, investimenti all’estero, lasciava dei dubbi. Una più lineare spiegazione dell’investimento di capitali all’estero sarebbe che era più proficuo investirli lì che a casa propria.       
Lenin errava anche nel vedere la fusione in stile tedesco di banche e capitale industriale come ‘la fase superiore del capitalismo’. Era un’opinione comune tra i partiti socialdemocratici a quel tempo che la competizione capitalista avrebbe condotto ai monopoli e che quello che ai socialisti toccava fare era prendere possesso di questi monopoli trasformandoli in proprietà comune e riorientare la produzione per soddisfare i bisogni della gente piuttosto che per il profitto. Karl Kautsky aveva ipotizzato che il processo di monopolizzazione poteva portare a un singolo consorzio monopolistico mondiale e a un accordo di non aggressione tra le potenze imperialiste, che egli chiamò ultra-imperialismo. Lenin aveva ragione nel dire che questo era impossibile in quanto le potenze non avrebbero mai trovato un accordo su una suddivisione permanete del mondo ma avrebbero cercato di cambiarlo a seconda di come cambiavano le loro forze. Ma Lenin non vide che questo concernesse i ‘monopoli’ nei suoi paesi ‘imperialisti’. La classe capitalista non era un blocco monolitico ma composta da sezioni diverse con interessi diversi e nessuna voleva essere tenuta in sacco da qualche monopolio. Da cui l’intervento ‘antimonopolistico’ negli Stati Uniti e la nazionalizzazione, e anche la minaccia di nazionalizzazione in Gran Bretagna.    
Fedele al suo stile polemico, Lenin attribuiva un movente a Kautsky, accusandolo di difendere un pacifico capitalismo mondiale anche se Kautsky aveva solo immaginato ‘l’ultra-imperialismo’ come una possibilità teorica. Lenin postulò un collegamento tra ‘l’opportunismo’ del quale accusava Kautsky e ‘l’imperialismo’, argomentando che il riformismo dei partiti Socialdemocratico e Laburista d’Europa era dovuto alle potenze ‘imperialiste’ che usavano una parte dei loro ‘alti profitti monopolistici’ per corrompere ‘certe sezioni di lavoratori’ nel sostenere il riformismo e lo stato nel quale questi vivevano. Dopo il colpo di stato bolscevico questo argomento fu sviluppato in una teoria bell’e fatta che lo strato più alto dei lavoratori in paesi con colonie era stato corrotto per sostenere il capitalismo per dei super-profitti derivanti dall’esplorazione coloniale e che l’indipendenza dei territori coloniali avrebbe ridimensionato questo fenomeno, con il risultato che, deprivati della loro quota di super-profitto, i lavoratori avrebbero abbandonato il riformismo e sarebbero diventati rivoluzionari.  
Questo fu un errore per un numero di ragioni. In primo luogo, va contro la teoria marxiana dei salari che sostiene che i salari sono il prezzo di quello che i lavoratori vendono e che salari più alti riflettono più alte capacità e preparazione tecnica, non qualsivoglia condizione di plusvalore come implicava Lenin (ovvero che parte dei soldi che alcuni lavoratori ricevono dai loro padroni sia una quota di plusvalore, estratto dai lavoratori delle colonie*). In secondo luogo, questo portò a sostenere la creazione di nuovi stati capitalisti per il beneficio della classe capitalista locale. In terzo luogo, presuppone che i lavoratori diventino meno riformisti se il loro livello di vita è diminuito.      
Lenin stesso menzionò un’obiezione, che attribuiva all’anti-militarista menscevico Martov, che la situazione per i socialisti sarebbe alquanto disperata ‘se fossero proprio i lavoratori meglio pagati ad essere inclini all’opportunismo’, per esempio gli ingegneri qualificati. La replica di Lenin era, tipicamente, di accusare anche Martov di difendere l’opportunismo e il riformismo.
Se i bolscevichi non avessero conservato il potere in Russia questo lavoro sarebbe rimasto un opuscolo sconosciuto e datato. Tuttavia, data la posizione di Lenin e la sua successiva semi-deificazione, fu gonfiato in un’opera seria di ricerca e teoria. Il risultato fu che le sue idee errate – specialmente in merito a dei lavoratori che condividono lo sfruttamento coloniale e che i socialisti dovrebbero sostenere l’emergere delle classi capitaliste ‘anti-imperialiste’ – divennero più ampiamente accettate di quanto sarebbero state altrimenti.      
ADAM BUICK (traduzione di Cesco)

* comunicazione personale dell’autore al traduttore

sabato 25 aprile 2015

Dove ci guidano i leader

Traduciamo questo interessante articolo dei compagni del “Socialist Party of Great Britain” rivolto criticamente a uno dei vari gruppi britannici della cosiddetta “estrema sinistra”, poiché le considerazioni dell’autore si applicano in maniera abbastanza puntuale anche a quello che accade nel nostro paese per ciò che concerne la galassia dei partitini leninisti, trozkisti, stalinisti e maoisti: da “Lotta Comunista” al “Partito Comunista dei Lavoratori”, da “FalceMartello” fino al “Partito Comunista - Sinistra Popolare” e al “Bolscevico”. Con in più l’aggravante che in certi casi al discutibile metodo di Lenin se ne è sostituito da noi uno ancora peggiore: il cosiddetto “centralismo dialettico”, dove non vi sono più né congressi né votazioni, ma tutto avviene per pura cooptazione da parte della dirigenza. Direttamente la prassi di una setta esoterica o religiosa...
 
Piuttosto noto nel Regno Unito per le sue imprese, per i suoi banchetti in strada e per il suo attivismo studentesco, il Socialist Worker Party (SWP, https://www.swp.org.uk/) britannico soffrì un paio di anni fa di un notevole arretramento che condusse a un vero e proprio esodo dei suoi militanti. Uno di questi era Ian Birchall, biografo del fondatore del gruppo Tony Cliff e già componente della dirigenza del partito. Era stato membro dell’SWP e del suo gruppo predecessore, l’International Socialism (IS), per oltre cinquant’anni. Lo scorso dicembre ha pubblicato nel suo blog alcune riflessioni [1] su cosa è andato storto nel partito.
Quando venne formato negli anni ’50 come gruppo trotzkista che riconosceva la natura capitalista della cosiddetta URSS (cosa che noi ben sapevamo da parecchio tempo...) l’IS era organizzato allo stesso modo di molti altri gruppi di sinistra del Regno Unito: i suoi membri erano tutti affiliati al Partito Laburista e si definivano “laburisti di sinistra”. Poi negli anni ’60 le cose iniziarono a cambiare: uscirono dal Partito Laburista e nel 1968 Cliff decise che era il momento di riorganizzare il gruppo secondo linee guida leniniste più rigorose. Era stato lo sciopero generale in Francia di qualche mese prima a spingerlo in questa direzione. Tipicamente, da buon trotzkista, Cliff attribuiva l’impossibilità di arrivare alla rivoluzione socialista all’assenza di un partito rivoluzionario che guidasse i lavoratori in sciopero (non che la rivoluzione socialista fosse il reale obiettivo dello sciopero, tuttavia esso era effettivamente un successo da un punto di vista sindacale). Concluse quindi che ciò che i “rivoluzionari” dovevano fare alla luce di questo evento era di organizzarsi apertamente secondo le linee guida del partito bolscevico di Lenin, che, per lui e per la leggenda trotzkista, aveva condotto a una rivoluzione socialista vittoriosa (benché questa fosse successivamente degenerata in un brutale capitalismo di stato...).
Lenin aveva esposto le sue idee su come doveva essere organizzato un partito rivoluzionario nel noto opuscolo del 1903 intitolato “Che fare?”, dove proponeva un partito di rivoluzionari professionisti a tempo pieno che dovevano cercare di guidare i lavoratori e i contadini formulando parole d’ordine populiste che riflettessero il livello di comprensione che “le masse” erano considerate in grado di raggiungere. Ciò poteva avere un senso come strategia per rovesciare un regime retrogrado e autocratico quale lo zarismo. Come accadde, il regime zarista collassò per conto suo sotto la pressione della Prima Guerra Mondiale, ma la forma organizzativa di Lenin contribuì non poco alla presa del potere politico da parte dei bolscevichi dopo il crollo dello zarismo. Tale successo spinse Lenin a proclamare che quello bolscevico era l’unico modo in cui i rivoluzionari si dovevano organizzare, anche nei paesi capitalisti sviluppati là dove esisteva una stabile democrazia politica.
Così nel 1968 i membri dell’IS cambiarono nome sui loro documenti ufficiali da “lavoratori laburisti” a “lavoratori socialisti” e, più importante, abbandonarono la loro precedente struttura organizzativa dove la linea politica era decisa da una congresso di delegati di sezione che votavano mozioni proposte dalle sezioni e dove i membri del comitato esecutivo erano eletti individualmente. Tutto questo fu messo da parte e venne introdotto il sistema della “lista bloccata” che aveva usato il partito bolscevico e che era stato ereditato dal PCUS in Russia (sì, anche in questo il leninismo condusse allo stalinismo...). Con tale sistema la dirigenza (l’“ufficio politico”,il  “comitato centrale” o come vogliamo chiamarla) viene eletta in blocco al congresso di partito. I delegati non votano per i singoli candidati, ma per la lista (o “blocco”) che contiene tanti nomi quanti sono i posti vacanti. In teoria ci potrebbero essere più liste, ma in pratica non ce ne sono (e non ce ne sono mai state). Nell’SWP (come nell’URSS) ce n’era una sola, quella proposta dalla dirigenza uscente. Piuttosto che proporre una lista rivale, gli oppositori della dirigenza preferivano abbandonare il partito e formare un altro gruppo organizzato nello stesso modo (questo spiega la proliferazione di gruppi trotzkisti...). Si può vedere facilmente come sia una ricetta per la nascita di una dirigenza che si auto-replica. Cosa che infatti è puntualmente accaduta, come nota Birchall:
“Gli eventi recenti hanno mostrato i limiti del sistema della ‘lista bloccata’. È diventata un metodo con cui il Comitato Centrale può riproporsi per la rielezione all’infinito, cooptando singole persone designate quando serve.”
Ma anche nell’SWP vi è un’altra conseguenza:
“Inoltre è emersa pure l’idea della carriera: compagni, in generale ex-studenti, diventano funzionari a tempo pieno e, se hanno successo, entrano nell’apparato e divengono membri del Comitato Centrale. Così abbiamo un Comitato Centrale quasi interamente composto da persone che hanno speso la gran parte della loro carriera politica come funzionari a tempo pieno e hanno quindi una limitatissima esperienza lavorativa e sindacale.”Il sistema delle liste bloccate era applicato persino per eleggere i delegati di sezione al congresso di partito:
“Negli anni ’80, quando esistevano direttivi di sezione vigorosi, tali direttivi stabilivano le liste dei delegati al congresso di partito. Se ovviamente in teoria era possibile per i membri proporre liste alternative, questo era malvisto e, in pratica, era alquanto raro far porre all’ordine del giorno del congresso di sezione il punto in cui si raccoglievano le candidature per divenire delegati al congresso di partito. In pratica andava bene quello che faceva il direttivo: era ciò che accadeva normalmente.” Così l’SWP finì per essere un’organizzazione verticista gestita da un gruppetto di dirigenti che si auto-replicava.
Forse sorprende che Birchall non concluda che questo fosse il risultato inevitabile del sistema delle “liste bloccate”, un punto chiave nel concetto di partito leninista di avanguardia. Egli pensa ancora a un partito di rivoluzionari di professione organizzato in modo leninista. Non ce l’ha con la teoria, ma con come è stata applicata nell’SWP: burocraticamente invece che democraticamente. Però per lui “democrazia” non significa una procedura decisionale, ma soltanto un mezzo per informare la dirigenza in modo tale che possa formulare la politica migliore da perseguire e le parole d’ordine più adeguate da proporre ai lavoratori affinché le seguano:
“...una dirigenza rivoluzionaria necessita di sapere cosa accade nella classe lavoratrice. Non lo può fare leggendo il ‘Financial Times’; deve ascoltare i compagni radicati nella varie sezioni della classe che possono riportare quello che succede nella base. Come diceva Cliff: ‘...devono imparare dai loro compagni lavoratori quanto più possibile e persino in misura maggiore di quanto devono insegnare loro. Ripetendomi: il compito è dirigere e per dirigere dovete comprendere in pieno quelli che state dirigendo’.” Questa non è democrazia in nessun senso compiuto. Si sta ancora dicendo che la classe dei salariati e degli stipendiati è incapace di liberarsi da sé e che quindi necessita di un’avanguardia che si è autonominata. Si rifiuta ancora l’idea che il socialismo, in quanto società completamente democratica, possa esser stabilito solo democraticamente, sia nel senso di esser quello che vuole la maggioranza, sia nel senso di utilizzare metodi democratici. Per arrivare al socialismo la classe dei salariati e degli stipendiati necessita certamente di organizzarsi per conquistare il potere politico, per esempio in un partito politico, ma in un partito democratico, e non di seguire un partito di avanguardia o altri possibili capi.
Però c’è una cosa che Birchall sembra aver capito dopo più di cinquant’anni vissuti da trozkista-leninista:
“La cosa importante in questo momento è la battaglia delle idee, come disse William Morris: ‘il nostro compito particolare sarebbe quello di creare dei Socialisti’.” È una citazione dallo “Statement of Principles of the Hammersmith Socialist Society” stilato nel 1890. Ed è ciò che andiamo dicendo noi del “Socialist Party of Great Britain” da più di cento anni.

ADAM BUICK

tratto da “Socialist Standard”  pp. 16 e 17 , n. 1326, vol. 111, febbraio 2015. Tradotto in italiano il 12 aprile 2015.

NOTE
[1] http://grimanddim.org/political-writings/2014-so-sad/


K. Marx o V. I. Lenin? Il primo nel 1864 scrisse che “l'emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi”, mentre il secondo nel 1903, con l’opuscolo “Che fare?”, inventò il partito bolscevico di avanguardia: costituito da sedicenti “rivoluzionari di professione” (in genere studenti o intellettuali stipendiati con le quote dei lavoratori) sarà il germe di tutta la futura nomenklatura sovietica, rapace, repressiva e autoritaria. Il marxismo-leninismo non esiste: è una contraddizione in termini!

sabato 27 settembre 2014

Il capitale nel XXI secolo

Recensione del saggio “Capital in the Twenty-First Century” di Thomas Piketty (Harvard University Press, 700 pagine, 2014)

Il capitalismo è basato sul possesso e il controllo dei mezzi di produzione della ricchezza da parte di una minoranza. Ciò può prendere varie forme, ma, storicamente, la più usuale (che potremmo chiamare la forma classica) si è realizzata mediante titoli di proprietà privata conferiti a singoli individui e fatti osservare dai tribunali e, in generale, dallo stato. Un’altra forma è consistita nel controllo dello stato da parte della minoranza, laddove il possesso della gran parte dei mezzi di produzione era riservata allo stato, come nella vecchia URSS.
 
Dove il possesso avviene attraverso diritti di proprietà privata, il possesso da parte della minoranza può esser esplicitato a partire dal grado di concentrazione di tali titoli di proprietà. Ciò può essere ottenuto analizzando le tasse di successione, i testamenti e perfino i sondaggi domestici. I risultati di tutti i paesi mostrano una distribuzione molto diseguale della ricchezza tra la popolazione. Il possesso dei mezzi di produzione della ricchezza da parte della minoranza si riflette anche sulla diseguale distribuzione del reddito, dovuta all’enorme reddito da proprietà (e non da lavoro) dei maggiori possessori immobiliari.
 
In questo libro molto discusso, l’economista francese Thomas Piketty ha messo insieme i dati sulla distribuzione della ricchezza e del reddito nell’arco di due secoli, principalmente per la Francia, la Gran Bretagna e gli USA, ma anche per altri paesi europei e per alcuni in Asia e in America del Sud. L’autore avanza una legge economica: la distribuzione della ricchezza tende a divenire tanto più diseguale, ovvero il 10% più ricco della popolazione va a possedere in proporzione sempre di più, quanto maggiore è la differenza tra ciò che egli chiama il “tasso di remunerazione del capitale” (r) e il tasso di crescita (g).

Che cos’è il capitale (e il capitalismo)?

Benché Piketty esponga due “leggi fondamentali del capitalismo”, non definisce mai cosa intenda con questo termine. Però definisce cosa intende per “capitale”:
 
«In questo libro, il capitale è definito come la somma di tutti i cespiti (asset in inglese) non umani che possono essere posseduti e scambiati su qualche mercato. Il capitale comprende tutte le forme di proprietà immobiliare (inclusa quella residenziale) come pure il capitale finanziario e quello professionale (impianti, infrastrutture, macchinari, brevetti e così via) usati dalle imprese e dalle agenzie governative.» (pag. 46).
 
Questa non è né la definizione dell’economia convenzionale, né quella dell’economia marxiana, poiché include sia la terra che le case occupate dai rispettivi proprietari. Così il suo “tasso di remunerazione del capitale” non coincide con il tasso di profitto, che è il rapporto tra il profitto ottenuto e la ricchezza investita nella produzione in vista di questo profitto. Lo stesso Piketty lo riconosce:
 
«… il tasso di remunerazione del capitale misura la resa del capitale per ogni singolo anno, senza considerarne la forma legale (profitti, rendite, dividendi, interessi, royalty, guadagni da capitale ecc.), espressa come percentuale del valore del capitale investito. È quindi un concetto più vasto del “tasso di profitto” e molto più vasto del “tasso d’interesse”, benché li includa entrambi.» (pag. 52).
 
È in realtà minore del tasso di profitto il quale di norma è ben più alto del 4-6% che Piketty calcola come l’intervallo tipico del suo tasso di remunerazione.
    
C’è un’altra particolarità del suo “tasso di remunerazione del capitale”: in alcuni dei suoi grafici egli lo applica anche ai periodi precapitalistici, cosicché questa grandezza finisce per indicare ogni remunerazione, in qualsiasi forma, che i detentori di proprietà ottengono in virtù del possesso di tali proprietà, comprese le corvè dei signori feudali o le attività servili dei padroni di schiavi nella Grecia e nella Roma antiche, e non solo i redditi finanziari derivanti dalla ricchezza commerciabile come avviene nel capitalismo.
 
Questo significa che l’affermazione che egli fa a un certo punto, ovvero che r > g sia la «contraddizione strutturale fondamentale del capitalismo» (pag. 572) non può esser sostenuta. Non è neppure una contraddizione, ma sarebbe piuttosto un tipo di misura dello sfruttamento dei produttori in tutte le società basate sulla proprietà privata, sia che tale proprietà o il reddito a essa connessi siano commerciabili o meno.
    
Piketty non fornisce una spiegazione su come e perché ci dovrebbe essere una “remunerazione” del capitale, ma semplicemente considera la sua esistenza come ovvia. Non c’è la comprensione che questa remunerazione emerge solo in società fondate sulla proprietà privata e che equivale a una tassa estorta ai produttori (nel capitalismo, ai lavoratori salariati e stipendiati) da parte di coloro che monopolizzano i mezzi di produzione.
    
La stessa cosa accade con il termine “crescita”, che egli definisce come l’aumento annuo del reddito nazionale più l’aumento della popolazione. Semplicemente accetta che ciò avvenga dato che la produttività e la popolazione aumentano. Non c’è la comprensione che ciò che guida il sistema capitalistico è l’imperativo economico, imposto dalla concorrenza tra gli individui e le aziende che investono nella produzione, di massimizzare i loro profitti e di accumularli come capitale sempre crescente. Ciò nonostante la sua critica al capitalismo, per come lo intende, è assai graffiante.

Gradi di disuguaglianza

Il 10° capitolo che tratta della “Disuguaglianza del Possesso di Capitale” contiene alcune tabelle che mostrano come in Francia il 10% più ricco possieda attualmente poco meno del 60% di tutta la ricchezza e l’1% più ricco quasi il 25% di essa. Le cifre per la Gran Bretagna sono 70% e  29%; per gli USA 70% e 32% e per la Svezia (che si dice sia il paese più egualitario al mondo) 59% e 20%.
 
Le tabelle mostrano anche, in forma di grafici, l’evoluzione della disuguaglianza del possesso della ricchezza nel corso di duecento anni, dal 1810 al 2010. Il grado più alto di disuguaglianza si raggiunse nel 1910 quando il 10% più ricco in Francia possedeva l’89% e l’1% più ricco possedeva il 60%; in Gran Bretagna erano il 90% e il 60%. A quei tempi negli USA c’era meno diseguaglianza che in Europa, con l’80% e il 45%.
 
Le tabelle confermano l’idea socialista che la base della società attuale sia il possesso dei mezzi di produzione della ricchezza da parte di una minoranza. Ma mostrano anche che il grado di disuguaglianza è a volte diminuito e a volte aumentato durante questo periodo di duecento anni. Questo fatto necessita di spiegazioni. Piketty ne fornisce due.
 
La prima è una tendenza secolare a lungo termine, che l’autore chiama “emergenza della classe media patrimoniale”, mediante cui egli reputa che la quota della ricchezza totale posseduta dal 40% mediamente ricco (ossia da coloro che sono situati a metà tra il 10% più ricco e il 50% più povero) sia cresciuta a partire dal 1910. Questa categoria statistica è andata ad acquisire abbastanza ricchezza da possedere, nel complesso, tra un quarto e un terzo della ricchezza totale. Ciò ha prodotto il risultato statistico di ridurre la quota relativa del 10% più ricco, ma non è stato a loro discapito, non ha influenzato e non ha ridotto la quantità di ricchezza del gruppo più abbiente, la cui ricchezza ha continuato a crescere in termini assoluti.
 
Si dovrebbe notare (ma Piketty non lo fa) che una larga parte della ricchezza di questo 40% intermedio ha la forma delle abitazioni in cui essi vivono e che hanno pagato, ma che non sono capitale nel senso di un cespite che effettivamente produca un reddito. Questo significa che le cifre delle tabelle sottostimano il grado di concentrazione dell’insieme dei cespiti che effettivamente producono un reddito da proprietà.
 
Piketty nota che questo spostamento non ha influenzato la frazione della «metà più povera della popolazione, la cui quota di ricchezza totale è sempre stata minuscola (in genere intorno al 5%), perfino in Svezia (dove non ha mai superato il 10%).» (pag. 347).

L’eccezione e non la regola

La seconda spiegazione che Piketty offre sul perché la quota del 10% più ricco sia scesa nel periodo 1920-1970 sviluppa la sua teoria che maggiore è la distanza tra r e g e più forte è la tendenza verso una elevata disuguaglianza. La sua spiegazione è che in questo periodo il tasso di remunerazione è stato ridotto dalla distruzione di ricchezza avvenuta durante le due guerre mondiali e dalla svalutazione, mediante inflazione, del capitale investito in buoni del tesoro governativi. Contemporaneamente il tasso di crescita crebbe per via dei lavori di ricostruzione. Il risultato fu una riduzione della disuguaglianza aldilà di quella causata dall’aumento della quota del 40% mediamente ricco.
 
Questa spiegazione rende questo periodo, quando la porzione di reddito da capitale nel reddito nazionale e la quota del 10% più abbiente nella ricchezza nazionale diminuirono entrambe (in altre parole, quando i più ricchi furono leggermente “spremuti” ma non tanto da arrecar loro danno), un’eccezione al normale funzionamento del capitalismo.
 
La tendenza normale o “naturale”, come la chiama lui, è, per Piketty, che i ricchi diventino in proporzione più ricchi. In effetti egli sostiene che il tasso di disuguaglianza tenderà ad aumentare nel corso del 21° secolo sulla base del fatto che la crescita economica sarà probabilmente più lenta, mentre il tasso di remunerazione presumibilmente rimarrà costante, cosicché il divario tra i due si amplierà. L’autore vede questo come un pericolo per la democrazia e per le garanzie dei lavoratori (che lui chiama “stato sociale”). Come un riformista socialdemocratico di vecchio stampo (Piketty è infatti un sostenitore del cosiddetto “Partito Socialista Francese”) vuole fermare e invertire questa tendenza e probabilmente ha scritto questo libro per costruire un sostegno alle misure finalizzate a ottenere questo obiettivo.
 
Il guaio, dal suo punto di vista, è che la sua teoria, se valida, fornisce un potente argomento contro le possibilità di riuscita di questa campagna riformista. Significa che i riformisti in questo campo si sono dati il compito non solo di ridurre la disuguaglianza nel possesso della ricchezza, ma anche di vincere le forze economiche che spingono nella direzione opposta.
 
Che il capitalismo fondato sulla proprietà privata legale abbia la tendenza a far sì che i ricchi diventino sempre più ricchi in termini assoluti, è una conseguenza dell’accumulazione del capitale (nel senso che la ricchezza è usata per produrre altra ricchezza in vista del profitto). Dove ci sono diritti di proprietà privata sui mezzi di produzione, il reddito che questi mezzi “producono” quando sono usati come capitale va ai possessori e la parte che è reinvestita (accumulata) si aggiunge alla loro ricchezza, ossia questi possessori diventano più ricchi. Questa è una tendenza che i riformisti troveranno a lottare contro di loro, a prescindere dal fatto che Piketty abbia o meno ragione circa l’esistenza di un’altra tendenza secondo cui i ricchi diventano più ricchi relativamente al resto della popolazione.
 
Le misure che l’autore propone nella Parte IV per impedire ai ricchi di divenire più ricchi sono incredibilmente deboli: tasse più alte sui redditi elevati (sui “superstipendi” dei “superdirigenti” e anche sui redditi da investimento dei ricchi) e una tassa patrimoniale. Riconosce che probabilmente nessun paese adotterà queste misure per paura, nel contesto di un capitalismo globalizzato, di venir tagliato fuori dagli investimenti e così propone una “tassa patrimoniale globale”. Che è ancora più improbabile.
 
Ad ogni modo, non è una distribuzione meno diseguale della ricchezza e dei redditi che aiuterà a risolvere i problemi che la classe dei salariati e degli stipendiati (e di quelli a loro carico) affronta sotto il capitalismo. Si tratterà piuttosto di espropriare la minoranza che monopolizza i mezzi di produzione e di far sì che questi vengano gestiti in comune affinché possano essere usati per ottenere quello di cui la gente ha bisogno e non merci in vendita in vista di un profitto per i possessori di tali mezzi di produzione, come avviene oggi.

ADAM BUICK
 
tratto da “Socialist Standard”  pp. 16-17 , n. 1321, vol. 110, Settembre 2014.


 

martedì 26 agosto 2014

Cosa c'è di male nell'usare il parlamento?

Il Movimento Socialista Mondiale (MSM) v’invita a leggere la traduzione italiana dell’opuscolo redatto dal Socialist Party of Great Britain (SPGB) e intitolato ”What’s wrong with using the Parliament?”. La questione dell’utilizzo del Parlamento è cruciale per il nostro movimento in quanto, non solo ci distingue dagli altri movimenti marxisti, ma è un nostro principio cardine che ha suscitato, suscita e susciterà implacabili discussioni. A causa, ma noi diremo grazie, a questo principio, diversi marxisti e anarchici, anche se vicini alle posizioni antileniniste del MSM, declinano la loro adesione al nostro movimento poiché sono dell’idea che il Parlamento resti sempre uno strumento di dominazione borghese non utilizzabile per la causa socialista. La traduzione che presentiamo qui si pone proprio lo scopo di controbattere questa, come anche altre critiche rivolteci.
In più la frazione Italiana del MSM coglie quest’occasione per approfondire alcuni punti non (o poco) trattati nell’opuscolo in inglese. Abbiamo a questo proposito condotto una piccola intervista ad Adam Buick, co-autore del lavoro originale, della quale riportiamo la traduzione. Si consiglia comunque la lettura della traduzione dell’intero opuscolo prima di quella dell’approfondimento che riportiamo qui sotto.


Approfondimento

Redazione: Cosa ne pensi di questi movimenti emergenti che usano internet per diffondere e praticare la democrazia diretta? Sono tutti, in un modo o nell’altro, riformisti. Ad ogni modo l’uso di internet può essere uno strumento efficace per l’organizzazione della futura società socialista. Pensi che questo tipo di democrazia diretta possa scavalcare l’attuale sistema politico basato sulle elezioni? 
 
Adam: Sono certo che alcune forme di democrazia diretta per via elettronica avranno il loro spazio nella struttura democratica della futura società socialista, ma non penso che la democrazia diretta sia il miglior modo di prendere le decisioni. Questi strumenti vanno bene per decisioni su questioni di principio che richiedono un sì o un no come risposta, ma molte questioni sono molto più complesse con vari tipi di alternative o soluzioni di compromesso. Ecco perché una democrazia per delega, dove c’è un Consiglio o un Comitato eletto che prende le decisioni, è più appropriata nei casi complessi che saranno, a parer mio, la maggior parte delle situazioni. Certo è che coloro i quali verranno eletti nei Consigli o nei Comitati dovranno rendere conto ai loro elettori e saranno soggetti ad ogni tipo di controllo e di verifica.
 
Redazione: Nel leggere quest’articolo un lettore potrebbe pensare che i movimenti leninisti, così come alcuni di quelli anarchici, agirebbero contro una rivoluzione socialista una volta che questa si presenti, essendo questi movimenti così occupati a farsi la guerra tra loro. È questo ciò che s’intendeva nell’articolo? Se sì, dovrebbe essere questa la motivazione principale per abbandonare tali movimenti e unirsi al nostro?   
 
Adam: Non sono sicuro che quando il movimento socialista prenderà forma come movimento di massa ci saranno molti leninisti o anarchici in giro. Penserei invece che molti di loro faranno parte di un movimento più grande, forse discutendo le loro posizioni assieme a tutti gli altri.
 
Redazione: È abbastanza chiaro dall’opuscolo che senza la maggioranza della gente che voti per l’autentico partito socialista attraverso mezzi democratici, il socialismo non potrà essere instaurato. Tuttavia il capitalismo è nazionalista e promuove le nazioni (come entità). Cosa succederebbe quindi se la maggioranza si raggiungesse solo in una o in poche nazioni? Come potrebbe prendere tempo il partito socialista senza cadere della trappola del riformismo? 
 
Adam: Questa domanda è stata fatta molte altre volte e una risposta si può trovare nel nostro vecchio opuscolo “la domanda del giorno”:

(http://www.worldsocialism.org/spgb/pamphlets/questions-day#soc_less_dev):

“Ai socialisti viene spesso chiesto di un altro aspetto dello sviluppo diseguale. Questo si rifà alla possibilità che un movimento socialista possa essere più sviluppato in un paese che in un altro e in grado di poter prendere il controllo del sistema di governo prima che lo siano analoghi movimenti socialisti in altre parti del mondo.
Tralasciando per il momento la questione se tale situazione sia realistica o meno, possiamo già dire che non presenta problemi quando è vista nella cornice del carattere mondiale del movimento socialista. Giacché i governi capitalisti sono organizzati su base territoriale, ogni organizzazione socialista ha il compito di guadagnare democraticamente il controllo nel paese dove opera. Questo però avviene meramente per convenienza organizzativa: c’è un solo movimento socialista, del quale le diverse organizzazioni socialiste sono parti integranti. Quando il movimento socialista crescerà ulteriormente, i suoi attivisti saranno completamente coordinati dall’organizzazione mondiale. Se si considera la situazione in cui i socialisti organizzati di una sola parte del mondo siano nella posizione di prendere il controllo del sistema di potere governativo, la decisione sulle azioni da compiere sarà presa unanimemente dal movimento socialista mondiale alla luce di tutte le circostanze del caso.

Rimane il caso se, in effetti, ci saranno differenze materiali nel ritmo di crescita delle varie sezioni del movimento socialista. Al momento, nei paesi capitalisti avanzati, la vasta maggioranza, poiché non è socialista, condivide alcune idee base su come la società può e dovrebbe essere governata. Tale massa accetta che i beni siano prodotti per la loro vendita al fine di accumulare profitto, che alcuni debbano lavorare per uno stipendio mentre altri debbano essere i padroni; che ci siano forze armate e confini; che non si possa fare a meno dei soldi e della compravendita. Queste idee sono condivise dalla gente in tutto il mondo e su questo si basa la stabilità del capitalismo nella nostra epoca.

Engels sottolineò che un periodo rivoluzionario esiste quando la gente comincia a rendersi conto che quello che pensava fosse impossibile, può in effetti essere realizzato. Quando la gente capirà che è possibile avere un mondo senza confini, senza salari e profitti, senza padroni e forze armate, allora la rivoluzione socialista non sarà molto lontana. Ma questo progresso nella conoscenza politica sarà raggiunto dalle stesse persone che ora pensano che il capitalismo sia l’unico sistema possibile. Poiché i lavoratori di tutto il mondo vivono in condizioni simili e, grazie anche ai moderni sistemi di comunicazione, quando questi incominceranno a vedere oltre il capitalismo, questo avverrà ovunque. Non c’è ragione alcuna di pensare che solo i lavoratori di un paese vedano questo, mentre quelli degli altri paesi no.
L’idea vera e propria di socialismo, ossia di una nuova società, è chiaramente e inequivocabilmente un rifiuto di tutti i nazionalismi. Quelli che diventeranno socialisti si renderanno conto di questo e anche dell’importanza di unirsi ai lavoratori di tutti i paesi. L’idea socialista è tale che non si può diffondere in modo non uniforme.
Quindi i partiti socialisti saranno nella posizione di prendere il controllo politico nei paesi industrialmente avanzati in intervalli di tempo piuttosto ravvicinati. È concepibile che in alcuni paesi meno sviluppati economicamente, dove la classe lavoratrice è meno numerosa, i pochi capitalisti privilegiati possano essere in grado di conservare la loro posizione di classe un po’ più a lungo. Ma non appena i lavoratori avranno vinto nei paesi avanzati, daranno tutto l’aiuto possibile ai loro compagni negli altri paesi.”

 

Per concludere, cogliamo l’occasione per ringraziare Adam Buick e per sottolineare l’importanza della divulgazione delle idee socialiste in tutte le lingue, che non deve conoscere confini o barriere di sorta.

Lavoratori, disoccupati, studenti e pensionati di tutto il mondo, unitevi! Un mondo diverso e migliore è possibile, incominciate a immaginarlo!

sabato 7 giugno 2014

Che cosa intendiamo per “rivoluzione”?

Qualsiasi cosa si possa pensare del conduttore radiofonico Russell Brand, almeno ha reintrodotto la parola ‘rivoluzione’ nel vocabolario politico. Ma che cos’è una ‘rivoluzione’?

Una buona definizione del termine “rivoluzione” è stata data dal socialista britannico del periodo vittoriano William Morris in una conferenza del 1884, pubblicata successivamente in forma di opuscolo con il titolo “Come viviamo e come potremmo vivere”. Morris scrive:
«La parola Rivoluzione, che noi Socialisti siamo così spesso obbligati a usare, ha un suono terribile agli orecchi di molta gente, anche se abbiamo spiegato loro che non necessariamente significa un cambiamento accompagnato da rivolte e da ogni sorta di violenze, e che non può significare un mutamento fatto meccanicamente, a dispetto dell’opinione pubblica, da un gruppo di uomini che sono riusciti in qualche modo a prendere momentaneamente il potere esecutivo. Anche se spieghiamo che usiamo la parola “rivoluzione” nel suo senso etimologico e che intendiamo con essa un cambio delle basi della società, la gente ha paura dell’idea di un cambio così vasto e implora che si parli di riforme piuttosto che di rivoluzione».
Una rivoluzione, allora, è “un cambio delle basi della società”, accompagnato o no dalla violenza (in effetti Morris pensava che ci sarebbe stata), un cambio che deve essere piuttosto rapido implicando una netta rottura con la società esistente. Il mutamento delle basi della società che i socialisti prospettano, è un mutamento di ciò che esiste oggi, dove la società è basata sulla proprietà e sul controllo dei mezzi di produzione della ricchezza (tramite cui la società stessa sopravvive) da parte di una esigua minoranza di individui abbienti, di società per azioni e di stati. Vogliamo passare da questa situazione a una dove i mezzi di produzione sono divenuti la comune eredità di tutti, per esser usati, sotto controllo democratico, per il beneficio di tutti. Un cambiamento da una società classista a una società senza classi. Un cambiamento dal capitalismo al socialismo.