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mercoledì 19 febbraio 2020

Antonio Labriola

Introduzione

Sono ormai passati 130 anni dall’ingresso di Antonio Labriola nella scena socialista italiana e mondiale. Nonostante non sia mai stato un nome di spicco nel firmamento marxista, Labriola ha avuto picchi di popolarità seppur in circuiti molto ristretti. Probabilmente nonostante sia stato considerato da diversi studiosi del marxismo uno dei suoi filosofi più rigorosi, il suo pensiero filosofico, appunto, è risultato poco accessibile ed è rimasto pressoché sconosciuto ai molti.

Ad ogni modo, mentre in vita aveva un certo ascendente su alcuni socialdemocratici tedeschi, era infatti in relazione epistolare tra gli altri con Bebel e Kautsky. Diviene perciò comprensibile come possa una giovane Angelica Balabanoff, ancora studentessa universitaria in Germania, decidere di trasferirsi in Italia dopo averne sentito parlare così bene da compagni di corso vicini alla Socialdemocrazia. La Balabanoff in una lettera al Mussolini “socialista” teneva molto a precisare la differenza che passava tra Antonio, il professore di filosofia e marxista ortodosso e Arturo, il sindacalista rivoluzionario, che Engels chiamava argutamente “Labriolino”. 

Quando all’età di 47 anni decide di scrivere a Engels, Labriola è già professore ordinario di filosofia e didattica all'Università di Roma, proveniente dalla scuola di Bertrando Spaventa filosofo neo-hegeliano di spicco. Labriola era stato aiutato a più riprese dai fratelli Spaventa nel trovare una degna occupazione, presso i circuiti governativi post-unitari. Prima di approdare al socialismo Labriola aveva già studiato a fondo, oltre Hegel, anche Feuerbach e la scuola di Herbart. Aveva vinto onorificenze nella trattazione degli antichi greci, di Spinoza e di Giambattista Vico. Nel 1871, ben 19 anni prima di diventare socialista, Labriola entra in politica come pubblicista. Scrive dapprima ne «Il Piccolo» e nella «Gazzetta di Napoli», giornali liberali, quindi nell’ «Unità Nazionale» e nella «Nazione» di Firenze. A quel tempo era vicino alla Destra storica, ma per il superamento della vecchia politica risorgimentale, fino a quando nel 1886 tentò di presentarsi come candidato, senza nessuna appartenenza partitica, su posizioni radical-progressiste contro il trasformismo di Depretis. Quindi, soprattutto dopo un viaggio in Germania allo scopo di studiarne il sistema educativo, si avvicina al socialismo scientifico. Inizia quindi un rapporto epistolare con Engels e Turati.

Come marxista, Labriola prese parte al dibattito scaturito dalla pubblicazione del III libro de “Il Capitale”, si occupò della critica di Böhm-Bawerk, ma, soprattutto, delle “sciocchezze” di Achille Loria e dei suoi ammiratori sulla Critica Sociale, tra i quali Turati stesso. La critica di Labriola si riferisce allo schema di riproduzione semplice, il quale evidenzia come la dimensione temporale (ossia il momento dell’acquisto è distinto da quello della vendita) del ciclo produttivo con la conseguente usura dei macchinari, spieghi la discrepanza tra valore contenuto e valore realizzato. Engels nella prefazione al III libro, si trova costretto a criticare la confusione di Loria tra massa del plusvalore e profitto e l’idea di quest’ultimo che il capitale commerciale possegga il “magico potere” di assorbire in sé tutto il plusvalore eccedente il saggio generale di profitto. Si torna quindi al punto esplicitato da Marx, anni prima in una lettera ad Engels, secondo cui Loria interpreta il capitalismo come una sorta di proprietà terriera intesa sotto forma di rendita fondiaria. Marx scrive: “ero divertito e soddisfatto dal suo [di Loria] modo di scusarsi apertamente dell’avere antiquato ‘Il Capitale’ con la sua proprietà fondiaria. Per tutto ciò, riserbo ancora seri dubbi sul carattere di questo giovane” [1]. Labriola, seppur con i suoi limiti in campo economico, enfatizza l’ignoranza di Loria nel non considerare il ciclo produttivo come un elemento dinamico temporale contenente l’usura dei macchinari.

L’apporto originale al marxismo di Labriola fu quello filosofico. Come descrive lui stesso a Engels “vissi per anni con l’animo diviso fra Hegel e Spinoza”. Sempre a Engels, Labriola confessa “Forse - anzi senza forse - io sono diventato comunista per effetto della mia educazione (rigorosamente) hegeliana, dopo essere passato attraverso la psicologia di Herbart, e la Volkerpsychologie di Steinthal e altro”.

Volgendomi al Socialismo, non ho chiesto a Marx l’abicì del sapere. Al marxismo non ho chiesto, se non ciò che esso effettivamente contiene: ossia quella determinata ‘critica dell’economia’ che esso è, quei ‘lineamenti del materialismo storico’ che reca in sé (...). Non chiesi al marxismo nemmeno la conoscenza di quella filosofia, che esso suppone, e, in un certo senso, continua, superandola per inversione dialettica; ed è l’Hegelismo che rifioriva (...). Per intendere il socialismo scientifico non mi occorreva, dunque, di avviarmi per la prima volta alla concezione dialettica, evolutiva o genetica, che dir si voglia, essendo io ho vissuto sempre in cotesto giro di idee, da che pensatamente penso”.

Labriola era un professore di filosofia e in quanto tale egli spiega che l’essenza del materialismo storico è “la filosofia della praxis [prassi o pratica], in quanto investe tutto l’uomo storico e sociale, come mette termine ad ogni forma d’idealismo.” Una filosofia che non è confinata alla comprensione del pensiero e della società che l’ha generato, ma, alla sua trasformazione, attraverso la presa di coscienza dei meccanismi di trasformazione del pensiero stesso.
Specifica ad Engels che in italiano sarebbe più opportuno parlare di metodo genetico invece di metodo dialettico, in quanto il termine dialettico “è denigrato nell’uso comune all’arte retorica ed avvocatesca” mentre il metodo vuole intendere “le cose che divengono” (ovvero la loro genesi).

Vede la storia come processo di creazione di un terreno artificiale che media il divenire delle cose tra cui il capitalismo e quindi il socialismo.

 Le idee non cascano dal cielo, e anzi, come ogni altro tipo di prodotto dell’attività umana, si formano in date circostanze (…). Anche le idee suppongono un terreno di condizioni sociali, ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una forma del lavoro.

Lo stato è (...) messo al suo posto (...) in quanto forma che è effetto di altre condizioni, e a sua volta, poiché esiste, reagisce naturalmente sul resto. (...). Codesta forma sarà mai superata? [Sì] ma come risultato dell’immanente processo della storia. (...). La premessa di tale previsione è nelle condizioni stesse della presente produzione capitalistica [che] concentra di giorno in giorno sempre più la proprietà dei mezzi di produzione nelle mani di pochi, (...) azionisti e negoziatori (...) la cui direzione passa all’intelligenza. Col crescere della coscienza di tale situazione nei [lavoratori] e col decrescere della capacità nei detentori del capitale a conservare la privata direzione del lavoro produttivo, si verrà a un punto in cui, di un modo o dell'altro, con la eliminazione di ogni forma di rendita, interesse e proprietà privata, la produzione passerà all'associazione collettiva, ossia sarà comunistica. (...). Il governo tecnico e pedagogico dell’intelligenza sarebbe l’unico ordine della società.”

Nell’opera In memoria del Manifesto, Labriola indica che la previsione storica del comunismo critico è una previsione morfologica, ovvero che rivela la forma delle cose, quali le classi sociali.

Qui sotto riportiamo un brevissimo articolo uscito sul Socialist Standard (Febbraio 2016) sul Labriola Socialista più che filosofo. In aggiunta abbiamo digitalizzato una sua lettera ad Engels in merito alla fondazione del Partito Socialista Italiano.



“Quando solo alcuni individui più o meno socialisti si rivolgono a ignoranti proletari che sono apolitici e in gran parte reazionari, è quasi inevitabile che quegli individui vengano considerati utopisti e demagoghi”.
  Antonio Labriola


[1] per approfondire il discorso dei difficili rapporti (sia umani che intellettuali) tra Marx ed Engels da un lato e Achille Loria dall’altro, si puo leggere l’utile artico di G. M. Bravo “Engels e Loria: relazioni e polemiche”, Studi Storici, Anno 11, No. 3 (Luglio - Settembre 1970), pp. 533-550.



giovedì 22 agosto 2019

Dobbiamo davvero mettere Marx in soffitta?

Il nostro movimento è per il socialismo rivoluzionario, marxista. Ma se venisse meno la fondatezza della critica economica di Marx al principio di funzionamento del capitalismo, verrebbe forse meno la fondatezza delle ragioni della nostra lotta? No, per almeno tre motivi. 

1.    La teoria del valore-lavoro non è completamente stravolta, ha ancora una funzione per la lotta di classe. L’idea che sia proprio il lavoro a valorizzare il prodotto, Marx la prende dai suoi predecessori Smith e Ricardo. Quello che Marx aggiunge alla teoria classica del valore è il concetto di “lavoro astratto”. “Astratto” in quanto ridotto ad unità, semplificato e semplificabile. È il tempo di lavoro che il capitalista acquista come qualsiasi altra merce, ed è interesse del capitalista estrarre da questo tempo la capacità di trasformare un insieme di elementi qualsiasi (materiali e/o immateriali) in un prodotto finito (e vendibile), sia quest’ultimo una merce fisica oppure un servizio. È quindi interesse del capitalista estrarre più capacità possibile da questa forza-lavoro (chiamata così in quanto vista come una merce specialissima). Di conseguenza il lavoro trasferito dall’uomo a una merce non si esaurisce nel consumo della merce stessa, ma si trasferisce quando tale merce è utilizzata, a sua volta, nella produzione di altri beni. Per esempio, il lavoro cristallizzato nel fabbricare un manico di legno (che naturalmente ingloba il lavoro di aver trasformato un albero in liste di legno) con una testa di metallo (che già contiene il lavoro di estrazione e di forgiatura del metallo) viene trasferito in parte nel prodotto derivante dall’uso di quello stesso martello (come tecnologia), senza il quale l’uomo avrebbe dovuto utilizzare le mani nude, incidendo negativamente sulla produttività di una sua ora di lavoro. Le merci quindi non escono dal nulla, il lavoro umano dà origine a tutte le merci, e questo non si può semplicemente ignorare (o nascondere sotto la generica etichetta di “costo di produzione”) come fa certa economia “borghese” accademica. In linea di principio ogni merce è composta da quote di lavoro astratto (che vanno indietro nel tempo, di mezzo di produzione in mezzo di produzione, fino all’origine del primo manufatto coinvolto, anche se molto indirettamente, nella produzione della merce in questione). In termini generali, i valori delle merci, ovvero la quantità di “capitale costante” (costi dei mezzi di produzione e delle materie prime) più il capitale variabile (costo della manodopera in salari) più il plusvalore (valore del tempo di lavoro non retribuito), non sono necessariamente  uguali ai loro prezzi di produzione. Questo non perché i prezzi siano determinati dalla domanda e dall’offerta, dato che, come argutamente già Marx osserva, domanda e offerta alterano il prezzo di produzione originale (dando vita al prezzo di mercato), ma non lo determinano. Ma perché i prezzi nel sistema reale, e non semplificato, sono difficilmente determinabili. Quindi Marx viene attaccato per aver iper-semplificato il problema e aver sostenuto che c’è proporzionalità, a livello di sistema, tra la somma del tempo speso a produrre le merci (e questo deve includere anche le quote di lavoro trasferito da merce a merce e la quota di lavoro non pagato al lavoratore, che costituisce il plusvalore) e la somma dei prezzi di produzione; e che, anche se le merci fossero vendute semplicemente al loro prezzo di produzione il capitalista ne trarrebbe comunque un profitto, in quanto il plusvalore sarebbe già contenuto nel valore della merce prodotta. Marx quindi diceva una cosa semplice: il profitto deriva dal lavoro non pagato al lavoratore! Ma questo è ancora vero? Sì, lo è! E lo sarà fin quando il capitalista spingerà i salari al ribasso, muoverà la produzione dove la forza lavoro costa meno e fin quando l’educazione della forza lavoro la valorizzerà, rendendola però più cara. Tutti questi segnali ci fanno intendere che il profitto è generato sulle spalle di chi lavora. Nonostante la teoria del valore-lavoro non sia da buttare, questa non può essere però accettata ciecamente. Vi sono diverse correnti di pensiero, sia all’interno che all’esterno del marxismo, che hanno criticato tale teoria. Spesso dovendo sacrificarne degli aspetti importanti. Dove la teoria del valore-lavoro di Marx soffre, e il problema della trasformazione ne è un esempio, è nel rapportare il valore di scambio di una merce al suo prezzo di produzione. Il valore del lavoro come definito nella teoria classica non é uguale al tempo di lavoro impegato per produrre una merce.

2.    L’apporto probabilmente più importante di Marx prima che si concentrasse su quella che in privato, scrivendo ad Engels, chiamò la “merda economica”, fu il concetto di “materialismo storico”. Questa visione del mondo e delle cose è fondamentale per la presa di coscienza della classe lavoratrice. Il materialismo storico consiste nel vedere la storia dei rapporti umani come, in ultima istanza, il frutto dei rapporti socio-economici. Ovvero il fatto che l’uomo si adatta, adattando. Per poter avere successo l’uomo si adatta al pianeta adattandolo però alle sue necessità; e lo adatta lavorando in società. La società ha sviluppato dei rapporti economici e questi influenzano i rapporti tra uomini. Con questa visione si può presto vedere che l’umanità sotto il capitalismo è divisa in classi: quelli che producono, i lavoratori, e quelli che dicono di produrre solo perché posseggono i mezzi di produzione, i padroni. I padroni sono pochi e detengono la maggior parte della ricchezza, i lavoratori sono la maggioranza e se perdono il lavoro (prima o poi, dipendentemente dal loro grado di opulenza) sono nei guai.

3.    Marxismo vuol dire anche lotta al riformismo. Marx ed Engels furono molto chiari in merito e stabilirono una corrente politica socialista rivoluzionaria. Il capitalismo, che pur ha fatto avanzare la civiltà umana, è fallace, crea disparità e sfruttamento, va per questo rivoluzionato. Ma non può essere cambiato mediante riforme in quanto queste preservano il sistema capitalista. Anche mettendo in discussione la teoria del valore-lavoro di Marx ciò non giustificherebbe l’abbandono della corrente rivoluzionaria propria di Marx ed Engels per la quale il WSM non è disposto a scendere a nessun compromesso. Il capitalismo non può essere riformato perché è la sua natura l’assoggettare una classe a scapito di un’altra. La divisione del lavoro, l’esistenza delle classi sociali, il denaro devono essere tutti aboliti e questo non è possibile semplicemente riformando il capitalismo.  

Per queste ragioni Marx non può essere messo in soffitta. Certo non si può pretendere che la sua analisi economica, da lui stesso riconosciuta come una semplificazione della realtà, possa avere una validità assoluta; ciò nonostante è ancora un ottimo esempio di come concepire il capitalismo, ovvero come un sistema che: ha una fine, è squilibrato, è soggetto a crisi cicliche, eleva il profitto in modo esponenziale e, facendo ciò, è a vantaggio di pochissimi e a discapito della maggioranza. 
Marx non può andare in soffitta almeno fino a quando esisterà una classe lavoratrice mondiale sfruttata. 

lunedì 9 agosto 2010

Ecco un buon motivo per non essere religiosi che va oltre il mero ateismo

Abbiamo solo una vita: questa qui. Non c’è nessuna vita dell’aldilà, che sia in paradiso, inferno, limbo o purgatorio, e non esiste nemmeno l’incarnazione. Questa vita è l’unica vita che abbiamo, e l’unico modo in cui noi esseri umani possiamo migliorarla è attraverso la nostra propria azione collettiva. Nessun Messia o altro Salvatore verrà e ci guiderà verso una vita migliore (non che vivere in una società dove un dio o qualche altro superessere sia dittatore sembri una vita migliore). Siamo per conto nostro.

La causa contro la religione non riguarda semplicemente il fatto che essa non è vera; che nessuno dei reclami delle varie religioni fa fronte alle prove della validità scientifica; che non vi è uno straccio di evidenza che un qualche dio o degli déi esistano o intervengano o siano intervenuti negli affari umani o nell’evoluzione dell’universo. Riguarda anche il fatto che essa insegna che abbiamo più di una vita e nega che siamo per conto nostro. Questo inevitabilmente riduce il valore sia della nostra vita attuale che di qualsiasi azione collettiva per migliorarla. La religione, ogni religione, è essenzialmente e profondamente antiumana.

Se si crede in una seconda vita e che lo scopo della nostra vita attuale sia quello di comportarsi in modo tale da assicurarsi che la propria vita futura sarà migliore di quella presente, allora ciò significa trattare l’unica vita che in realtà di fatto abbiamo come un mezzo, non come un fine di per sé, in questo modo svalutandola. La cosa peggiore, dal momento che le regole di comportamento per ottenere un miglior trattamento nella prossima vita sono dogmaticamente indicate in libri sacri presumibilmente scritti da qualche profeta, guru, maestro o padrone, è che ciò scoraggia un esame razionale e senza pregiudizi dell’azione collettiva che noi esseri umani necessitiamo di intraprendere per migliorare le condizioni della vita umana.

Qualcosa può essere fatto per rendere il mondo migliore? Sì, se mettiamo da parte tutti i dogmi antiumani circa il “peccato originale” e la “libera scelta mal usata” che si trovano nei testi sacri e nella teologia di tutte le religioni e guardiamo la situazione obiettivamente e razionalmente. Se facciamo ciò, possiamo vedere che la causa radice della sofferenza umana di massa è che la ricchezza oggi non è prodotta direttamente per soddisfare i bisogni umani ma per la vendita su qualche mercato con lo scopo di fare un profitto.

Le cose di cui abbiamo bisogno per vivere e godere la vita oggi sono prodotte solo se in esse vi è un profitto finanziario per le aziende private, gli affari statali e gli individui ricchi che possiedono e controllano le risorse produttive del mondo. È questo che causa le rivalità economiche e militari e la trascuratezza dei bisogni umani che vediamo dovunque intorno a noi. E ciò continuerà finché esisteranno la proprietà sezionale (privata o di stato-nazione) e la produzione per il profitto.

Perciò l’azione collettiva umana che è necessaria per migliorare la vita umana sulla Terra è l’azione democratica per rendere le risorse del mondo l’eredità comune di tutta l’umanità. È solo su questa base che noi esseri umani, senza messia, profeti, déi o qualsiasi altro tipo di superessere, possiamo dirigere liberamente la produzione verso la soddisfazione dei nostri bisogni e in questo modo assicurare che ogni uomo, donna e bambino su questo pianeta abbiano accesso adeguato al cibo, al vestiario, all’alloggio e a tutte le altre cose che sono necessarie per vivere una vita piacevole.

Questo è il vero programma umano: rendere la vita sulla Terra – e, quando saremo arrivati a ciò, sulla luna e sugli altri pianeti – migliore possibile. Dopo tutto, è l’unica vita che tutti gli esseri umani sono sicuri di avere.

(Traduzione da WSM Forum)