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sabato 20 ottobre 2018

Il Partito Socialista della Gran Bretagna: da dove viene e come ha arricchito il Marxismo?

Il Partito Socialista della Gran Bretagna fu fondato il 12 giugno 1904 da un centinaio di membri ed ex-membri della Federazione Socialdemocratica, scontenti della politica e della struttura di quell’organizzazione.

La Federazione Socialdemocratica era stata fondata nel 1881 come organizzazione dichiaratamente marxista, benché Engels, che in quell’epoca viveva a Londra, non avesse voluto aver nulla a che fare con essa. In quegli anni gli scritti di Marx, di Engels e degli altri pionieri del socialismo scientifico erano scarsamente noti nei paesi anglosassoni, eccetto ai pochi che conoscevano le lingue straniere. Ad ogni modo, la Federazione Socialdemocratica ebbe il merito di divulgare in Gran Bretagna le idee e le opere di Marx. Questo fatto, in seguito, avrebbe portato alla richiesta di un partito socialista intransigente e democraticamente organizzato che prendesse il posto di una Federazione Socialdemocratica riformista e autoritaria.

La Federazione Socialdemocratica impiegò molto del suo tempo a far campagne per riforme che avrebbero dovuto migliorare le condizioni di vita della classe lavoratrice britannica. Hyndman, che giocò il ruolo principale nel costruire il partito, sembrava considerare quest’ultimo come un suo feudo personale e reagiva a ogni critica in modo altezzoso e dispotico. Il giornale di partito, “Justice”, era addirittura posseduto da un gruppo privato su cui gli iscritti non avevano alcuna influenza. L’opportunismo e l’arroganza di Hyndman avevano già portato nel 1884 a una scissione, quando parecchi membri, inclusi William Morris ed Eleonor Marx, diedero vita alla Lega Socialista, che però cessò presto d’essere di qualsiasi utilità divenendo egemonizzata dagli anarchici. Una seconda rivolta condusse alla formazione, nel 1903, del Partito Socialista dei Lavoratori, clone dell’omonima organizzazione statunitense. All’inizio, insieme a un programma di “rivendicazioni immediate”, il Partito Socialista dei Lavoratori dichiarò che il suo scopo era la conquista del potere politico, ma presto, sotto l’influenza del suo progenitore americano, subordinò l’azione politica a quella sindacale industriale.

Ma la successiva rivolta contro il dominio del gruppo di Hyndman sulla Federazione Socialdemocratica fu organizzata da uomini e donne che avevano una conoscenza ben più solida delle teorie economiche e politiche marxiste. Per la loro ferrea opposizione all’opportunismo divennero sarcasticamente noti col nome di “Impossibilisti”. All’inizio cercarono di usare le strutture della Federazione Socialdemocratica per avviare una riforma del partito, ma poi si scontrarono con la cricca di Hyndman pronta a usare ogni sotterfugio anti-democratico per mantenere il controllo dell’organizzazione. Molti congressi vennero pilotati, diverse sezioni sciolte e vari iscritti furono perfino espulsi. La questione arrivò al termine con il congresso del 1904, tenutosi a Burnley nel mese di aprile:

  • “L’adozione di un atteggiamento intransigente che non contempli accordi con nessuna parte dei partiti filo-capitalisti; né permetta alcun compromesso con persone o partiti che non riconoscano la lotta di classe o che non siano pronti a lottare per rovesciare l’attuale sistema capitalista.
  • Opposizione a tutti coloro che non si siano completamente votati alla realizzazione della Democrazia Sociale.
  • Un’organizzazione ricostruita, in cui l’Esecutivo sia essenzialmente un corpo amministrativo, con la politica e la tattica determinate e controllate dall’intera organizzazione.
  • L’organo di Partito sia posseduto, controllato e diretto dal Partito.
  • I singoli membri abbiano il diritto di richiedere la tutela dell’intera organizzazione contro decisioni ritenute arbitrarie”.
Il 12 giugno 1904 la maggioranza dei firmatari di questo volantino, insieme a pochi altri, fondò il Partito Socialista della Gran Bretagna. All’inizio i membri del Partito Socialista della Gran Bretagna adottarono un documento, “Oggetto e Dichiarazione dei Principi”, che, senza bisogno di cambiamenti, è rimasto ancora oggi la base d’appartenenza al partito. In questa cornice il partito ha lavorato in modo coerente per far conoscere i principi socialisti e per smascherare le numerose teorie errate e pericolose che avevano guadagnato consenso tra i lavoratori.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna vanta il successo di esser stato nel giusto in modo coerente su un gran numero di argomenti nell’arco di più di un secolo di attività.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna mise in guardia dal pericolo rappresentato dai socialisti partigiani delle riforme ancora prima del vergognoso collasso della socialdemocrazia europea allo scoppio della prima guerra mondiale.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna disse nel 1918 che i bolscevichi non avrebbero potuto costruire il socialismo in Russia e fu il partito che, almeno in Gran Bretagna, aprì la strada all’idea che in Russia si stesse sviluppando il capitalismo di stato.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna predisse l’inevitabile fallimento dei governi laburisti, sia come via verso il socialismo, sia come mezzo per migliorare stabilmente le condizioni di vita dei lavoratori.

Fin dall’inizio il Partito Socialista della Gran Bretagna si convinse che le nazionalizzazioni non avrebbero rappresentato una soluzione ai problemi dei lavoratori.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna ha sempre denunciato la natura falsa e divisiva del nazionalismo, del razzismo e del fanatismo religioso.

In entrambe le guerre mondiali il Partito Socialista della Gran Bretagna dichiarò e mantenne un atteggiamento di ferma opposizione socialista all’attività bellica.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna ha anche fornito i suoi specifici contributi alla teoria socialista alla luce di ulteriori sviluppi (e talora anche di superamenti) di alcune opinioni dei pionieri del socialismo scientifico, Marx ed Engels. Elenchiamo in quel che segue alcuni di questi contributi essenziali:
  1. soluzione del vecchio dilemma “riforme o rivoluzione”, dichiarando che un partito socialista non dovrebbe propagandare le riforme del capitalismo, pur riconoscendo che il parlamento possa essere effettivamente usato per fini rivoluzionari.
  2. Consapevolezza che il socialismo sarà un sistema mondiale di produzione e distribuzione. Quindi il socialismo non potrà in alcun modo esser realizzato in un solo paese.
  3. Riconoscimento del fatto che non vi è più alcun bisogno di una “società di transizione” tra capitalismo e socialismo. Marx ed Engels non erano dei dogmatici e non lo è nemmeno il Partito Socialista della Gran Bretagna. Essi riconobbero che i principi generali del “Manifesto del Partito Comunista” erano sempre validi, ma che l’applicazione pratica di tali principi poteva dipendere dalle condizioni storiche del tempo. Non siamo più nel 1848, quando Marx ed Engels abbozzarono alcune misure rivoluzionarie alla fine della seconda sezione del “Manifesto”, e neppure nel 1875, quando Marx suggerì nella “Critica al Programma di Gotha” che il socialismo avrebbe potuto aver bisogno di una fase iniziale basata su un sistema di buoni orari di lavoro. Nel XXI secolo il socialismo è tecnicamente possibile già da subito e potrà esser realizzato rapidamente mediante il libero accesso ai consumi sotto un controllo democratico appena la maggioranza dei lavoratori lo vorrà.
  4. Rifiuto di ogni ulteriore ruolo progressista per il nazionalismo dopo che, a partire dalla fine del XIX secolo, il capitalismo è divenuto il sistema mondiale dominante. L’industrializzazione di un paese arretrato sotto l’egida di un capitalismo di stato nazionale ora non è più né necessaria, né economicamente progressista.
  5. Per le stesse ragioni vi è il rifiuto netto dell’idea di “guerre progressiste”. I socialisti si oppongono a tutte le guerre per motivi di classe, rifiutandosi di prendere parte alle liti tra i capitalisti per lo sfruttamento delle materie prime, per l’occupazione di zone d’influenza strategica e per il controllo delle rotte commerciali.
  6. Denuncia del concetto di “dirigenza” quale principio politico capitalista, caratteristico delle rivoluzioni che hanno portato al potere la borghesia, ma totalmente estraneo alla rivoluzione socialista. Quest’ultima vedrà necessariamente la partecipazione attiva e conscia della vasta maggioranza dei lavoratori, cosicché non vi sarà più nessun ruolo utile per capi e dirigenti.
  7. Difesa e pratica dell’idea che un partito socialista debba essere senza capi e senza riunioni segrete, prefigurando così la società socialista che esso cerca di realizzare.
  8. Riconoscimento del fatto che il capitalismo non crollerà da sé per dinamiche interne, ma che continuerà a sopravvivere oscillando tra una crisi e l’altra, finché i lavoratori non si organizzeranno consciamente per abolirlo.
  9. Opposizione a tutte le principali religioni organizzate in quanto anti-scientifiche e politicamente divisive e nefaste.
  10. Riconoscimento del fatto che l’apatia, il disimpegno e la mancanza di partecipazione agli affari di partito producono in quest’ultimo patologie politiche quali l’entrismo, il frazionismo, gli errori teorici, le lotte interne e i personalismi.

Il Partito Socialista della Gran Bretagna sempre ha rifiutato di venire a compromessi sui principi socialisti per unirsi a organizzazioni riformiste o semi-riformiste, e ha fermamente insistito affinché l’unica via al socialismo passasse attraverso un’organizzazione democratica e un’azione politica basata sulla comprensione chiara delle posizioni di classe proprie dei lavoratori oppressi dal giogo del capitalismo. I dieci punti che abbiamo appena riportato rappresentano una breve sintesi dei maggiori contributi teorici del Partito Socialista della Gran Bretagna al socialismo scientifico, ma non devono indurre a pensare che il marxismo sia, almeno per questo partito, una dottrina ferma e oramai cristallizzata in un certo numero di dogmi. All’opposto, alcune importanti questioni sono ancora materia di discussione all’interno del Partito Socialista della Gran Bretagna e dei partiti fratelli del Word Socialist Movement. Per approfondire tutte queste tematiche si consulti pure questo sito in italiano (contenente, tra l’altro, un link al ricchissimo materiale politico in lingua inglese a partire dal 1904).

giovedì 7 dicembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Conclusioni)

Conclusioni

Questo breve saggio non ha l'ambizione di essere un resoconto storico completo. Lo scopo principale di questo testo è quello di riportare alla luce in un contesto di sinistra socialista, marxista, intransigente, la critica al leninismo successiva i fatti di "Ottobre". L'aspetto cronologico è fondamentalmente, in questo caso, perché fare gli opinionisti col senno di poi su posizioni e idee generatesi durante l'accadimento dei fatti, è scorretto da ogni punto di vista. Negli articoli esposti è chiaro che dopo un periodo di incertezza avendo notizie molto approssimative sugli accadimenti russi, il socialisti unitari, così come i socialisti del SPGB, assunsero una posizione molto critica nei confronti della dittatura bolscevica; mentre i massimalisti italiani accettarono a pieno il leninismo e si divisero principalmente sull’uso del parlamento, prima, e sulla modalità di collaborazione con i riformisti poi. Ovviamente le nostre idee si basano sia sul riscontro della dottrina marxista quanto sugli sviluppi e i risultati di sconvolgimenti sociali quali anche quelli determinati dal bolscevismo in Russia. 
È immediato notare una certa similarità nelle critiche dei socialisti unitari italiani e degli impossibilisti inglesi. L’immaturità delle condizioni economiche, il potere nelle mani di una minoranza e l’utilizzo inappropriato del termine dittatura del proletariato, per giustificare la dittatura di una minoranza, infine l’uso del terrore. In Treves, almeno negli articoli riportati, che ricordiamo sono subito successivi la rivoluzione, più che in Mondolfo e Turati, c’è una sorta di giustificazione delle azioni di Lenin e soltanto un ammonimento della sua applicabilità solo alla situazione russa. Nei tre socialisti unitari, troviamo molti elementi di critica comuni a quelli presenti nel SPGB. La mitizzazione del Soviet, e della sua democraticità, la mancanza di condizioni economiche per poter parlare di instaurazione del socialismo, e ripiegamento sul capitalismo. Turati, Treves, Modigliani e gli altri socialisti unitari, furono presto al centro della polemica tra i bolscevichi e i massimalisti italiani, in merito ai 21 punti per l’ammissione del PSI nella Terza Internazionale e la condizione necessaria di estromissione di tali riformisti dal partito. La loro critica venne quindi vista come quella di social-traditori alla Kautsky del resto.
Come già accennato nel preambolo, nonostante le similarità delle critiche da parte dei socialisti unitari e di quelli inglesi del SPGB, paragonare uno a uno il PSI al SPGB in termini di seguito nelle masse non sarebbe storicamente corretto. Per attenersi a quel periodo il PSI aveva ottenuto 883.409 voti (17,62%) nel 1913; e 1.834.792 voti (32,28%) nel 1919, aveva una grande presenza nei sindacati confederali, soprattutto la frazione unitaria; mentre il SPGB non raccoglierà voti nelle elezioni generali fino al 1945; in più il SPGB (probabilmente sui 150-200 membri all’epoca) era un partito fisiologicamente più piccolo del PSI, che aveva 200.000 iscritti nel 1920. D’altro canto si potrebbe dire che non scendere a compromessi si paga in popolarità.
Questa analisi non vuol fare nemmeno un’associazione tra gli impossibiliti inglesi, ai quali il nostro Movimento Socialista Mondiale si rifà, e i riformisti italiani. I socialisti unitari (ossia i riformisti, italiani) erano oramai dell’idea di cambiare gradualmente il capitalismo mediante l’uso delle riforme e grazie al suffragio universale, nel quale riversavano una fiducia, se non una fede, sproporzionate. La posizione del SPGB era (ed è) chiara in merito: se la maggioranza dei lavoratori non concepisce la produzione sociale (e quindi non è organizzata per essa) non potrà attuare la rivoluzione del sistema socio-economico per mezzo della presa del potere politico. Tale rivoluzione socio-economica attuata da parte della maggioranza dei lavoratori organizzati e addestrati alla produzione sociale sarà democratica. Quindi niente evoluzionismo. Questo ci differenzia dai riformisti-revisionisti, come anche niente salti, niente minoranze o leader illuminati, e questo ci differenzia dai rivoluzionari-centralisti.           
Storicamente, in sostanza, i risultati, e il peso, dei "minimalisti", e degli impossibiliti, furono così marginali, che si tende a dimenticare quello che di buono, talvolta "profetico", la loro analisi a caldo conteneva, e contiene. Per gli anni a venire la bolscevizzazione del Partito Comunista prima, e di quello Socialista poi, egemonizzò il pensiero della maggioranza della classe lavoratrice di sinistra. Questo portò in classico stile bolscevico a cancellare ogni critica, che venisse dalla "destra" e dalla “sinistra” marxista. Il nazional-comunista Palmiro Togliatti fu la personificazione, in Italia, di questa censura, e distorsione, con la sua esaltazione di un certo Gramsci e la distruzione di voci come quelle di Turati, Treves, Rodolfo Mondolfo, ma anche socialisti come Lelio Basso, Angelica Balabanoff, e leninisti come Bordiga, Onorato Damen, Ottorino Perrone, e Pietro Tresso, quest’ultimo addirittura fisicamente eliminato dagli stalinisti.
Quando l’Unione Sovietica non poté più essere difesa neanche dal punto di vista ideologico più bieco, allora si incominciò ad addossare tutte le colpe a Stalin, che nonostante fosse stato un dittatore sanguinario, fu tra la maggioranza degli incerti in merito all’insurrezione d’Ottobre, spinta principalmente da Lenin.
Per la sinistra comunista italiana, il discorso della deviazione della rivoluzione russa fu un po’ più intricato, in quanto ammetteva e ammette sì la rivoluzione politica in Russia, ma ad un certo punto non quella economica. E fu anche, come visto, altrove, forte oppositrice della bolscevizzazione del Partito Comunista d’Italia.      
Infine, nonostante il lunghissimo strascico devastante dell’influenza del leninismo sul socialismo marxista, bisogna dare del credito a Lenin come marxista. Lenin era di sicuro un “blanquista”, ovvero credeva che una minoranza, regolata da una rigida disciplina, potesse rivoluzionare il sistema sociale, che secondo lui doveva passare per il Capitalismo di Stato, ma come si è visto in queste ampie citazioni, fu molto più realista di altri leninisti, o dovremmo dire “blanquisti” per coerenza. Purtroppo, l’identificazione del marxismo col leninismo, che io continuerei a chiamare “blanquismo”, non fece che dar credito agli anarchici bakunisti, della Prima Internazionale, che criticavano in Marx l’eccessivo autoritarismo centralista. Il marxismo è ben altro che autoritarismo, ma spiegalo un po’, dopo che il leninismo è diventato l’emblema del marxismo.   
Cosa impariamo dalla rivoluzione di ‘Ottobre’ quindi? Che la rivoluzione del sistema economico-sociale non fa salti, si deve basare sul massimo sviluppo delle forze produttive capitaliste. Che non può che essere globale e instaurata dalla maggioranza della classe lavoratrice cosciente. Che per quest’ultimo motivo la classe lavoratrice deve vincere l’egemonia culturale della classe dominante e prendere coscienza. La rivoluzione non è né violenza anarchica né un graduale processo di riforme del capitalismo.
Solo oggi incominciamo ad intravedere il pieno potenziale del sistema capitalista applicato a livello globale, con la Cina, l’India, il Medio Oriente in forte sviluppo. Allo stesso momento, vi sono parti nel mondo ancora ai primi passi verso questo processo. Il capitalismo del XXI secolo non ha ancora risolto le sue contraddizioni, nonostante quanto sostengano le svariate creative formulazioni degli economisti asserviti alla classe capitalista. Le contraddizioni del capitalismo sono sempre più evidenti: ricerca del massimo profitto a scapito dell’uomo e dell’ambiente, guerre di interesse commerciale e strategico, terrore, disoccupazione, immigrazione di massa, propaganda di regime, sistema di educazione conformato al pensiero piccolo borghese, povertà, e disparità economica.
Secondo il Movimento Socialista Mondiale la via di uscita c’è, ed è un processo sulle spalle di tutti noi lavoratori, organizzati al di fuori del sistema capitalista, in modo davvero democratico, quindi senza capi o condottieri.


Lavoratori di tutto il mondo unitevi! Da perdere avete solo le vostre catene!  

domenica 3 dicembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Parte II)

Reazioni del “Socialist Standard”

Nell’articolo pubblicato a gennaio del 1918, si fa menzione alla presa del potere da parte dei Bolscevichi, ma c’è molta cautela nel commentare notizie parziali e poco attendibili. Si menziona come positivo l’armistizio firmato dai bolscevichi. In agosto, sempre del 1918, quando le informazione sono ormai chiare c’è la presa di posizione del SPGB con “The Revolution in Russia: Where it Fails”. Si fa menzione di due pamphlet “Guerra o Rivoluzione” di Trockij pubblicato dal “Socialist Labour Party” a Glasgow, scritto prima della rivoluzione e uno di Litvinov. In primis l’articolo dello Standard espone in termini negativi Trockij il quale nonostante si dica marxista, si stupisce della decisione dell’Internazionale Socialista di votare i crediti di guerra,
Da ogni marxista serio questo era da aspettarselo. Il partito socialista sta fermamente e solidamente sulla linea della guerra di classe … Negli anni passati il S.P.G.B. da solo in questo paese, e gruppi marxisti in altri paesi, hanno sottolineato che le sezioni di Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Austria ecc. …, le quali formano la maggioranza dell’Internazionale, hanno o abbandonato, o non hanno mai accettato di schierarsi in favore della guerra di classe, e non erano quindi Socialiste nel vero senso della parola”
Il secondo pamphlet di M. Litvinov scritto a marzo del 1918, non aggiunge nulla alla nostra conoscenza degli affari russi, prosegue l’articolo dello “Standard”, che quindi va avanti descrivendo la situazione in Russia:
“Perfino la Russia d’oggi è in larga misura un paese agricolo, alcune fonti dicono che l’80 per cento della popolazione sia occupata nell’agricoltura; il loro sistema, ad ogni modo, ha certi aspetti peculiari che necessiterebbero un tomo voluminoso per descriverli.
Nel complesso la popolazione agricola è divisa in gruppi di villaggio, o comunità, basate primariamente su quel che viene chiamata ‘mir’. Ad ogni contadino è assegnato un certo ammontare di terra, a seconda del numero di componenti della sua famiglia. La sua proprietà viene cambiata periodicamente così da prevenire che qualcuno possa tenere per se la terra migliore. Se la popolazione aumenta oltre i limiti della terra controllata dalla ‘mir’, si forma un gruppo, e si sposta su una nuova terra, nel modo descritto molto bene da Julius Faucher nel suo arguto saggio ‘Il sistema agrario russo’. Siccome questo gruppo è collegato alla vecchia ‘mir’, le comunicazioni e le relazioni tra loro sono mantenute, e la proliferazione potrebbe vedere una serie di villaggi espandersi oltre una certa area, e avere una connessione più o meno lassa l’uno con l’altro. La terra, però, non è posseduta dal gruppo di villaggio. In ultima istanza è posseduta dallo Czar nella sua qualità di Padre del Popolo; ad ogni modo, grandi possedimenti sono concessi ai nobili per i loro servizi militari e altri servigi resi alla corona. 
Questa proprietà, per quanto peculiare possa diventare, è concessa da tutte le ‘mir’ previo pagamento di una quota per la terra, solitamente denominata tassa. Questa tassa viene pagata al nobile quando egli ha il possedimento, e allo Czar quando questo è il padrone diretto.”     

sabato 25 novembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Preambolo)

In occasione del centenario del colpo di stato bolscevico in Russia (7 novembre 1917 secondo il calendario gregoriano vigente in occidente, 25 ottobre per il calendario giuliano), abbiamo preparato un breve saggio sulla reazione dei socialisti unitari, detti anche “minimalisti”, o “riformisti”, del Partito Socialista Italiano (PSI) e la paragoneremo principalmente con la reazione dei socialisti inglesi del “nostro” Partito Socialista della Gran Bretagna (SPGB). Questo sarà diviso in quattro parti. Il preambolo che affronterà molto superficialmente il periodo che va dalla Rivoluzione di Febbraio a quella di Ottobre; un secondo che tratterà la reazione dei socialisti italiani, e in particolare quella degli unitari, la terza parte sulla reazione del SPGB, e infine le conclusioni.

È doveroso sottolineare però due cose. Paragonare il PSI al SPGB ovviamente è storicamente errato e non è l’intento di questo scritto. Il PSI era già agli inizi del ‘900 un partito con un grande seguito nelle masse, e ancor di più, come si vedrà, nel periodo post-rivoluzionario. Il SPGB nasceva dalla scissione doverosa del 1904, contro ogni tipo di riformismo e centralismo, scissione che lo aveva però ridimensionato dal punto di vista del seguito, e ciò nonostante rimaneva fedele al socialismo marxista.

In secondo luogo è importante notare l’omogeneità dell’intransigenza del SPGB, al contrario del PSI non era lacerato tra il gradualismo dei riformisti, l’attendismo dei massimalisti e il dogmatismo programmatico degli intransigenti di sinistra. Ciò nonostante la critica dei riformisti italiani, pur non condividendo noi l’imborghesimento della loro lotta politica, fu una delle più lungimiranti sui fatti di Russia ed è per questo che vale la pena riportarla.                 

Preambolo

La Rivoluzione di Febbraio viene annunciata da “L’Avanti” tramite l’agenzia Stefani, il 16 marzo del 1917 secondo il calendario gregoriano. La discussione verte principalmente sull’impegno russo nell’Intesa, e trova i liberali interventisti euforici dell’idea che questa possa dare nuovo vigore allo sforzo russo sul fronte orientale. Mentre il gruppo parlamentare socialista, nella fattispecie Filippo Turati e Giuseppe Modigliani, è scettico che la deposizione dello zar possa avere questo significato. Turati in un discorso al consiglio comunale di Milano, il 25 aprile, ribadisce la formula zimmerwaldiana della pace senza annessioni né indennità. Sempre in aprile viene pubblicata su “L’Avanti” la dichiarazione del governo provvisorio russo di rinuncia ad ogni ambizione espansionistica. Si riunisce a Milano la Direzione del Partito Socialista, il gruppo parlamentare e il consiglio direttivo della Confederazione del Lavoro, dove il Partito ribadisce la sua posizione pacifista. Da questa riunione scaturisce il documento Ai socialisti di tutti i paesi; al quale si oppone però Amadeo Bordiga con Nulla da rettificare uscito su “L’Avanti” il 23 maggio, dove sottolinea la tendenza intesista di questo documento. Gli risponde Serrati, direttore de “L’Avanti” sdrammatizzando la frase non felice attaccata da Bordiga, ribadendo la linea internazionalista del PSI. Verso la fine di aprile appare il primo articolo di Antonio Gramsci sulla Rivoluzione di Febbraio, Note sulla rivoluzione russa; qui curiosamente Gramsci precisa che “i rivoluzionari russi non sono giacobini, non hanno già sostituito alla dittatura di uno solo la dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far trionfare il programma.” Ovvero quello che avverrà poi in ottobre. Appariva su “L’Avanti” già il 30 marzo un articolo di Genosse Sacerdote su Lenin, spiegando che questi è per la pace e contro il governo provvisorio in favore di un’Assemblea Costituente. Già a fine aprile si leggono articoli inneggianti l’autorevolezza di Lenin e la figura di Lenin rivoluzionario intransigente cresce nell’immaginario degli operai. Nonostante Vasilij Ivanovič Suchomlin (Junior) il corrispondente russo de “L’Avanti”, esalti invece la figura del socialrivoluzionario Černov. Junior aveva forti riserve su Lenin in quanto secondo lui eccessivamente dogmatico. Una volta partito per la Russia Junior, in giugno, la corrispondenza passò alla Balabanoff e ad Ing. questi erano più favorevoli nei confronti dei bolscevichi.
Quindi vi sono i fatti di luglio, ovvero la sollevazione dei soldati e operai di Pietrogrado contro il governo che si concluse con la repressione governativa che vide nei bolscevichi i principali fomentatori dichiarando il loro partito fuorilegge. Serrati nel suo La crisi della rivoluzione pubblicato il 22 luglio su “L’Avanti”, denuncia che il “malcontento popolarenon è sedato… permangono le cause che lo avevano originato… guerra … approvvigionamenti … La rivoluzione, fatta dal proletariato, sta per essere sfruttata dalla borghesia…”, e in un altro articolo intitolato Lenin Serrati esalta la figura di Lenin come il leader del movimento operaio socialista russo. Sfatando un po’ il mito del leninismo divenuto popolare solo post-Ottobre, “Critica Sociale” (si veda Primavera di rivoluzione, Verso albe nuove) dei socialisti unitari, già in occasione della rivoluzione di febbraio denuncia l’arretratezza russa ed è critica della posizione di Lenin a Zimmerwald e Kienthal. Turati e Claudio Treves sono molto chiari a riguardo della pace separata soprattutto per il timore che questa pace rafforzi la Germania a svantaggio dell’Italia. Questa posizione filo-patriottica dei riformisti si acuirà con la disfatta di Caporetto e verrà attaccata dagli intransigenti. Intanto Gramsci aggiusta il tiro in luglio, con I massimalisti russi, apparso su “Il Grido del popolo” e “L’Avanguardia”, dove esalta Lenin e i bolscevichi come i veri rivoluzionari e non evoluzionisti.

Quindi al grido di «Viva Lenin!» viene accolta la delegazione del Soviet di Pietrogrado già nell’agosto del 1917. La delegazione è composta da Goldenberg (ex-bolscevico, ora indipendente), Ehrlich (del Bund), Russanov (socialrivoluzionario) e Smirnov (menscevico). I delegati sono per la pace generale e non separata. Nasce una polemica proprio sul «Viva Lenin!» tra Turati e Serrati. Il primo sostiene che questo grido denunci “una confusione d’idee”, il secondo, invece sostiene che Lenin era “uno dei più fedeli interpreti del socialismo internazionale”. Molti socialisti non vedono di buon occhio però il sostegno che i delegati russi sembrano dare al governo Kerenskij. Questo si palesa il 13 agosto a Torino, dove il comizio dei delegati russi tradotto a braccio da Serrati per la folla, si conclude (proprio per l’esaltazione e il colorire di Serrati) con incidenti che gli costeranno l’incarcerazione e un processo. Scontri molto più seri avverranno sempre a Torino con in moti del 22 fino al 26 agosto. La Conferenza di Stato chiamata da Kerenskij che escludeva i bolscevichi viene aspramente criticata da “L’Avanti”. È chiaro come riportato da Ing. in settembre che la rivoluzione può sopravvivere non solo con la sconfitta del generale Kornilov, ma con la sconfitta del collaborazionismo di Kerenskij. Serrati nei suoi Scampoli-Lenin il 3 ottobre si chiede in tutto questo dove sia Lenin. Con la conquista della maggioranza del Soviet di Pietrogrado da parte dei bolscevichi e la nomina a presidente di Trockij su “L’Avanti” si incomincia già a leggere un mese prima della presa del potere da parte dei bolscevichi che “Lenin occuperà presto il posto di Kerensky”. Una presa del potere non troppo inaspettata in fondo.            

sabato 4 novembre 2017

Cento anni dal colpo di Stato bolscevico in Russia

In occasione del centesimo anniversario del colpo di Stato bolscevico in Russia (precisamente il 7 novembre del 1917, secondo il calendario gregoriano), il Movimento Socialista Mondiale pubblicherà una serie di articoli al fine di analizzare, il contesto storico, l'impatto sul socialismo marxista e la classe dei lavoratori, l'influenza sui socialisti in Italia che tale presa del potere ebbe e tuttora ha. A seguire la traduzione a cura di D.C. dell'articolo uscito sul numero di Ottobre 2017 dello Standard, che chiaramente mostra i limiti della visione leninista del marxismo.


La Russia è mai stata socialista? 

Esaminiamo la reazione del Partito Socialista della Gran Bretagna al colpo di stato bolscevico e descriviamo l’analisi della Russia Sovietica iniziata per primo da questo partito.


Introduzione

L’apparente trionfo dei bolscevichi nella Russia arretrata del 1917 mise in subbuglio il movimento marxista. Inoltre, varie organizzazioni politiche in Europa e in America Settentrionale, precedentemente impotenti, si mostrarono maggiormente colpite dal rapido e inatteso successo di alcuni rivoluzionari nel mezzo di una cruenta guerra mondiale, che preoccupate per il potenziale impatto di quest’evento sugli elementi centrali della teoria marxista (come erano stati sempre compresi in precedenza).
Contrariamente alla leggenda il Partito Socialista della Gran Bretagna divenne inizialmente preda proprio di questo sentimento come altri partiti della sinistra radicale, lodando i tentativi riusciti da parte dei bolscevichi di allontanare la Russia da quella carneficina che fu la Prima Guerra Mondiale. Riguardo a ciò che stava accadendo in Russia a un livello più profondo, il Partito Socialista della Gran Bretagna era più scettico. In effetti quello che attirava la nostra attenzione più di ogni altra cosa erano le affermazioni stravaganti, fatte per conto dei bolscevichi dai loro sostenitori in Gran Bretagna, sull’ “Ottobre Rosso” (i primi di novembre secondo il calendario gregoriano). La prima analisi dettagliata della situazione russa, scritta da Jack Fitzgerald, apparve sul “Socialist Standard” nel numero dell’agosto 1918 con il titolo: “La Rivoluzione in Russia – Dove fallisce”. Affrontava le pretese dell’allora “Socialist Labour Party” (di Gran Bretagna), sottolineando perché la presa del potere bolscevica non avrebbe potuto condurre all’instaurazione del socialismo in Russia. L’articolo si domandava:

“È pronta per il socialismo questa massa enorme di gente, circa 160 milioni, sparsa su otto milioni e mezzo di miglia quadrate? E i cacciatori del Nord, i piccoli proprietari contadini in rivolta nel Sud, gli schiavi-salariati agricoli delle Province Centrali e gli schiavi-salariati industriali delle città sono forse convinti della necessità d’instaurare la proprietà sociale dei mezzi di sostentamento e forniti delle conoscenze necessarie allo scopo? A meno che una rivoluzione mentale di un’ampiezza siffatta che il mondo non l’abbia mai vista abbia preso piede, o un cambiamento economico immensamente più rapido di ciò che la storia abbia mai registrato sia accaduto, la risposta è ‘No!’ (…). Quale giustificazione ci potrebbe essere, quindi, per definire la sollevazione avvenuta in Russia una ‘rivoluzione socialista’? Nessuna, al di là del fatto che i capi del movimento di novembre si definiscono ‘socialisti marxisti’.”

In effetti, col tempo, il Partito Socialista della Gran Bretagna arrivò a identificare cinque ragioni principali per cui l’edificazione del socialismo in Russia da parte dei bolscevichi sarebbe stata impossibile:

·   In primo luogo, come già indicato da Fitzgerald, la coscienza socialista di massa, necessaria prima di una rivoluzione socialista vittoriosa, era palesemente assente in Russia, come altrove. Fitzgerald faceva propria un’osservazione di Litvinov, il quale suggeriva che i bolscevichi non conoscessero veramente il punto di vista dell’intera classe lavoratrice quando assunsero il comando, ma solo quello di alcuni suoi settori come, per esempio, quello degli operai industriali di Pietrogrado.

·    In secondo luogo non era neanche il caso che la classe lavoratrice fosse la maggioran- za numerica in Russia, una società dominata dall’economia rurale. Come può essere portata a termine una rivoluzione socialista maggioritaria quando i lavoratori sono una minoranza e la classe sociale più grande è costituta da contadini analfabeti? Anche se l’analfabetismo non impedisce in modo assoluto il diffondersi della comprensione del socialismo, certo, lo rende più difficile. In ogni caso i contadini si sono da sempre mostrati più interessati a liberarsi dal pesante fardello delle tasse sulla terra e ad accrescere la dimensione dei loro appezzamenti piuttosto che a domandare la proprietà comune.

·   In terzo luogo il socialismo non potrebbe esistere in una nazione economicamente arretrata dove in mezzi di produzione non siano sufficientemente sviluppati da poter sostenete un sistema socialista di distribuzione.

·      In quarto luogo, e ciò è veramente cruciale, non è possibile costruire il socialismo in un solo paese, data la natura del capitalismo quale sistema economico mondiale con una divisione del lavoro su scala planetaria. Un ‘socialismo in un solo paese’, isolato, sarebbe destinato al fallimento a prescindere dalle lodevoli intenzioni dei rivoluzionari in esso coinvolti.

·  La quinta ragione avanzata per sostenere la natura non-socialista della Russia bolscevica andava, invece, proprio alla radice delle nostre differenze politiche con il bolscevismo: il socialismo non si sarebbe potuto raggiungere seguendo dei capi (illuminati o meno che fossero).


Il Capitalismo di Stato

In assenza di una rivoluzione socialista mondiale, realisticamente, ci poteva essere solo una via di sviluppo per la Russia semi-feudale: la via del capitalismo. Con la virtuale eliminazione della gracile borghesia russa, per i bolscevichi era stato necessario sviluppare l’industria attraverso la proprietà statale delle imprese e l’accumulazione forzata di capitale. In “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” [1], scritto appena prima della rivoluzione, Lenin aveva delineato proprio quest’approccio alla crisi russa. Secondo questo documento Lenin immaginava che le misure immediate necessarie avrebbero comportato la nazionalizzazione delle banche esistenti e la formazione di una sola banca di stato, insieme alla nazionalizzazione delle compagnie assicurative, dei monopoli e di tutte le altre realtà industriali fondamentali. Il “Socialist Standard” colse subito l’opportunità di porre in dubbio l’ipotetica applicabilità generale delle azioni bolsceviche in Russia, in questo caso lo sviluppo del “capitalismo di stato” come precondizione per l’instaurazione del socialismo:

“Se dovessimo copiare la politica bolscevica, dovremmo domandare il capitalismo di stato, che non è un passo in avanti verso il socialismo nei paesi capitalisti avanzati. Resta il fatto, come anche Lenin ha dovuto confessare, che non dobbiamo imparare dalla Russia, ma la Russia deve imparare dai paesi dove la produzione su ampia scala è dominante (“Un punto di vista socialista sulla politica bolscevica”, luglio 1920).

Come da noi evidenziato con gran pena ai nostri oppositori filo-bolscevichi, Lenin ammise che la formazione sociale della Russia sovietica era essenzialmente capitalistica di stato, sebbene sotto la direzione e il controllo di un cosiddetto “stato proletario” guidato da un partito d’avanguardia di rivoluzionari professionisti. Per Lenin la natura della politica rivoluzionaria era il determinante cruciale del tipo di sistema sociale esistente. Senza ciò che Lenin definì “democrazia rivoluzionaria”, i monopoli capitalistici di stato sarebbero rimasti solo espressioni di un capitalismo di stato. Con il controllo operaio della produzione e il controllo dello stato proletario da parte del partito di avanguardia della classe lavoratrice, però, il socialismo sarebbe divenuto una realtà. Secondo “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” il socialismo sarebbe semplicemente “i monopoli capitalistici di stato usati per servire gli interessi di tutto il popolo”.

Oltre vent’anni dopo la presa del potere bolscevica eravamo rimasti scettici sul fatto che il capitalismo di stato fosse realmente socialismo, anche se presieduto da coloro che si proclamavano socialisti:

“… le caratteristiche principali del capitalismo [in Russia] non sono scomparse e non sono in procinto di farlo. Le merci non sono prodotte per l’uso ma per la vendita a quelli che hanno denaro per acquistarle, come negli altri paesi. I lavoratori non sono membri di un sistema in cui i mezzi di produzione della ricchezza siano posseduti e controllati socialmente, ma sono salariati impiegati dallo stato o da imprese para-statali ecc. Le  imprese di stato russe non sono ‘socialmente possedute’ più delle Poste Britanniche, dell’Ente Centrale per l’Elettricità [del Regno Unito], o di ogni altra compagnia privata (…). Il tentativo bolscevico d’introdurre il socialismo mediante ‘decreti legali’ o ‘coraggiosi balzi in avanti’ prima che le condizioni economiche siano mature e prima che la gran massa della popolazione desideri il socialismo, è stato un totale fallimento. Con il tempo questo fallimento diverrà ovvio ai lavoratori dentro e fuori dalla Russia” (“Domande del giorno d’oggi”, 1942).

Il capitalismo, basato sulla separazione tra i produttori e i mezzi di produzione, non era stato abolito e non sarebbe potuto esserlo. La produzione aveva ancora luogo nella forma di un sistema di scambi basato sulla circolazione dei capitali. Il capitale si espandeva in conseguenza dello sfruttamento del lavoro salariato e i beni erano ancora prodotti per la vendita sul mercato in vista della realizzazione di un plusvalore. In effetti, molto dell’analisi iniziale del Partito Socialista della Gran Bretagna dedicata alle basi economiche del sistema sovietico rifletteva l’intento di dimostrare le somiglianze tra il capitalismo di stato russo e il capitalismo britannico, basato sulle imprese private, con cui il partito era più familiare.


Chi è la classe capitalista?

Col tempo, mentre era chiaro che il capitalismo di stato in Russia (e poi nei suoi vari paesi satelliti) manteneva tutte le caratteristiche essenziali del capitalismo, rimanevano anche evidenti differenze, benché superficiali. Una, ad esempio, era legata a chi fosse la classe capitalista in Russia, dato che i sostenitori di questo sistema spesso sostenevano che non potesse realmente esistere il capitalismo in Russia dato che non c’era una classe capitalista nel senso tradizionale del termine. Eppure in realtà esisteva una classe capitalista di questo tipo, come mostrato dall’opuscolo “Milionari Sovietici” di Reg Bishop del 1940, insieme a un settore privato che affiancava le maggiori istituzioni e le compagnie possedute dallo stato, nonostante fosse alquanto marginale.
Ad ogni modo era chiaro che il potere e il controllo effettivi (comprese le decisioni economiche) erano tutti concentrati in un potente gruppo di burocrati dirigenti che godevano di uno stile di vita privilegiato e di alti stipendi ottenuti dalla loro posizione al vertice della gerarchia sovietica. Questa classe dirigente non poteva essere semplicemente equiparata ai sovrintendenti e ai manager interni al capitalismo a cui si riferiva Marx, i quali ricevevano uno stipendio basato sulla quantità di beni necessaria per produrre e riprodurre la loro forza-lavoro. All’opposto, questa classe di burocrati in Russia stava usando la sua posizione di controllo per compiere le stesse funzioni espletate dai capitalisti individuali nelle prime fasi dello sviluppo capitalista e per impossessarsi di entrate privilegiate ricavate dal plusvalore. Benché non avesse titoli legali sui mezzi di produzione e non fosse in grado di cederne o passarne la proprietà, era chiaramente una classe possidente del tipo menzionato nella nostra Dichiarazione dei Principi, che esercitava un “monopolio … della ricchezza estorta ai lavoratori”. Questa classe capitalistica di stato, come la classe capitalista dei proprietari privati in occidente, era privilegiata nei consumi ricevendo stipendi “gonfiati” che non erano il prezzo della loro forza-lavoro, ma una quota del plusvalore totale creato dalla classe lavoratrice. Ed erano anche privilegiati per via di una moltitudine di vantaggi, benefici e bonus solo a loro disponibili, compreso l’accesso a esercizi commerciali esclusivi come negozi e ristoranti di lusso da cui la classe lavoratrice era addirittura fisicamente esclusa.

L’opinione prevalente nel Partito Socialista della Gran Bretagna fu che la natura di classe non potesse venir determinata dalle sole forme legali o dai metodi di selezione (infatti la classe possidente sovietica non veniva selezionata ereditariamente, ma tramite altri metodi, più meritocratici, che non erano stati del tutto inusuali nelle altre classi possidenti della storia). Così, in definitiva, il partito concluse che, nonostante la classe capitalistica di stato non avesse titoli legali di proprietà sui mezzi di produzione, tuttavia costituiva ugualmente una classe in grado di esercitare una proprietà collettiva sui mezzi di produzione e di distribuzione. Ciò che venne giudicato di primaria importanza fu, quindi, la realtà sociale del capitalismo piuttosto che una sua particolare forma legale: gli oppositori della teoria del capitalismo di stato non erano mai stati capaci di vedere al di là di quest’ultima.


La teoria del capitalismo di stato

Il Partito Socialista della Gran Bretagna fu il primo gruppo politico nel Regno Unito, e probabilmente nel mondo, a identificare la direzione capitalistica di stato presa dalla Russia sotto la dittatura del partito comunista, benché molti altri giunsero nel corso del tempo alla stessa conclusione, anche se non sempre per le medesime ragioni.
Diversamente da noi la gran parte di questi gruppi restava nel solco della tradizione leninista o, per lo meno, si mostrava interessata a identificare alcuni aspetti positivi nella presa del potere bolscevica i quali, in futuro, sarebbero potuti essere usati dal movimento socialista in altre situazioni. In particolare, la concezione leninista del socialismo come proprietà e direzione statali dell’economia sotto il controllo di un partito di avanguardia operante tramite lo strumento politico dei consigli operai era acriticamente accettata dalla maggioranza di questi gruppi. Di conseguenza essi attribuirono solo in seguito la caratteristica di “capitalismo di stato” alla Russia, quando ritennero che la proprietà statale non coincidesse più con la “democrazia proletaria” e con il potere dei soviet. Questa fu essenzialmente l’analisi proposta inizialmente dai “comunisti dei consigli” tra cui, per esempio, Otto Rühle che vide nella repressione dei soviet l’ascesa del “despotismo dei commissari” e del capitalismo di stato (Rühle stesso, più tardi, comprese l’inadeguatezza di questa posizione e giunse a concepire la nazionalizzazione e la regolazione da parte dello stato come intrinsecamente “capitalistiche di stato”). Il maggiore gruppo della “Sinistra Comunista” in Europa, la KAPD tedesca [2], sviluppò una prospettiva simile. Identificò il capitalismo con la proprietà privata (specificamente non-statale) dei mezzi di produzione e, come la “Workers’ Socialist Federation” (anch’essa “comunista dei consigli”) in Gran Bretagna, lodò i bolscevichi per la loro costruzione del socialismo nei centri industriali della Russia. In seguito la KAPD divenne fortemente critica del sistema bolscevico dopo la repressione finale dei soviet e l’introduzione della cosiddetta “Nuova Politica Economica”, che, sosteneva la KAPD, annunciava un “regresso verso il capitalismo”.

Nonostante gli eccessi iniziali della “Sinistra Comunista” e dei gruppi dei “comunisti dei consigli” che invariabilmente lasciarono che l’ammirazione per la forma politica dei soviet dominasse le loro analisi, forse il peggior esempio di socialismo concepito come la combinazione di proprietà statale più “democrazia rivoluzionaria” venne dai trotzkisti. Ironicamente le teorie trotzkiste sul capitalismo di stato, pur essendo le più deboli, sono le più note. C. L. R. James e Raya Dunayevskaya del “Socialist Workers’ Party” statunitense furono i primi trotzkisti a separarsi dallo stesso Trockij e ad attribuire all’URSS una natura capitalistica di stato, benché la teoria forse più nota sia quella elaborata da Tony Cliff e fatta circolare come documento di discussione all’interno del Partito Comunista Rivoluzionario della Gran Bretagna nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, prima di venir pubblicata con il titolo: “Russia, un’analisi marxista”.
Cliff, che era la vera guida dietro ciò che sarebbe poi divenuto l’SWP britannico [3], sostenne che le sue ragioni per dividersi dai trotzkisti ortodossi, identificando l’Unione Sovietica con il capitalismo di stato, fossero abbastanza semplici:

“Quando giunsi alla teoria del capitalismo di stato non vi arrivai attraverso lunghe analisi [sulla sopravvivenza] della legge del valore in Russia … Niente di tutto ciò. Vi arrivai con la semplice constatazione che … non si può avere uno stato operaio senza che i lavoratori abbiano il potere di determinare ciò che avviene nella società” (intervista a “The Leveller”, 30 settembre 1979).

In realtà Cliff era stato pesantemente influenzato dal suo compagno trotzkista Jock Haston circa le opinioni del Partito Socialista della Gran Bretagna sull’esistenza del capitalismo di stato in Russia al posto del socialismo o del cosiddetto “stato operaio”; ma Cliff non sarebbe mai stato in grado abbandonare del tutto le prospettive di Lenin e di Trockij. In effetti l’analisi di Cliff era profondamente radicata nell’idea che l’URSS fosse una forma di “stato operaio” prima che il “Piano Quinquennale” di Stalin, nel 1928, instaurasse la burocrazia come nuova classe consumatrice di plusvalore. Come tutti i trotzkisti, Cliff non identificò l’URSS con una società in via di sviluppo secondo le linee guida del capitalismo di stato già dal 1917, ma soltanto a partire dall’ascesa al potere di Stalin. Sotto Lenin la Russia sarebbe stata, ipoteticamente, una società in transizione dal capitalismo al comunismo, fondata sul potere della classe lavoratrice. Per Cliff un cambiamento visibile di controllo politico condurrebbe a una mutazione fondamentale della struttura economica, a quello che, in effetti, arriverebbe a essere un “regresso verso il capitalismo”.
Forse sorprendentemente, furono proprio i trotzkisti che restarono fedeli alle opinioni di Trockij (nel periodo dell’esilio) sulla Russia vista come uno “stato operaio degenerato” che mossero le critiche più pertinenti all’analisi di Cliff, in particolar modo alle sue conclusioni che la struttura del sistema sovietico fosse cambiata nel 1928 e avesse assunto basi capitalistiche. Il primo di questi critici fu il rivale trotzkista britannico Ted Grant (fondatore di ciò che poi divenne “The Militant” [4]) che scrisse:

“Se la tesi del compagno Cliff fosse corretta, ossia che in Russia oggi ci sia il capitalismo di stato, allora non si potrebbe evitare la conclusione che il capitalismo di stato esista dai tempi della rivoluzione russa e che la funzione stessa della rivoluzione sia stata quella di introdurre questo sistema di capitalismo di stato nella società. Perché, nonostante i suoi strenui sforzi per tracciare una linea di demarcazione tra le basi economiche della Russia prima e dopo il 1928, tali basi economiche sono rimaste immutate (…) il denaro, la forza-lavoro, l’esistenza della classe lavoratrice, il plusvalore ecc. sono tutti relitti del vecchio sistema capitalista sopravvissuti perfino sotto il regime di Lenin (…) la legge del valore si applica, e deve potersi applicare, fino a che non vi sia un accesso diretto ai prodotti da parte dei produttori” (“Contro la teoria del capitalismo di stato”, 1949).

Questa conclusione fu certamente rifiutata da Cliff e dagli altri teorici trotzkisti del capitalismo di stato, benché ovviamente, non da noi. Oggi molti gruppi politici di “comunisti dei consigli”, di “comunisti di sinistra” e di trotzkisti identificano la Russia sovietica, sicuramente nel periodo successivo a quello di Lenin, con una realtà essenzialmente a capitalismo di stato e, come noi, hanno applicato la loro analisi della società russa ad altri paesi “socialisti” con caratteristiche simili in Asia, Africa e America Centrale. Il non esser soli nell’identificare la natura capitalistica dell’URSS ovviamente non indebolisce la nostra posizione di unica organizzazione che promosse un’analisi basata sul capitalismo di stato degli eventi della Russia all’epoca del loro accadimento e non, solamente, con il senno di poi. Ma quello che è più importante è che rimaniamo una delle poche organizzazioni impegnate a sostenere una tale critica all’URSS (e ai regimi simili) che non abbia mai cercato di adottare o di promuovere l’avanguardismo leninista che, così chiaramente, condusse proprio a questo sbocco capitalistico di stato.

DAP

(da “Socialist Standard” n. 1358, Ottobre 2017, traduzione italiana a cura del blog “Movimento Socialista Mondiale”).


NOTE

[1] “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” (del 10-14 settembre 1917) in V. I. Lenin, Opere, vol. 25 (Editori Riuniti, Roma, 1967).
[2] Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands (“Partito Comunista Operaio di Germania”), attivo dal 1920 al 1933.
[3] “Socialist Workers’ Party” (“Partito Socialista dei Lavoratori”), partito trotzkista britannico fondato nel 1950 e ancora esistente.
[4] “The Militant” (“Il Militante”) fu il giornale dell’ala trotzkista del Partito Laburista britannico nota come “Militant Tendency” nel periodo 1964-1991. Dopo l’espulsione proseguì come rivista autonoma fino al 1997.

              

martedì 26 agosto 2014

Cosa c'è di male nell'usare il parlamento?

Il Movimento Socialista Mondiale (MSM) v’invita a leggere la traduzione italiana dell’opuscolo redatto dal Socialist Party of Great Britain (SPGB) e intitolato ”What’s wrong with using the Parliament?”. La questione dell’utilizzo del Parlamento è cruciale per il nostro movimento in quanto, non solo ci distingue dagli altri movimenti marxisti, ma è un nostro principio cardine che ha suscitato, suscita e susciterà implacabili discussioni. A causa, ma noi diremo grazie, a questo principio, diversi marxisti e anarchici, anche se vicini alle posizioni antileniniste del MSM, declinano la loro adesione al nostro movimento poiché sono dell’idea che il Parlamento resti sempre uno strumento di dominazione borghese non utilizzabile per la causa socialista. La traduzione che presentiamo qui si pone proprio lo scopo di controbattere questa, come anche altre critiche rivolteci.
In più la frazione Italiana del MSM coglie quest’occasione per approfondire alcuni punti non (o poco) trattati nell’opuscolo in inglese. Abbiamo a questo proposito condotto una piccola intervista ad Adam Buick, co-autore del lavoro originale, della quale riportiamo la traduzione. Si consiglia comunque la lettura della traduzione dell’intero opuscolo prima di quella dell’approfondimento che riportiamo qui sotto.


Approfondimento

Redazione: Cosa ne pensi di questi movimenti emergenti che usano internet per diffondere e praticare la democrazia diretta? Sono tutti, in un modo o nell’altro, riformisti. Ad ogni modo l’uso di internet può essere uno strumento efficace per l’organizzazione della futura società socialista. Pensi che questo tipo di democrazia diretta possa scavalcare l’attuale sistema politico basato sulle elezioni? 
 
Adam: Sono certo che alcune forme di democrazia diretta per via elettronica avranno il loro spazio nella struttura democratica della futura società socialista, ma non penso che la democrazia diretta sia il miglior modo di prendere le decisioni. Questi strumenti vanno bene per decisioni su questioni di principio che richiedono un sì o un no come risposta, ma molte questioni sono molto più complesse con vari tipi di alternative o soluzioni di compromesso. Ecco perché una democrazia per delega, dove c’è un Consiglio o un Comitato eletto che prende le decisioni, è più appropriata nei casi complessi che saranno, a parer mio, la maggior parte delle situazioni. Certo è che coloro i quali verranno eletti nei Consigli o nei Comitati dovranno rendere conto ai loro elettori e saranno soggetti ad ogni tipo di controllo e di verifica.
 
Redazione: Nel leggere quest’articolo un lettore potrebbe pensare che i movimenti leninisti, così come alcuni di quelli anarchici, agirebbero contro una rivoluzione socialista una volta che questa si presenti, essendo questi movimenti così occupati a farsi la guerra tra loro. È questo ciò che s’intendeva nell’articolo? Se sì, dovrebbe essere questa la motivazione principale per abbandonare tali movimenti e unirsi al nostro?   
 
Adam: Non sono sicuro che quando il movimento socialista prenderà forma come movimento di massa ci saranno molti leninisti o anarchici in giro. Penserei invece che molti di loro faranno parte di un movimento più grande, forse discutendo le loro posizioni assieme a tutti gli altri.
 
Redazione: È abbastanza chiaro dall’opuscolo che senza la maggioranza della gente che voti per l’autentico partito socialista attraverso mezzi democratici, il socialismo non potrà essere instaurato. Tuttavia il capitalismo è nazionalista e promuove le nazioni (come entità). Cosa succederebbe quindi se la maggioranza si raggiungesse solo in una o in poche nazioni? Come potrebbe prendere tempo il partito socialista senza cadere della trappola del riformismo? 
 
Adam: Questa domanda è stata fatta molte altre volte e una risposta si può trovare nel nostro vecchio opuscolo “la domanda del giorno”:

(http://www.worldsocialism.org/spgb/pamphlets/questions-day#soc_less_dev):

“Ai socialisti viene spesso chiesto di un altro aspetto dello sviluppo diseguale. Questo si rifà alla possibilità che un movimento socialista possa essere più sviluppato in un paese che in un altro e in grado di poter prendere il controllo del sistema di governo prima che lo siano analoghi movimenti socialisti in altre parti del mondo.
Tralasciando per il momento la questione se tale situazione sia realistica o meno, possiamo già dire che non presenta problemi quando è vista nella cornice del carattere mondiale del movimento socialista. Giacché i governi capitalisti sono organizzati su base territoriale, ogni organizzazione socialista ha il compito di guadagnare democraticamente il controllo nel paese dove opera. Questo però avviene meramente per convenienza organizzativa: c’è un solo movimento socialista, del quale le diverse organizzazioni socialiste sono parti integranti. Quando il movimento socialista crescerà ulteriormente, i suoi attivisti saranno completamente coordinati dall’organizzazione mondiale. Se si considera la situazione in cui i socialisti organizzati di una sola parte del mondo siano nella posizione di prendere il controllo del sistema di potere governativo, la decisione sulle azioni da compiere sarà presa unanimemente dal movimento socialista mondiale alla luce di tutte le circostanze del caso.

Rimane il caso se, in effetti, ci saranno differenze materiali nel ritmo di crescita delle varie sezioni del movimento socialista. Al momento, nei paesi capitalisti avanzati, la vasta maggioranza, poiché non è socialista, condivide alcune idee base su come la società può e dovrebbe essere governata. Tale massa accetta che i beni siano prodotti per la loro vendita al fine di accumulare profitto, che alcuni debbano lavorare per uno stipendio mentre altri debbano essere i padroni; che ci siano forze armate e confini; che non si possa fare a meno dei soldi e della compravendita. Queste idee sono condivise dalla gente in tutto il mondo e su questo si basa la stabilità del capitalismo nella nostra epoca.

Engels sottolineò che un periodo rivoluzionario esiste quando la gente comincia a rendersi conto che quello che pensava fosse impossibile, può in effetti essere realizzato. Quando la gente capirà che è possibile avere un mondo senza confini, senza salari e profitti, senza padroni e forze armate, allora la rivoluzione socialista non sarà molto lontana. Ma questo progresso nella conoscenza politica sarà raggiunto dalle stesse persone che ora pensano che il capitalismo sia l’unico sistema possibile. Poiché i lavoratori di tutto il mondo vivono in condizioni simili e, grazie anche ai moderni sistemi di comunicazione, quando questi incominceranno a vedere oltre il capitalismo, questo avverrà ovunque. Non c’è ragione alcuna di pensare che solo i lavoratori di un paese vedano questo, mentre quelli degli altri paesi no.
L’idea vera e propria di socialismo, ossia di una nuova società, è chiaramente e inequivocabilmente un rifiuto di tutti i nazionalismi. Quelli che diventeranno socialisti si renderanno conto di questo e anche dell’importanza di unirsi ai lavoratori di tutti i paesi. L’idea socialista è tale che non si può diffondere in modo non uniforme.
Quindi i partiti socialisti saranno nella posizione di prendere il controllo politico nei paesi industrialmente avanzati in intervalli di tempo piuttosto ravvicinati. È concepibile che in alcuni paesi meno sviluppati economicamente, dove la classe lavoratrice è meno numerosa, i pochi capitalisti privilegiati possano essere in grado di conservare la loro posizione di classe un po’ più a lungo. Ma non appena i lavoratori avranno vinto nei paesi avanzati, daranno tutto l’aiuto possibile ai loro compagni negli altri paesi.”

 

Per concludere, cogliamo l’occasione per ringraziare Adam Buick e per sottolineare l’importanza della divulgazione delle idee socialiste in tutte le lingue, che non deve conoscere confini o barriere di sorta.

Lavoratori, disoccupati, studenti e pensionati di tutto il mondo, unitevi! Un mondo diverso e migliore è possibile, incominciate a immaginarlo!

domenica 6 febbraio 2011

Manifesto per la Resistenza - Conferenza Internazionale - Roma 1966

Ci può essere un mondo senza guerra soltanto con l'introduzione di un cambiamento sociale fondamentale. Tale cambiamento sarà l'opera della classe lavoratrice socialista e non della politica pacifista. Quest'ultima è stata accettata, sia nel passato sia nel presente, da diversi partiti politici nonché da vari gruppi d'individui, che sembravano seguire nel campo politico, due linee del tutto apposte, come è il caso del Partito Laburista e dei diversi movimenti cristiani, ecc. Il fatto però è che tutti questi partiti e movimenti, appoggiano continuamente il sistema sociale capitalistico il quale è la fonte della violenza. Ne consegue che qualsiasi forma di pacifismo diventa una cosa vana.

L'eventuale eliminazione del contrasto esistente tra la politica e il pacifismo significherebbe soltanto la creazione di un ulteriore partito politico che appoggia il capitalismo e mira nel contempo a risolvere il problema delle guerre.

II Partito Socialista della Gran Bretagna [del Movimento Socialista Mondiale] ritiene che i lavori svolti da tali organizzazioni siano una perdita di tempo; i precedenti delle lunghe riforme sociali ce lo dimostrano pienamente. I diversi movimenti e partiti che appoggiano il capitalismo, il quale è la causa delle guerre nel mondo d'oggi, ostacolano il progresso dei partiti socialisti, come il Partito Socialista della Gran Bretagna, il quale mira all'abolizione del sistema sociale capitalistico e con ciò porre fino al rischio della guerra stessa.

La causa delle guerre moderne va ricercata nel conflitto degli interessi economici che si manifesta tra i vari gruppi capitalistici, compresi l'Unione Sovietica, la Cina e numerosi altri Paesi d'oltre cortina i quali rendono al socialismo un omaggio puramente verbale.

II Partito Socialista della Gran Bretagna, ritiene in primo luogo che la basa della struttura sociale capitalistica è l'esistenza di una lotta di classe tra la classe dominante/proprietaria e la classe lavoratrice salariata, la quale è l'unica fonte della produzione di tutti i beni economici.

In secondo luogo riteniamo che questi beni economici assumano la forma economica conosciuta coma merce, vale a dire di prodotti creati per essere venduti a fine di lucro. Ciò crea lo spirito e l'impulso della concorrenza economica, che oltre alla lotta di classe, forma in primo luogo su scala nazionale un'intensa concorrenza tra le varie società commerciali, e in secondo luogo forma su scala mondiale una spietata concorrenza tra gli stessi stati. Lo scopo di tutto ciò è di trovare nuovi sbocchi di mercato, di assicurarsi il mercato delle materie prime, quali il petrolio, la gomma, ecc., per avere il controllo delle vie commerciali, come il canale di Suez e per occupare luoghi strategici, come Cipro o Singapore.

In sintesi, le rivalità per essere in testa in tutti i settori delle industrie, esige da parte degli stati interessati il ricorrere all'astuzia o alla più acuta abilità di destreggiarsi nel corso delle trattative, sia nel campo politico e diplomatico che militare.

L'Unione Sovietica e gli Stati Uniti si contendono già da lunghi anni il diritto di controllo dell'Europa e del Medio Oriente. Per quanto concerne l'estremo Oriente, la loro controversia politica si è al quanto appianata in seguito alla crescente minaccia della Cina di Mao.

Non dimentichiamo però, che queste controversie fanno parte del capitalismo e si susseguono ininterrottamente: esse sono la sua realtà. A questo fine, gli stati mantengono le forze armate che servono a proteggere la posizione privilegiata della classe proprietaria nel proprio paese e in confronto agli altri paesi su scala internazionale. Un'altra triste realtà di questo fatto e che la storia delle trattative intraprese da numerose organizzazioni internazionali per giungere a un accordo sul disarmo e la pace è soltanto la storia di una lunga serie di fallimenti diplomatici.

Queste sono, a grandi linee, le cause fondamentali delle guerre mondiali del capitalismo e dei continui conflitti armati di minore rilievo che si sviluppano in varie località del mondo con un ritmo sempre più crescente, nonché del continuo stato d'allarme per prevenire un attacco di sorpresa. Tutto ciò appartiene al sistema sociale capitalistico. L'ineluttabile conclusione è che la violenza fa parte della nostra vita e continuerà a esserlo fintanto che vivremo sotto il capitalismo.

Allo stato attuale delle cose, ci sembra futile lanciare un appello morale per porre fine alla violenza. Molti pacifisti hanno dato di coraggio e sincerità e hanno dimostrato di essere persone di alta levatura morale. Ciononostante, il fatto rimane che le loro premesse sono lontane dal basarsi sulla realtà di fatto.

L'unico modo per porre fine alla guerra e alla violenza una volta per tutte è porre fine al capitalismo, compreso il capitalismo statale esistente nell'Unione Sovietica, nella Cina, ecc., e sostituirlo con un sistema sociale completamente diverso: il SOCIALISMO. Ciò non vuol dire, come sostengono i pacifisti, propagare una politica della non violenza; al contrario ciò serve a delucidare la posizione dei socialisti autentici i quali sostengono che la classe lavoratrice socialista deve ottenere, per vie democratiche, il controllo del potere politico al fine di abolire il capitalismo e di istituire il socialismo.

Il socialismo sarà un sistema sociale universale basato sulla proprietà comune e sul controllo democratico dei mezzi di produzione e della distribuzione dei beni economici nell'interesse di tutta la comunità.

I beni saranno prodotti per essere utilizzati e non a scopo di lucro. L'introduzione di questo nuovo rapporto sociale abolirà sia le cause primordiali che gli effetti della guerra.

Di conseguenza, le armi (nucleati e convenzionali) e le forze armate diverranno uno strumento bellico del passato. Ciò contribuirà a rilassare ulteriormente l'atmosfera tesa di violenza che grava tuttora sull'Umanità.

Il socialismo è possibile istituirlo soltanto quando la classe lavoratrice del mondo lo ha compreso e lo desidera. In altri termini, i lavoratori devono prima liberarsi della mentalità che regge in piedi la struttura economica capitalistica, comprese le idee del pacifismo, e poi esporre il proprio desiderio, spontaneo e consapevole, per la creazione della nuova società in cui la gente vivrà in un'atmosfera di felicità e armonia.

The Executive Committee of the Socialist Party of Great Britain.
52 Clapham High Street, London, S.W.4 - England
Marzo 1966.

sabato 6 novembre 2010

Sciopero e Coscienza

In questo periodo di scioperi e proteste il MSM ritiene opportuno riportare degli stralci di un articolo scritto dal nostro Partito Fratello (SPGB) in merito agli scioperi dei minatori britannici nel 1984-85. Il MSM vuole sottolineare che lo sciopero è un’arma fondamentale per la lotta dei lavoratori contro gli effetti del capitalismo, ma che senza coscienza e unione di classe lo sciopero perde la sua efficacia e al meglio risulta in una vittoria isolata a breve termine.

Sì allo sciopero quindi, ma senza dimenticare che il capitalismo va soppresso e sostituito, e questo si può ottenere solo attraverso un’azione globale della classe lavoratrice cosciente.

“In breve, i lavoratori sono la stragrande maggioranza della popolazione, che vive lavorando per uno stipendio o un salario. O sei un capitalista – un proprietario dei mezzi di produzione e distribuzione di ricchezza (terre, fabbriche, uffici, trasporti, mass media, ecc…) – e puoi vivere senza lavorare ricevendo un introito che non hai guadagnato; o sei dipendente da uno stipendio, un salario o un’indennità statale, in tal caso sei nella classe lavoratrice.

La società dei giorni nostri è dominata dal sistema capitalista a livello globale. Sotto il capitalismo, tutti i beni e i servizi sono prodotti per essere venduti al fine di ricavare profitto. La minoranza capitalista che monopolizza i mezzi di sostentamento, attraverso la proprietà privata o statale, non è interessata primariamente a soddisfare i bisogni umani, ma a vendere merce sul mercato per un profitto. Non ci sarebbe profitto senza il lavoro della classe lavoratrice.

Il profitto deriva dal lavoro non pagato ai lavoratori. Il capitalista accumula profitto attraverso un processo di furto legalizzato. Ne segue abbastanza ovviamente che c’è un inevitabile antagonismo di interessi tra i capitalisti e i lavoratori: i capitalisti devono prendere quanto possono dai noi e noi dobbiamo minimizzare l’estensione per la quale siamo sfruttati. Il capitalismo crea un’incessante lotta di classe tra i lavoratori e i capitalisti; gli scioperi sono un’espressione di questa lotta.

L’arma dello sciopero

…Gli scioperi sono necessari se i lavoratori vogliono prevenire d’essere seppelliti dalle richieste di profitto mai soddisfatte: come lavoratori noi dobbiamo organizzarci per difendere e migliorare i nostri stipendi e le nostre condizioni di lavoro. Lo sciopero è una delle armi dei lavoratori e, all’interno dei confini del sistema del profitto, è un’arma che può limitare gli scopi capitalistici. Quelli che ci dicono di non scioperare ‘per il bene della nazione’ sono, che lo sappiano o meno, portavoce degli interessi dei padroni. Il sistema salariato è un assalto istituzionalizzato ai creatori della ricchezza mondiale e noi usiamo i nostri sindacati per difenderci. Ma non dobbiamo illuderci che tale associazione difensiva ci emancipi dall’assalto: non dobbiamo credere che l’entrare a far parte dei sindacati o lo scioperare ci liberi dallo sfruttamento. Karl Marx capì (o meglio espresse; ndt) questo nel 1866 quando disse all’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Congresso di Vienna) che:

I sindacati fino ad ora concentrano la loro attenzione troppo esclusivamente
sulla lotta diretta e locale contro il capitale. Questi non hanno completamente
capito il loro potere di attaccare il sistema vero e proprio della schiavitù
salariata…

È il nostro compito come socialisti quindi quello di lottare con i nostri compagni lavoratori nelle loro battaglie necessarie a difendersi, ma sottolineando sempre che la vittoria vera da raggiungere è l’abolizione del sistema salariato.

L’unico modo di distruggere le illusioni politiche è esprimerle logicamente. È tempo che tre di queste vengano esposte ora.

Primo, c’è una diffusa idea che il Partito Laburista
(questo vale anche oggi e anche in Italia per il Partito Democratico e affini; ndt) difenda gli interessi dei lavoratori. Dopo sette governi laburisti non abbiamo più bisogno di dire che i laburisti danzano alla musica del capitalismo – l’esperienza mostra che lo fanno (stessa cosa vale per l’Italia, la storia recente del nostro paese ha mostrato chiaramente che la ‘Sinistra’ non fa gli interessi dei lavoratori ma del capitale; ndt).

Secondo, c’è la convinzione, la quale sta diminuendo ma non abbastanza rapidamente, che i paesi a capitalismo di Stato sono esempi di socialismo. In Polonia, come in altri erroneamente detti paesi ‘socialisti’, i sindacati sono controllati dai capi di Stato. Nella regione produttrice di carbone della Polonia, i minatori sono ancora in prigione per aver preso parte ad attività sindacali indipendenti a quelle governative. Durante lo sciopero i capitalisti britannici aumentarono di 5 volte le importazioni di carbone polacco a buon mercato per assenza di sindacati veri e propri. In breve, la sconfitta dei minatori polacchi nel loro primo sforzo di costituire un sindacato ha contribuito alla sconfitta dei minatori britannici. La guerra di classe non è locale ma internazionale e gli interessi dei lavoratori in una parte del mondo sono l’interesse comune di tutti i lavoratori.

Terzo, i lavoratori devono vedere oltre l’illusione che tutto ciò che è necessario nella guerra di classe sono dei buoni generali: i leader dei sindacati sono bravi a parole, ma i loro discorsi non valgono nulla finché la maggioranza dei lavoratori è costituita da seguaci che, mentre in molti casi simpatizzano con i minatori, sono solitamente più realistici dei loro leader e sanno che il capitalismo è in depressione, che i loro lavori sono a rischio e che scioperare non cambierà molto. Invece di assumere che i grandi leader siano necessari per rinforzare i lavoratori nella lotta, si deve riconoscere che solo sulle basi della coscienza di classe i lavoratori mostreranno la loro forza.

I lavoratori politicamente maturi non vedranno loro stessi come minatori, elettricisti, insegnanti infermieri, scaricatori, o dottori; e non si vedranno come britannici, francesi, o russi, bianchi o neri.

Ciò non significa che i lavoratori devono stare seduti in attesa. Nel capitalismo la lotta sindacale per paghe e condizioni migliori deve continuare. Ma una volta che abbiamo imparato la lezione, diventa chiaro che questo è una azione di difesa secondaria. La lotta vera riguarda l’impossessarsi dei mezzi di sostentamento al fine di usarli per produrre solo per l’uso, in questo modo il profitto non sarà più una barriera necessaria e noi non saremo più definiti lavoratori ma esseri umani, amministratori noi stessi della nostra società. Solo attraverso la coscienza e l’azione democratica tale sistema sociale socialista sarà instaurato.

Non ci sarà socialismo senza socialisti ed ecco perché il solo compito del Partito Socialista è di convincere i nostri compagni lavoratori della logica e della desiderabilità dell’ instaurazione del socialismo.

Chiaramente, quindi, i socialisti sono lungi dal dire ai lavoratori di stare a guardare e di non agire. Al contrario, noi chiamiamo i nostri compagni a investire dieci volte più energia nel mettere fine al sistema più che a spenderla nel difenderci al suo interno. I lavoratori dovrebbero ascoltare il consiglio di Marx il quale affermava che:

i lavoratori non dovrebbero esagerare loro stessi nel lavorio estremo in queste
lotte quotidiane. Non devono dimenticare che stanno lottando contro gli effetti,
ma non contro le cause di questi effetti; che stanno ritardando la caduta, ma
senza cambiarne la direzione; che stanno applicando palliativi, non cure alla
malattia. I lavoratori, perciò, non devono essere esclusivamente assorti in
questa inevitabile guerriglia che incessantemente rispunta in continuazione
dalle invasioni incessanti del capitale o dai cambi di mercato…Invece del motto
conservatore ‘una giusta paga per una giusta giornata lavorativa’ devono
scrivere sulle loro bandiere lo slogan rivoluzionario: ‘Abolizione del sistema
del lavoro salariato!’ (Valore, Prezzo e Profitto).
L’articolo completo del SPGB può essere trovato in inglese a questa pagina: