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domenica 16 ottobre 2022

Sulla presunta spirale salari-prezzi

Il fondamento dell'argomento spirale


In quasi tutte le interviste sui media degli ultimi mesi, il segretario generale del sindacato RMT Mick Lynch ha dovuto affrontare la domanda sulla temuta "spirale salari-prezzi". L'argomento, solitamente presentato come un fatto evidente, è che l’aumento dei salari dei lavoratori per tenere il passo con l'aumento dei prezzi non farà che aumentare i prezzi, prolungando l'agonia per i consumatori.

Lynch ha contrastato efficacemente l'argomento sottolineando che l'aumento dei prezzi si è verificato nonostante la stagnazione dei salari reali ed è avvenuto molto tempo prima delle sue azioni sindacali e di quelle di altri sindacati. Espone così l'assurdità di incolpare i lavoratori per l'aumento dei prezzi. I colpevoli che identifica sono società oscenamente redditizie che usano i paradisi fiscali per resistere alla ridistribuzione del reddito. Qui la sua argomentazione diventa un po' confusa, poiché non spiega esattamente come gli alti profitti facciano salire i prezzi. Ma Lynch sottolinea un punto importante sottolineando che un aumento della paga per i lavoratori potrebbe essere sottratto a quei profitti, piuttosto che risultare nel tentativo dei datori di lavoro di aumentare i prezzi. In questo modo indica il punto centrale che questo articolo cercherà di spiegare: salario e profitto sono in una relazione antagonista, dove i guadagni da una parte vanno a scapito dell'altra. Pertanto, un aumento dei salari – o (contrariamente al punto di vista “lynchiano”) del profitto – non si traduce necessariamente in un aumento dei prezzi delle merci.

I commentatori che belano di una spirale salari-prezzi, al contrario, danno per scontato che l'onere per le aziende di pagare salari più alti ai lavoratori dovrebbe essere compensato da prezzi più alti. L'argomento sembra non solo plausibile ma di buon senso, e le contro argomentazioni avanzate da Lynch e altri, nonostante sollevino punti importanti e siano retoricamente efficaci, non riescono a esporre le sue fondamenta traballanti.

domenica 6 settembre 2020

La trasformazione marxiana dei valori in prezzi e la sua “Nuova Interpretazione” (un’esposizione divulgativa)

Introduzione

La questione della trasformazione dei valori di scambio in prezzi di produzione nell’ambito del sistema economico marxiano è ormai lunga quasi centocinquant’anni e ha accompagnato le fortune e le sfortune del marxismo teorico in tutte le vicissitudini della storia del movimento operaio e socialista. Per tale motivo non possiamo neppure tentare di esporla cronologicamente in queste brevissime note, rimandando le persone interessate a una descrizione, seria ma divulgativa, del problema alla pagina italiana di Wikipedia:

https://it.wikipedia.org/wiki/Problema_della_trasformazione_dei_valori_in_prezzi_di_produzione.

In quel che segue proveremo invece a fornire le idee basilari del problema come formulato per la prima volta da Karl Marx nel III volume de “Il Capitale” [1] (sez. II e sez. III), come rivisto criticamente dalla scuola economica neoricardiana (sez. IV) e, in fine, come sistematizzato dai principali teorici della scuola marxista nota come “Nuova Interpretazione” (sez. V). Qualche breve conclusione (sez. VI) terminerà queste note proponendo spunti di approfondimento per chi fosse interessato all’importante tematica della trasformazione dei valori in prezzi da un punto di vista più completo e matematicamente rigoroso. L’unica precisazione che ci resta da fare è quella relativa al livello basilare di conoscenza dell’economia marxista richiesta al lettore: daremo per scontata una superficiale familiarità con i concetti espressi da Marx nel I volume de “Il Capitale” [2] quali: il valore d’uso e il valore di scambio, il lavoro astratto, la differenza tra lavoro e forza-lavoro, il capitale costante e quello variabile, il plusvalore e pochissimo altro, come ottimamente spiegato nel “Riassunto del Capitale” scritto da Friedrich Engels nel 1868, ma pubblicato solo nel 1929:

https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1867/capitale/e-riassunto.htm.

Continua a leggere: link al documento in formato PDF

giovedì 22 agosto 2019

Dobbiamo davvero mettere Marx in soffitta?

Il nostro movimento è per il socialismo rivoluzionario, marxista. Ma se venisse meno la fondatezza della critica economica di Marx al principio di funzionamento del capitalismo, verrebbe forse meno la fondatezza delle ragioni della nostra lotta? No, per almeno tre motivi. 

1.    La teoria del valore-lavoro non è completamente stravolta, ha ancora una funzione per la lotta di classe. L’idea che sia proprio il lavoro a valorizzare il prodotto, Marx la prende dai suoi predecessori Smith e Ricardo. Quello che Marx aggiunge alla teoria classica del valore è il concetto di “lavoro astratto”. “Astratto” in quanto ridotto ad unità, semplificato e semplificabile. È il tempo di lavoro che il capitalista acquista come qualsiasi altra merce, ed è interesse del capitalista estrarre da questo tempo la capacità di trasformare un insieme di elementi qualsiasi (materiali e/o immateriali) in un prodotto finito (e vendibile), sia quest’ultimo una merce fisica oppure un servizio. È quindi interesse del capitalista estrarre più capacità possibile da questa forza-lavoro (chiamata così in quanto vista come una merce specialissima). Di conseguenza il lavoro trasferito dall’uomo a una merce non si esaurisce nel consumo della merce stessa, ma si trasferisce quando tale merce è utilizzata, a sua volta, nella produzione di altri beni. Per esempio, il lavoro cristallizzato nel fabbricare un manico di legno (che naturalmente ingloba il lavoro di aver trasformato un albero in liste di legno) con una testa di metallo (che già contiene il lavoro di estrazione e di forgiatura del metallo) viene trasferito in parte nel prodotto derivante dall’uso di quello stesso martello (come tecnologia), senza il quale l’uomo avrebbe dovuto utilizzare le mani nude, incidendo negativamente sulla produttività di una sua ora di lavoro. Le merci quindi non escono dal nulla, il lavoro umano dà origine a tutte le merci, e questo non si può semplicemente ignorare (o nascondere sotto la generica etichetta di “costo di produzione”) come fa certa economia “borghese” accademica. In linea di principio ogni merce è composta da quote di lavoro astratto (che vanno indietro nel tempo, di mezzo di produzione in mezzo di produzione, fino all’origine del primo manufatto coinvolto, anche se molto indirettamente, nella produzione della merce in questione). In termini generali, i valori delle merci, ovvero la quantità di “capitale costante” (costi dei mezzi di produzione e delle materie prime) più il capitale variabile (costo della manodopera in salari) più il plusvalore (valore del tempo di lavoro non retribuito), non sono necessariamente  uguali ai loro prezzi di produzione. Questo non perché i prezzi siano determinati dalla domanda e dall’offerta, dato che, come argutamente già Marx osserva, domanda e offerta alterano il prezzo di produzione originale (dando vita al prezzo di mercato), ma non lo determinano. Ma perché i prezzi nel sistema reale, e non semplificato, sono difficilmente determinabili. Quindi Marx viene attaccato per aver iper-semplificato il problema e aver sostenuto che c’è proporzionalità, a livello di sistema, tra la somma del tempo speso a produrre le merci (e questo deve includere anche le quote di lavoro trasferito da merce a merce e la quota di lavoro non pagato al lavoratore, che costituisce il plusvalore) e la somma dei prezzi di produzione; e che, anche se le merci fossero vendute semplicemente al loro prezzo di produzione il capitalista ne trarrebbe comunque un profitto, in quanto il plusvalore sarebbe già contenuto nel valore della merce prodotta. Marx quindi diceva una cosa semplice: il profitto deriva dal lavoro non pagato al lavoratore! Ma questo è ancora vero? Sì, lo è! E lo sarà fin quando il capitalista spingerà i salari al ribasso, muoverà la produzione dove la forza lavoro costa meno e fin quando l’educazione della forza lavoro la valorizzerà, rendendola però più cara. Tutti questi segnali ci fanno intendere che il profitto è generato sulle spalle di chi lavora. Nonostante la teoria del valore-lavoro non sia da buttare, questa non può essere però accettata ciecamente. Vi sono diverse correnti di pensiero, sia all’interno che all’esterno del marxismo, che hanno criticato tale teoria. Spesso dovendo sacrificarne degli aspetti importanti. Dove la teoria del valore-lavoro di Marx soffre, e il problema della trasformazione ne è un esempio, è nel rapportare il valore di scambio di una merce al suo prezzo di produzione. Il valore del lavoro come definito nella teoria classica non é uguale al tempo di lavoro impegato per produrre una merce.

2.    L’apporto probabilmente più importante di Marx prima che si concentrasse su quella che in privato, scrivendo ad Engels, chiamò la “merda economica”, fu il concetto di “materialismo storico”. Questa visione del mondo e delle cose è fondamentale per la presa di coscienza della classe lavoratrice. Il materialismo storico consiste nel vedere la storia dei rapporti umani come, in ultima istanza, il frutto dei rapporti socio-economici. Ovvero il fatto che l’uomo si adatta, adattando. Per poter avere successo l’uomo si adatta al pianeta adattandolo però alle sue necessità; e lo adatta lavorando in società. La società ha sviluppato dei rapporti economici e questi influenzano i rapporti tra uomini. Con questa visione si può presto vedere che l’umanità sotto il capitalismo è divisa in classi: quelli che producono, i lavoratori, e quelli che dicono di produrre solo perché posseggono i mezzi di produzione, i padroni. I padroni sono pochi e detengono la maggior parte della ricchezza, i lavoratori sono la maggioranza e se perdono il lavoro (prima o poi, dipendentemente dal loro grado di opulenza) sono nei guai.

3.    Marxismo vuol dire anche lotta al riformismo. Marx ed Engels furono molto chiari in merito e stabilirono una corrente politica socialista rivoluzionaria. Il capitalismo, che pur ha fatto avanzare la civiltà umana, è fallace, crea disparità e sfruttamento, va per questo rivoluzionato. Ma non può essere cambiato mediante riforme in quanto queste preservano il sistema capitalista. Anche mettendo in discussione la teoria del valore-lavoro di Marx ciò non giustificherebbe l’abbandono della corrente rivoluzionaria propria di Marx ed Engels per la quale il WSM non è disposto a scendere a nessun compromesso. Il capitalismo non può essere riformato perché è la sua natura l’assoggettare una classe a scapito di un’altra. La divisione del lavoro, l’esistenza delle classi sociali, il denaro devono essere tutti aboliti e questo non è possibile semplicemente riformando il capitalismo.  

Per queste ragioni Marx non può essere messo in soffitta. Certo non si può pretendere che la sua analisi economica, da lui stesso riconosciuta come una semplificazione della realtà, possa avere una validità assoluta; ciò nonostante è ancora un ottimo esempio di come concepire il capitalismo, ovvero come un sistema che: ha una fine, è squilibrato, è soggetto a crisi cicliche, eleva il profitto in modo esponenziale e, facendo ciò, è a vantaggio di pochissimi e a discapito della maggioranza. 
Marx non può andare in soffitta almeno fino a quando esisterà una classe lavoratrice mondiale sfruttata. 

venerdì 28 settembre 2018

Macchine abbastanza intelligenti per una società intelligente

L’intelligenza artificiale sembra ora più che mai una realtà concreta.
Le macchine sono in grado di imparare in un modo simile a quello degli umani e di adattarsi a nuove situazioni, risolvendo problemi con un certo grado di imprevedibilità.
Una certa risonanza l’aveva avuta la vittoria di Google’s AlphaGo, un sistema di intelligenza artificiale, su il miglior giocatore di Go (Ke Jie). A differenza dal gioco degli scacchi, Go non è solo questione di logica, ma ha un certo grado di istinto.
L’intelligenza artificiale si fonda su machine learning, una branca affascinante delle scienze informatiche, che di recente ha visto un progresso considerevole, che ha rivitalizzato il concetto stesso di intelligenza artificiale. Per la prima volta l’intelligenza artificiale sembra più realistica di un film di fantascienza. Machine learning concerne in un algoritmo (una serie di regole) in grado di capire da un insieme di dati qual è il possibile risultato e ripetere questo procedimento fin quando il risultato preciso viene raggiunto. Queste capacità di allenarsi sui dati e di iterare il processo sono gli elementi che permettono di imparare, il buon vecchio metodo che procede per tentativi ed errori, ma fatto ad una velocità inimmaginabile. Per esempio, date 10 immagini (per esempio, volti umani), l’algoritmo impara a riconoscerle usando un numero limitato di caratteristiche (feature) pre-selezionate da un operatore umano (per esempio, dimensione del volto, colore, forma, dimensione del naso, ecc). La macchina quindi condensa tutte queste caratteristiche al minimo necessario per riconoscere l’immagine. L’algoritmo non indovina le immagini al primo colpo, ma, siccome paragona il suo risultato (stima) alle immagini manualmente etichettate da un operatore umano, riesce ad aggiustare il tiro e a provare iterativamente fin quando raggiunge una corrispondenza perfetta. In più, quando una nuova immagine è disponibile la macchina ora è allenata a riconoscerla. Questo è quello che noi umani già impariamo a fare in tenera età.

La rete neuronale artificiale è una branca di machine learning. Grazie a questa l’algoritmo ambisce a funzionare come i neuroni del cervello. Per dei determinati dati in ingresso (input), come delle caratteristiche che definiscono un’immagine, si vedano i volti umani dell’esempio precedente, diversi strati nascosti condurranno al risultato in uscita (output) più plausibile. Questo è il tipico approccio a scatola chiusa, ovvero che nessuno sa cosa succede al suo interno.
La macchina è in grado di riconoscere immagini, suoni, o altre cose solo perché l’uomo con il suo lavoro di etichettatura gli ha detto esattamente cosa sono. Tutte gli input hanno bisogno di un’etichetta.
Nulla di speciale fin qui, al contrario molto lavoro umano.
La cosa incomincia a farsi interessante quando questi algoritmi diventano capaci di imparare senza supervisione umana (senza etichette). Questi sono algoritmi a strati multipli, anche conosciuti come deep learning (ad apprendimento avanzato). Per esempio si immagini di applicare un algoritmo che ha imparato a riconoscere tipi di cane a tipi di gatto, ma in quest’ultimo caso senza dare riferimenti (etichette) o caratteristiche che dicano all’algoritmo come distinguerli. L’algoritmo estrarrà le caratteristiche basandosi su quelle ereditate dai dati, e userà la ‘conoscenza’ acquisita nel riconoscere i tipi di cane. Deep learning è la prima, anche se rudimentale, concretizzazione di intelligenza artificiale. Il passo verso l’auto-apprendimento è un importante passo in avanti nella tecnologia. Alcuni si spingono a dire che questa sia la nuova rivoluzione industriale. Ciò nonostante, deep learning richiede un enorme quantità di dati (big data), computer ad alta capacità di computazione e ovviamente la possibilità di conservare tutti questi dati. Tutto ciò non cade dal cielo, ma richiede un’enorme quantità di lavoro umano.
I sevizi open-source (libero accesso), le piattaforme tipo Google e Android, le API (interfaccia) aperte hanno facilitato il progresso visto in deep learning rendendo possibile la generazione di tanti dati e in alcuni casi condividendo il lavoro e i suoi frutti. I dati diventano così preziosi che la privacy delle persone dalle quali questi provengono è spesso ignorata (si veda Facebook o casi simili), obbligando i governi a mettere dei paletti (si veda il recente General Data Production Regulations).

Per la prima volta, dei lavori ‘specializzati’ rischiano di essere sostituiti da macchine intelligenti. È un problema? Alcuni sindacati parlano di una tassa sui robot, per compensare per i lavori che questi toglieranno agli uomini. Altri mettono in discussione la teoria del lavoro-valore di Marx, se il lavoro umano non è più parte del processo produttivo. Però, la ragione vera e propria di un sistema non basato sullo sfruttamento del lavoro umano è avere macchine che facciamo la stragrande maggioranza del lavoro o se possibile tutto il lavoro per noi. Nella logica della teoria del lavoro-valore è chiaro che se gli uomini non fossero coinvolti nella produzione di beni e servizi, la composizione organica del capitale (capitale fisso/capitale variabile) verrebbe intaccata, rimanendo solo capitale fisso, influenzando anche il saggio di profitto (plusvalore/capitale fisso + capitale variabile), potenzialmente tendendo a zero. In altre parole, se gli uomini non lavorassero, non riceverebbero un salario, e non sarebbero in grado di comprare le merci prodotte. Grazie al fattore tempo e all’interconnessione dei settori produttivi, questo esaurimento di valore di scambio non accadrebbe tra la notte e il giorno. Infatti, fino a che ci saranno lavoratori con un salario adeguato, e capitalisti con profitti adeguati, a chiudere il ciclo produttivo con la vendita delle merci prodotte, il profitto delle industrie completamente automatizzate non sarebbe zero. Inoltre, il valore astratto cristallizzato nella produzione dei robot e della loro capacità di auto-apprendimento originariamente è stato generato da lavoro umano. Nonostante ciò più cicli produttivi verranno condotti in piena automazione, meno profitto sarà generato.

La domanda rimane: questo progresso sarà la fine naturale del capitalismo? No. Influenza di sicuro le crisi economiche e la povertà di massa come ha sempre fatto. Il capitalismo però non collasserà da solo, si adatterà. Non tutti i lavori saranno rimpiazzabili. I lavori più psicologici saranno ancora condotti dagli uomini. Il capitalismo continuerà con le sue contraddizioni e marcate disparità. L’automazione in una società capitalista significherà cambiamenti nei modelli di occupazione e disoccupazione, mentre in una società socialista, potrà liberare l’uomo dal lavoro manuale atto a produrre beni e servizi. Permetterà all’uomo di acquisire abilità e di migliorare la società. Ciò nonostante non ci siamo nemmeno avvicinati a quel grado di automazione.
CESCO
(dal Socialist Standard di Luglio, 2018)

domenica 7 febbraio 2016

La trasformazione dei valori nei prezzi in Marx e il problema delle crisi


Henryk Grossmann

La trasformazione dei valori nei prezzi in Marx e
il problema delle crisi
 

da Zeitschrift für Sozialforschung, 1 (1/2), 1932, pagg. 55-84.
Ringraziamenti a Rick Kuhn.
Transcrizione e versione html di Einde O’Callaghan per Marxists’ Internet Archive.



I. La realtà concreta come oggetto e obiettivo della conoscenza marxiana


Lo scopo di tutta la scienza sta nell’esplorazione e nella comprensione della totalità dei fenomeni concretamente dati, del loro collegamento e delle loro variazioni. La difficoltà di questo compito è sita nel fatto che i fenomeni non coincidono immediatamente con l'essenza delle cose. La ricerca dell’essenza costituisce quindi il prerequisito per la conoscenza del mondo fenomenico. Ma se Marx vuole conoscere, in opposizione all’economia volgare, “la natura nascosta” e “l’interdipendenza” della realtà economica (Marx, Il Capitale, III 2, pag. 352 [1]), questo non significa che i fenomeni concreti non gli interessino. Al contrario! Alla coscienza sono dati immediatamente solo i fenomeni, con il risultato (già pienamente metodologico) che si può giungere al loro “nocciolo” essenziale nascosto solo mediante un’analisi di tali fenomeni (cfr. Marx, Il Capitale, III 1, pagg. 17-22).

Ma i fenomeni concreti non sono importanti per Marx solo perché rappresentano il punto di partenza e il mezzo per la comprensione del “movimento reale”, ma anche perché questi stessi sono ciò che Marx in definitiva conoscerà e comprenderà nel loro contesto. Dunque egli non vuole in nessun modo, escludendo i fenomeni, limitarsi alla sola ricerca dell'essenza. Piuttosto, l’essenza conosciuta ha la funzione di renderci capaci di capire i fenomeni concreti. Quindi Marx si sforza proprio di trovare la “legge dei fenomeni” che domini “la legge dei loro cambiamenti” (Postfazione alla 2a edizione de “Il Capitale”). 

Incomprensibili e a prima vista assurdi sono, per Marx, solo i fenomeni per se stessi, sconnessi dalla “essenza nascosta” delle cose. Ma sarebbe un errore madornale della scienza economica se a questo punto la questione (cadendo nello sbaglio opposto a quello dell’economia volgare) restasse ferma all’analisi dell’“essenza nascosta” appena scoperta, senza trovare una via di ritorno ai fenomeni concreti, di cui comunque si discute la spiegazione, ossia senza ricostruire le molte mediazioni tra l’essenza e la forma fenomenica! Perciò anche Marx vede in questo cammino dall’astratto al concreto “il metodo scientifico ovviamente corretto”. Qui “le regole astratte conducono alla riproduzione del concreto secondo il modo di procedere del pensare” perché “il metodo di risalire dall’astratto al concreto è, solo lui, il modo del pensare per appropriarsi del concreto, per riprodurlo come un concreto dello spirito” (Introduzione alla Critica dell’Economia Politica, pag. XXXVI).

Marx fornisce qui un esempio pratico: non è sufficiente dire che nella produzione industriale il valore viene creato secondo la legge generale per cui “i valori delle merci sono determinati dal lavoro in esse contenuto”, poiché i processi empirici nella sfera della circolazione (p. e. l’influenza praticamente verificabile del capitale commerciale sui prezzi delle merci) mostrano “fenomeni che, senza un’analisi completa dei nessi intermedi, sembrano semplicemente presupporre una determinazione arbitraria dei prezzi”, cosicché nasce l’idea che “sia il processo di circolazione in quanto tale a determinare i prezzi delle merci, indipendentemente (entro certi limiti) dal processo produttivo”, ovvero dalle ore di lavoro necessarie alla produzione. Così provare il carattere illusorio di questa idea e stabilire la “connessione profonda” tra il fenomeno e “l’azione reale”, cosa “molto intricata e lavoro alquanto minuzioso”, “è un’opera della scienza che sa ricondurre il movimento visibile, ma solo apparente, al movimento reale interno” (Il Capitale, III 1, pag. 297), “proprio come il moto apparente dei corpi celesti viene ricondotto al loro moto reale ma impercettibile ai sensi” (Il Capitale, I 1, pag. 314).

Dunque “l’opera della scienza” d’importanza critica consiste nell’impegno a cercare “legami intermedi” che ci guidino dall’essenza ai fenomeni concreti, poiché senza questi legami intermedi la teoria, cioè l’ “essenza” delle cose, sarebbe contraria alla realtà concreta. Giustamente Marx ironizzava su quei “teorici” che si perdono in costruzioni irreali. Ma solo “il volgo ha quindi concluso che le verità teoriche sono astrazioni che contraddicono le condizioni reali” (Plusvalore, II 1, pag. 166).

Anche la struttura de “Il Capitale” di Marx, come ho già mostrato [2], corrisponde a questo principio metodologico marxiano e il “metodo delle approssimazioni” lì applicato ha trovato la sua espressione più pregnante nella costruzione degli schemi di riproduzione marxiani. Utilizzando numerose assunzioni semplificanti, viene in primo luogo effettuato il “viaggio” dal concreto all’astratto. Ciò è distinto dal mondo fenomenico, dalle forme parziali concrete, dove il plusvalore entra nella sfera dalla circolazione (utili d’impresa, interessi, profitti commerciali ecc.) e tutta l’analisi dei libri I e III de “Il Capitale” si concentra sul valore e sul plusvalore complessivi, sulla loro creazione e variazione nel corso dei processi di produzione e di accumulazione. Qui “la questione connessa al processo di circolazione” (“Il Capitale”, I 1, pag. 600) viene eliminata. L’oggetto dell’analisi del I e del III libro de “Il Capitale” è esplorare la creazione di plusvalore come essenza generale del processo economico e, successivamente (ciò forma, come ha enfatizzato Marx, precisamente lo scopo e il contenuto del III libro), la connessione interna tra l’essenza scoperta e le sue manifestazioni: stabilire le forme empiricamente date di plusvalore ossia “rintracciare e mostrare le forme concrete che emergono dal processo di movimento del capitale che abbiamo finora considerato nella sua totalità. Nel loro movimento effettivo i capitali si scontrano con tali forme concrete” (“Il Capitale”, III 1, pag. 1).

Qui, nel terzo libro, le assunzioni semplificanti prima effettuate (p. e. la vendita delle merci al loro valore, l’eliminazione della sfera della circolazione e della concorrenza, la trattazione del plusvalore nella sua globalità e l’esclusione delle parti in cui esso si suddivide ecc.) vengono abbandonate e, di conseguenza, in questo secondo livello del metodo approssimato sono gradualmente presi in considerazione i fattori intermedi, precedentemente ignorati, e vengono trattate le forme concrete di profitto nel modo in cui esse si rendono visibili nella realtà empirica. Solo in questo modo si chiude il cerchio dell’analisi di Marx e si verifica che la teoria del valore lavoro non è uno schema irrealistico, ma piuttosto una “legge fenomenica”, ossia forma la base che ci permette di spiegare il mondo reale dei fenomeni. Questa idea è formulata con chiarezza inequivocabile quando Marx dice: “Lo abbiamo dovuto fare nei libri I e II solo con i valori delle merci”…”Ora”, ossia nel libro III, “il prezzo di produzione emerge come una forma di valore modificata” (“Il Capitale”, III 1, pag. 142). E ancora:
“Gli aspetti del capitale, come noi li svolgiamo nel presente (terzo) libro, si avvicinano quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione” (“Il Capitale”, III 1, pagg. 33-34).

giovedì 22 luglio 2010

Attacchi soggettivi degli “economisti” borghesi all’analisi marxiana

“L’interpretazione delle intenzioni degli scritti dei defunti è sempre un’impresa discutibile, particolarmente perché gli autori defunti non si possono difendere da sé. Però ci sono dei casi in cui una lettura attenta degli scritti pertinenti indica che l’autore parlò in sua difesa e parlò molto chiaramente – il problema in questi casi sembra essere qualcosa in merito alla presentazione originale che previene molti lettori anche alcuni dei più attenti, dal vedere cosa l’autore intendeva” (W.J. Baumol, the transformation of values: What Marx “Really” Meant (An Interpretation), Journal of Economic Literature, 1974).

Quel qualcosa di cui Baumol parla è la soggettività dell’ideologia borghese che previene l’economia politica (borghese) dal diventare scienza.

Per dirla con le parole di Marx stesso:

“L’economia politica, dato che è borghese, cioè dato che intende l’ordinamento capitalistico, invece che come grado di sviluppo storicamente temporaneo, addirittura al contrario come forma assoluta e ultima della produzione sociale, può restare scienza solo fino a che la lotta delle classi rimane latente o appare solamente in casi sporadici” (K. Marx, Il Capitale, prefazione alla prima edizione, 1867).

Di certo l’economia politica non rimase scienza a lungo.

“(nel 1830)…la borghesia aveva conquistato il potere politico in Francia e in Inghilterra. Da allora la lotta tra le classi raggiunse aspetti sempre più netti e minacciosi, sia in pratica che in teoria. Quella lotta suonò la campana a morto per la scienza economia borghese.” (K. Marx, Il Capitale, poscritto alla seconda edizione, 1873).

È di quella lotta teorica che Marx aveva già previsto che ci occupiamo qui.

Il punto cardine attorno il quale l’economia capitalistica ruota è, come individuato da Marx per primo, che la forza lavoro (fornita dal lavoratore) crea il valore delle merci (teoria del valore) e che grazie a una parte di questa forza lavoro non pagata (teoria del plusvalore) il capitalista (padrone) trae il suo profitto.

Marx aveva anche individuato la contraddizione del capitalismo generatrice delle crisi. Nel sistema capitalistico vi è una tendenza a diminuire la forza lavoro impiegata nella produzione, determinando in ultima analisi una caduta tendenziale del saggio di profitto, che alla lunga determina la crisi economica.

Marx illustra chiaramente che il capitalismo si basa sul lavoro non pagato e tende alla crisi.

Ovviamente il pensiero economico borghese, il quale sostiene che il capitalismo sia comunque la “forma assoluta e ultima della produzione sociale”, attacca l’analisi marxiana opponendo ad essa una critica teorica soggettiva.

L’esempio più significativo che tuttora viene proposto agli studenti di economia politica è il così detto problema della trasformazione dei valori in prezzi.

Qui il MSM riporta un importante testo marxista scritto da Guglielmo Carchedi che chiaramente illustra la soggettività e l’ingenuità su cui si basa tale critica borghese.

Ci vuol ben altro per far vacillare le basi scientifiche del marxismo.

I lavoratori socialisti hanno delle basi solide per la lotta contro il capitale!


Il problema inesistente: la trasformazione dei valori in prezzi
in parole semplici


Guglielmo Carchedi 2001

Università di Amsterdam


È da quando uscì postumo il terzo volume del Capitale di Carlo Marx che economisti di varie scuole hanno scoperto e riscoperto una ‘contraddizione’ nell’economia marxista che ne invaliderebbe le fondamenta. Si tratta del cosiddetto problema della trasformazione dei valori in prezzi. Lo scopo di questa breve nota è duplice. Primo, fare uno schema dell’essenza del cosiddetto problema per i ‘non-addetti ai lavori’, vale a dire in termini comprensibili a tutti. Secondo, dimostrare che il problema, se c’è, e solo nelle menti confuse dei critici di Marx. Premetto che quanto segue è solo ciò che è strettamente necessario per capire il dibattito sulla trasformazione.
Che cos’è dunque la trasformazione? Nella teoria di Marx, il valore di una merce è dato dal valore dei mezzi di produzione, chiamati capitale costante, dal valore della forza lavoro, chiamato capitale variabile, e dal plusvalore creato dai lavoratori. Se V è il valore della merce, c quello del capitale costante, v quello del capitale variabile e s è plusvalore, il valore di una merce è V = c+v+s. Consideriamo adesso due settori rappresentati dalle merci che essi producono, e chiamiamoli V1 e V2. Ciascuno di essi ha bisogno del suo c e del suo v e produce il suo s.
In tal caso

V1 = c1+v1+s1
V2 = c2+v2+s2.

Diamo adesso dei valori a questa notazione astratta. Per esempio, se i valori del capitale investito sono espressi in percentuali (cosicché il totale del capitale costante più quello variabile è uguale a 100)

Settore 1: V1 = 80+20+20 = 120

Settore 2: V2 = 60+40+40 = 140

In questo schema, il settore 1 impiega capitale costante per un valore di 80 e capitale variabile per un valore di 20. Si presuppone che il plusvalore prodotto sia uguale al valore della forza lavoro (il capitale variabile). Questo implica un tasso di plusvalore (il rapporto tra plusvalore e capitale variabile) uguale a 20/20 = 100%. La stessa ipotesi è fatta per il plusvalore prodotto nel settore 2 in cui il valore del capitale costante è 60 e quello del capitale variabile è 40. Quindi il plusvalore prodotto è di 40.
Fino a qui abbiamo supposto che in ciascuno dei due settori vi sia solo un produttore. Supponiamo adesso che in ciascuno di questi settori vi siano più produttori (tutti i produttori nello stesso settore impiegano la stessa percentuale di c e v e in entrambi i settori il tasso di plusvalore è del 100%). Introduciamo la nozione di tasso di profitto. Quando un’impresa vende i suoi prodotti, ricava un certo plusvalore che, diviso per la somma del capitale investito (c+v), da il tasso di profitto. Supponiamo che la domanda sia distribuita in modo tale che ciascun settore realizzi il plusvalore in esso prodotto. In tal caso il settore 1 ha un tasso di profitto uguale a 20/100 = 20% e il settore 2 di 40/100=40%. Ora, se le imprese nel settore 1 ricavano un tasso di profitto inferiore a quelle nel settore 2, vi sarà una tendenza a disinvestire nel primo settore e a investire nel secondo. La produzione e quindi l’offerta nel settore 1 diminuisce e quella nel settore 2 aumenta. Se la distribuzione della domanda (cioè del potere d’acquisto) tra i due settori è invariata, i prezzi aumentano nel settore 1 e cadono nel settore 2. Lo stesso vale per i tassi di profitto: il tasso nel settore 1 cresce al di sopra del 20% e quello nel settore 2 cade al di sotto del 40%. Cioè vi è una tendenziale perequazione dei tassi di profitto verso (20+40)/(80+20+60+40)= 60/200 = 30%. [1]
Tuttavia, una distribuzione della domanda tale che ciascun settore realizzi esattamente il plusvalore in esso prodotto è puramente accidentale. In realtà, la distribuzione della domanda e quindi i prezzi dei due settori saranno diversi da quelli appena ipotizzati. Come prima ipotesi di lavoro supponiamo che essi siano tali che i due settori realizzano il tasso medio di profitto del 30% (conseguentemente, non vi è movimento di capitali). In tal caso, ciascun impresa del settore 1 venderà i suoi prodotti per 130 e lo stesso vale per le imprese del settore 2. Ossia, i lavoratori di ciascun impresa nel settore 1 producono un plusvalore di 20 ma quell’impresa ricava un plusvalore uguale a 30 mentre i lavoratori di ciascun’impresa nel settore 2 producono un plusvalore di 40 ma tale impresa ricava un plusvalore di 30. Vendendo a tali prezzi, ciascun’impresa nel settore 1 si appropria di un plusvalore aggiuntivo di 10 e ciascun’impresa del settore 2 perde un plusvalore di 10. La trasformazione dei valori in prezzi è tutta qui: è una redistribuzione del plusvalore totale prodotto tale che i settori a basso tasso di profitto vendono ad un prezzo che assicura il tasso medio di profitto (30%) e i settori ad alto tasso di profitto vendono ad un prezzo che riduce il loro tasso alla media. Si noti che la media è solo un esempio. Ogni altro valore entro 120 e 140 andrebbe ugualmente bene. Il vantaggio di ipotizzare la media è che ci permette di astrarre dai movimenti di capitale e quindi di focalizzare la nostra attenzione sull’appropriazione di valore attraverso il sistema dei prezzi. La trasformazione quindi non è nient’altro che la teoria della formazione dei prezzi in Marx che a sua volta non è nient’altro che la differenza tra valore prodotto e appropriato. Niente di trascendentale.
Tra parentesi, l’appropriazione di valore dovuta ad una struttura di domanda ed offerta tale che ciascun settore realizza o di più o di meno del plusvalore prodotto (l’ipotesi di cui sopra) è chiamata ‘scambio diseguale’ (una nozione da non confondersi con quella di Emmanuel). Questa nozione è importante non tanto perché spiega l’appropriazione di valore nelle condizioni sopra ipotizzate quanto perché (1) ci permette di focalizzare l’attenzione sull’essenza della trasformazione dei valori nei prezzi e perché (2) tale spiegazione è il punto iniziale che ci permette di rivelare l’appropriazione di valore in seguito alle innovazioni tecnologiche e a prezzi costanti nei settori innovativi (la causa ultima delle crisi economiche). Ma quest’argomento non può essere trattato qui. Ritorniamo alla trasformazione.
Introduciamo ora la dimensione temporale. A ciascuna produzione segue la distribuzione (vendita) e il consumo dei beni prodotti. La economia è quindi un susseguirsi di periodi che iniziano con l’ acquisto dei beni necessari (gli inputs), che prosegue con la loro trasformazione (produzione), e che finisce con la vendita e consumo del prodotto (output). Chiamiamo t1 il momento iniziale (acquisto degli inputs) del primo periodo e t2 quello finale (vendita e consumo degli outputs). Al momento t1 le imprese del settore 1 comprano mezzi di produzione per 80 e forza lavoro per 20. A t2 vendono un prodotto per 130. In maniera simile, a t1 le imprese del settore 2 comprano mezzi di produzione per 60 e forza lavoro per 40 e a t2 ricavano 130. A t2, i capitalisti del settore 1 consumano 30 e accantonano 100 per ricominciare un nuovo periodo. Lo stesso vale per i capitalisti del settore 2. Il nuovo ciclo incomincia a t2 (se si suppone, per semplificare le cose, che la data della fine del primo ciclo coincide con quella dell’inizio del secondo ciclo) e finisce a t3. E cioè a t2 ciascun’impresa compra gli inputs per un totale di 100 e a t3 vende gli outputs per 130. E cosi via. Questo è il cosiddetto schema di riproduzione semplice (in cui il plusvalore è completamente consumato dai capitalisti invece di essere parzialmente reinvestito in addizionale c+v, come nella riproduzione allargata).
Questo schema dell’attività economica è estremamente semplificato ma contiene in nuce tutti gli elementi per essere esteso a situazioni sempre più complesse. Le sue potenzialità per capire il capitalismo dal punto di vista del proletariato sono immense, ed è proprio per questo che è stato attaccato e continua d’essere attaccato dalla ‘scienza’ economica la cui matrice ideologica è esattamente l’opposta di quella di Marx. Vediamo in che consiste tale critica. Consideriamo l’esempio di cui sopra

Settore 1: valore prodotto = 80+20+20 = 120 Valore realizzato = 130

Settore 2: valore prodotto = 60+40+40 = 140 Valore realizzato = 130

Supponiamo ora che i due settori rappresentino l’economia di un paese (l’introduzione di più settori renderebbe tale esempio più realistico ma due settori sono sufficienti per capire la questione). La critica verte sui seguenti tre punti. Primo, c’è la domanda su cui molti si sono spremuti le meningi: che cos’è il valore e come si misura? La risposta per Marx è molto semplice. Il valore è lavoro umano eseguito entro relazioni economiche capitalistiche, cioè eseguito da coloro che non sono i proprietari dei mezzi di produzione per i proprietari di tali mezzi. Molto dovrebbe essere aggiunto, ma questa è l’essenza.
Quindi il valore ha sia un aspetto naturalistico (e in questo senso il lavoro è la sostanza del valore) sia un aspetto socialmente determinato. Bene, dicono i critici, ma per Marx il lavoro semplice conta meno di quello complesso e il lavoro più intenso conta più di quello meno intenso.
Questa tesi è stata criticata, come al solito, semplicemente perché non è stata capita. Consideriamo prima il valore prodotto dal lavoro semplice e da quello complesso. La forza lavoro del lavoratore non-qualificato, (per esempio, lo spazzino) richiede meno tempo per essere prodotta, per esempio un più basso livello di scolarità, di quella del lavoratore qualificato (per esempio, l’ingegnere). Se alla società creare un ingegnere costa un multiplo del tempo necessario per creare uno spazzino, ogni volta che un ingegnere è creato e come se venissero creati diversi spazzini (diversi spazzini non potrebbero fare il lavoro dell’ingegnere ma ciò è irrilevante, dato che è l’aspetto quantitativo e non quello qualitativo che conta in questo contesto). Quindi, ogni volta che un ingegnere lavora per un’ora è come se lavorassero diversi spazzini per un’ora. E per questo che il lavoro della forza lavoro qualificata (lavoro complesso) conta come un multiplo del lavoro della forza lavoro non-qualificata (lavoro semplice). Per quanto riguarda l’intensità del lavoro, uno spazzino (e lo stesso vale per l’ingegnere) che lavora ad una intensità doppia di quella di un altro produce un valore uguale a quello di due spazzini più ‘pigri’. Infatti, ci vorrebbero due di questi ultimi per produrre quello che produce lo spazzino più alacre. Questa è la tesi di Marx.
Pur ammettendo che tale tesi sia giusta, dicono i critici, siccome noi non possiamo osservare tipi diversi di lavoro, il concetto di valore non può essere empirico e diventa metafisico. Questa è una sciocchezza bella e buona. Che i diversi tipi di lavoro non siano osservabili è solo ed unicamente una conseguenza di un sistema di rilevazioni statistiche che (non a caso) non si presta a tale tipo di osservazioni. Date le risorse ad un gruppo di ricercatori e loro vi produrranno un sistema di rilevazione del lavoro adatto a misurare il valore prodotto da ciascun lavoratore (si veda il volume curato da A.Freeman e G.Carchedi, Marx and Non-Equilibrium Economics, Edward Elgar, 1996, capitolo 7).
La seconda critica è chiamata pomposamente la ‘regressione ad infinitum’, un nome tale da incutere timore. E cioè, dicono i critici (tra cui penne illustri, come Joan Robinson), per calcolare il valore del prodotto di un certo periodo, bisogna sapere il valore degli inputs, per esempio dei suoi mezzi di produzione. Ma questi sono stati a loro volta outputs del periodo precedente. Quindi per calcolare il loro valore dobbiamo fare un ulteriore passo indietro nel tempo, e cosi via presumibilmente fino alle origini della vita. Questa è una sciocchezza ancora maggiore. Come ho argomentato più volte, questo criterio renderebbe impossibile qualsiasi tipo di scienza e di conoscenza (compresa la storia). Ogni tipo di scienza deve prendere un certo punto di partenza come dato. Per esempio, per capire le origini del capitalismo devo prendere il feudalesimo come un dato punto di partenza. Se, per capire il capitalismo, penso che sia necessario indagare anche sulle origini del feudalesimo, allora devo prendere l’epoca precedente come data. Ma alla fine dovrò fermarmi e prendere un certo punto come dato. Similmente, uno psichiatra che indaghi sui problemi del suo paziente può pensare che sia necessario esaminare la psiche dei suoi genitori. Eventualmente potrebbe fare un passo indietro nell’albero genealogico del paziente ma alla fine si dovrà fermare. Per tornare a noi, per calcolare il valore di un prodotto devo prendere quello dei suoi inputs come dati. Anche se volessi fare ulteriori passi indietro, ad un certo punto dovrò pure prendere gli inputs di un certo periodo come dati. E incredibile ma vero: è con questo tipo di balbettio metodologico che un gigante come Marx viene attaccato.
La terza ed ultima critica richiede un certo impegno per essere seguita. Supponiamo che il settore 1 produca beni di investimento (macchine, ecc.) e che il settore 2 produca beni di consumo (vestiti, cibo, ecc.). Questo è il modello più semplice di un’economia. Consideriamo il settore 1. Esso vende i mezzi di produzione da esso prodotti per un valore di 130, sia al suo interno che al settore 2. Ora, dicono i critici con l’aria di chi ha avuto una grande pensata, anche un bambino sa che lo stesso prodotto è comprato dal compratore per un certo prezzo è venduto dal venditore allo stesso prezzo. Nell’esempio precedente, 130 è il valore a cui sono venduti i mezzi di produzione ad entrambi i settori ed ovviamente dovrebbe essere il valore pagato dai compratori. Pero i mezzi di produzione sono comprati dai capitalisti nel settore 1 per un valore di 80 e nel settore 2 per un valore di 60. Il totale è 140. Voilà, ecco la prova definitiva dell’incoerenza del pensiero di Marx. I capitalisti comprano i mezzi di produzione per 140 ma li vendono per 130. Il prezzo ricevuto dal venditore non è lo stesso del prezzo pagato dal compratore. È questa l’essenza della critica della circolarità, la critica maggiormente diffusa ed accettata della teoria marxista della trasformazione dei valori in prezzi. Fu originariamente proposta da Bohm- Bawerk, ripetuta, con una ‘soluzione’ che accettava la validità della critica, da von Bortkiewicz, e, ahimè, accettata e diffusa nei circoli marxisti dall’influente economista marxista Paul Sweezy nel secondo dopoguerra. Dopo di loro, intere biblioteche sono state scritte su questo ‘problema’ come se il problema esistesse veramente e numerose soluzioni sono state trovate ad un problema che non esiste. Ma le cose stanno diversamente e per ben due motivi.
Primo, la discrepanza (tra 130 e 140) è dovuta al fatto che negli esempi di cui sopra (e per estensione in tutte le discussioni sulla trasformazione) il capitale costante e quello variabile sono espressi in percentuali piuttosto che nei loro valori assoluti (vedi sopra). Questi valori percentuali sono stati implicitamente considerati dai critici come valori assoluti e quindi sono stati fatti contare come una unità di capitale investito per settore. Ma se si ipotizzano diverse unità di capitale investito nei vari settori, il problema sparisce.
Vediamo perché.
Consideriamo il periodo t1-t2. Se entrambi i settori hanno comprato mezzi di produzione a t1 per 60+80=140 è ovviamente perché tali mezzi di produzione erano allora disponibili a quei prezzi (indagare sulla formazione di questi prezzi significherebbe accettare la validità della regressione ad infinitum). Se, durante il periodo t1-t2, il settore 1 produce mezzi di produzione che vende a t2 solo per 130 vuol dire (1) o che la produzione è calata (e con essa è anche calato il potere d’acquisto, la domanda, per tale offerta) cosicché a t2 (come inizio del periodo t2-t3) i mezzi di produzione che possono essere comprati avranno un prezzo di 130 (2) o che nel settore 1 operavano più di una unità di capitale e quindi la quantità di capitale investito e i mezzi di produzione prodotti sono tali per cui il prezzo totale dei mezzi di produzione è 140. Ciò non può essere visto perché l’esempio considera implicitamente solo una unità di capitale investito invece di mostrare il capitale effettivamente investito, cioè l’esempio mostra le percentuali invece dei valori assoluti. La critica non comprende l’ipotesi su cui si basa la teoria marxista della trasformazione.
Per di più, anche se si considerano valori percentuali, cioè solo una unità di valore investito per settore, per ciascun esempio in cui c’è una ‘discrepanza’ come sopra, un altro esempio può essere fatto in cui tale ‘discrepanza’ non esiste. Nell’esempio di cui sopra basta ipotizzare che il settore 1 investe 73.3c e 26.7v per ottenere i seguenti risultati

Settore 1: 73.3c+26.7v+26.7s = 126.7

Settore 2: 60.0c+40.0v+40.0s = 140.0

133.3c+66.7v+66.7s = 266.7

Dopo la perequazione del tasso di profitto (66.7/200=0.33), ciascun settore realizza un valore pari a 133.3. Quindi il settore 1 vende i mezzi di produzione a 133.3 e entrambi i settori li comprano a 73.3+60.0=133. [2].
Secondo, abbiamo visto che non vi è ‘discrepanza’ tra i valori dei mezzi di produzione comprati e venduti. Vediamo ora perché i critici hanno potuto pensare che vi fosse tale discrepanza, cioè perché il metodo di Marx sia presumibilmente affetto da circolarità. La ragione è che la critica si basa su un madornale errore logico. Consideriamo il primo periodo, t1-t2. A t1 le imprese di entrambi i settori comprano mezzi di produzione per 80+60=140. Con tali mezzi di produzione nuovi mezzi di produzione vengono prodotti dalle imprese del settore 1 che li vendono (sia all’interno del loro stesso settore che al loro esterno, al settore 2) per 130. Cioè, indipendentemente dai valori a cui sono comprati e venduti, i mezzi di produzione comprati a t1 (che servono per il periodo t1-t2) non sono gli stessi di quelli venduti a t2 (che servono per il periodo t2-t3). Tuttavia, la supposta circolarità nel metodo di Marx si basa sull’assurda ipotesi che i mezzi di produzione comprati a t1 sono gli stessi di quelli venduti a t2. Ciò è evidente se si considera l’affermazione su cui si basa la critica della circolarità secondo cui nel metodo marxiano gli stessi mezzi di produzione sono venduti ad un prezzo e comprati ad un altro prezzo (vedi sopra).
In altre parole, la critica sarebbe valida se i mezzi di produzione prodotti dal settore 1 nel periodo t1-t2 (quindi venduti da tale settore per 130 al momento t2) fossero comprati da entrambi i settori non al momento t2 ma al momento t1 (quindi per 140). In questo caso essi sarebbero contemporaneamente venduti per 130 ma comprati per 140. Ma questo significa sovrapporre i due momenti t1 e t2, significa cioè abolire il tempo. Questa è la contro-critica che rivela la vacuità del cosiddetto problema della circolarità nella trasformazione dei valori in prezzi. Tale contro-critica, da quando è stata formulata negli anni 80 (si veda G. Carchedi, The Logic of Prices and Values, Economy and Society, Vol.13, No.4, 1984 e G. Carchedi, Frontiers of Political Economy, Verso, London, 1991, ch. 3) ad oggi non è mai stata ribattuta. Si continua a parlare del ‘problema’ della trasformazione e a trovare delle ‘soluzioni’ la cui assurdità metodologica è direttamente proporzionale al poderoso arsenale matematico impiegato.
Concludendo, ridotta alla sua essenza, la questione è semplice. In una concezione in cui il tempo non esiste,la teoria di Marx è incoerente. Ma in una teoria in cui il tempo esiste è la critica a Marx che è incoerente.
Ciascuno faccia la sua scelta.

Note

[1] N.d.R.: ovviamente il ragionamento è valido qualsiasi siano i valori scelti.
[2] N.d.R.: come già annotato in precedenza, la critica al simultaneismo non dipende dall’esempio, numerico scelto ma è valida qualsiasi siano i valori di riferimento adottati.