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giovedì 8 febbraio 2018

Convergenza “Socialista” e il World Socialist Movement: due poli diametralmente opposti!

Un piccolo partito di recente formazione, noto con il nome di “Convergenza Socialista” (CS), usa impropriamente la corretta definizione di “socialismo”. Questa è stata presa dal vecchio e glorioso Socialist Party of Great Britain (SPGB), attivo fin dal 1904. L’uso improprio di una definizione giusta crea due pericoli, ovvero: quello di passare per un partito che vuole davvero il socialismo, quando invece è altrimenti. E quello di associare in qualche modo il proprio nome al SPGB e quindi al World Socialist Movement (WSM). Questi due rischi noi del WSM non li possiamo correre e, quindi, non solo prendiamo le distanze dalla linea politica revisionista e riformista di CS, ma evidenziamo qui di seguito anche le principali differenze che ci dividono in modo diametrale.
Il SPGB nasce dalla rottura della Socialist Democratic Federation (SDF), appunto nel 1904. La SDF ebbe una nobile origine: fondata da Henry Hyndman nel 1881, vide socialisti del calibro di William Morris, Eleanor Marx e del suo partner Edward Aveling tra i propri membri. Hyndman, già a suo tempo plagiario di Marx (il quale per questo troncò con lui ogni rapporto), era un uomo politico eclettico che guidava il partito in modo autoritario e personale entrando fin da subito in conflitto con molti membri socialisti, tra i quali quelli celebri appena citati. Proprio questi ultimi andarono a formare la Socialist League, una scissione accolta con piacere da Engels, il quale anch’egli poco tollerava Hyndman, ma che, mancando di massa critica, non ebbe il seguito sperato. Proprio per la condotta personalistica e le posizioni revisioniste, riformiste e scioviniste di Hyndman, alcuni membri della sinistra della SDF di Londra andarono successivamente a formare il SPGB. Un partito che da allora non accettò mai più una leadership di partito, né alcuna sorta di riformismo.
Il SPGB e i suoi partiti fratelli, che formano il WSM, ovvero il Socialist Party of Canada, il World Socialist Party of the United States, il World Socialist Party (Ireland), il World Socialist Party (New Zealand) e il World Socialist Party of India, funzionano in modo totalmente democratico e senza alcuna leadership.
La loro intransigenza nei confronti di ogni tipo di revisionismo e di riformismo, allora già incipienti nelle grandi socialdemocrazie della Seconda Internazionale, valse loro il nomignolo di “impossibilisti”. Questo termine (un po’ ironico) fu coniato proprio dai partiti membri della Seconda Internazionale, tra i quali troviamo anche il Partito Socialista Italiano, per indicare coloro i quali pensavano che fosse impossibile partecipare a governi di coalizione con i partiti borghesi “progressisti” (dopo l’affaire Millerand del 1899) e, più in generale, riformare il capitalismo per condurlo gradualmente verso il socialismo.
Invero, Marx ed Engels pensavano che un programma “minimo” di riforme, spontaneamente sollevato dal movimento dei lavoratori stesso, avrebbe aiutato la costruzione di un movimento rivoluzionario socialista globale nel quale la classe lavoratrice sarebbe organizzata come un corpo unico, ma non lo concepivano come strumento per riformare il capitalismo. Tuttavia l’adozione di un programma minimo risultò nella corruzione della natura dei vari partiti social-democratici. Quindi il WSM, nonostante accetti di partecipare alle elezioni politiche, rifiuta categoricamente il programma “minimo”: il suo solo programma è il Socialismo. Come Marx ed Engels, anche il WSM vede i sindacati come organizzazioni di lavoratori occupate, nel migliore dei casi, nella lotta quotidiana di miglioramento delle condizioni lavorative. I sindacati non si occupano del movimento socialista come non si occupano del socialismo. “L’essere membro del WSM non preclude l’attività nei sindacati [anzi], tuttavia ogni membro deve riconoscere i gravi limiti della lotta difensiva dei sindacati sotto il regime capitalista”.

sabato 29 ottobre 2011

Il futuro cupo del capitalismo

Questo articolo offre numerosi spunti, ed è conforme alle idee del MSM in larghissima parte.
Su un punto però il  MSM la pensa in maniera diversa: esso ritiene che la precondizione necessaria perché il socialismo possa essere instaurato è che la vasta maggioranza della popolazione, a livello mondiale o quantomeno  nei paesi più sviluppati, abbia compreso cos'è il socialismo e abbia la volontà di realizzarlo. Senza questa vasta maggioranza, il socialismo non può proprio essere instaurato. Una volta che questa vasta maggioranza ci sarà, la via principe per instaurare il socialismo sarà quella elettorale (in termini di democrazia diretta). Ciò non vuol dire che il passaggio al socialismo sarà delegato, per via elettorale, ad una avanguardia dei lavoratori, ma al contrario che ognuno dovrà prendere parte in questo processo, e cioè che il voto è inteso dal MSM come strumento di accordo sociale.

giovedì 12 agosto 2010

I boom e le crisi – che cosa li causa?

Le “Recessioni”, i “Crolli” o le “Crisi”, come vengono chiamati in vario modo, sono ora accettati come parte del tutto regolare della vita economica. I politicanti ora razionalizzano tali crisi, descrivendole come una “sofferenza necessaria” che deve essere talvolta sopportata. In definitiva, è l’economia che controlla i politicanti e non il contrario.

Che cos’è una Crisi Economica?

Le crisi economiche sono periodi di crescita economica bassa o perfino negativa. Questo significa che i livelli di produzione sono più bassi e ciò comporta aumento di disoccupazione. Come risultato, la posizione contrattuale dei lavoratori è indebolita e le loro retribuzioni declinano.

Il Cambiamento negli Atteggiamenti

Una volta molti economisti pensavano che le crisi economiche fossero evitabili. Quando Karl Marx disse che il capitalismo inevitabilmente si sviluppa in modo instabile con periodi sia di espansione che di contrazione, la sua teoria fu fieramente respinta da molti.

Nel suo principale lavoro, Il Capitale, Marx formulò la legge fondamentale del progresso capitalista nei seguenti termini:

L’enorme capacità di espansione a grandi sbalzi del sistema delle fabbriche, e la sua dipendenza dal mercato mondiale, hanno per necessario effetto una produzione febbrile e quindi una congestione dei mercati, con la contrazione dei quali subentra una paralisi. La vita dell’industria si trasforma in una successione di periodi di vitalità media, prosperità, sovrapproduzione, crisi e ristagno. (1)

In quel periodo e per alcuni decenni successivi, gli economisti capitalisti reclamarono che le crisi e i crolli non fossero una parte integrante del capitalismo stesso ma piuttosto determinati da interferenze esterne con il libero mercato. Videro le “irregolarità di mercato” quali l’eccessivo potere dei sindacati, le restrizioni sul liberoscambismo o l’incorretta politica monetaria del governo come la causa delle crisi economiche.

Questa visione che se il libero mercato fosse lasciato libero di agire non ci sarebbero crisi di nessun tipo era basata sulla dottrina proposta dall’economista francese dell’inizio del diciannovesimo secolo J. B. Say, secondo la quale

ogni venditore porta un compratore al mercato.

Certamente, se ogni bene prodotto venisse veramente comprato allora non ci sarebbero crisi economiche (questo è vero per definizione). Tuttavia, tale presupposto è basato su un ragionamento difettoso. Marx così lo espone:

Nulla può essere più sciocco del dogma che la circolazione delle merci determini un necessario equilibrio di vendite e acquisti… ciò che è implicito in tale asserzione è che ogni venditore si porta al mercato il suo compratore… Ma non è detto che uno compri immediatamente perché ha venduto. (2)

Alcuni oggi credono ancora nella visione data da Say. I più ora accettano che gli eventi abbiano provato che il libero mercato sia incapace di provvedere alla crescita duratura quanto gli interventi restrittivi statali. Benché la visione marxista sia ora implicitamente accettata, relativamente pochi comprendono il perché.


Marx vs Keynes

Secondo Marx, la divisione nel capitalismo tra i compratori e i venditori di merci innalza la possibilità di crisi e di depressioni economiche, dal momento che i possessori di denaro non sempre trovano nel loro interesse trasformare immediatamente il denaro in merci. Perciò, finché la compravendita, il denaro, i mercati e i prezzi continueranno a esistere, esisterà anche il ciclo economico.

Ai tempi della Grande Depressione degli anni ’30, la maggior parte degli economisti arrivò a essere d’accordo sul fatto che i crolli erano parte integrante del capitalismo, avendo seguito la guida nel loro tempo fornita da John Maynard Keynes. Come Marx prima di lui, Keynes disse che la Legge di Say era insensata e che il libero mercato non portava naturalmente a un punto di equilibrio di piena occupazione con crescita sostenuta. Il capitalismo, disse, se fosse lasciato libero di agire, ristagnerebbe come fece dopo il Crollo di Wall Street dell’ottobre del 1929. Keynes e i suoi seguaci scelsero la visione che, come il capitalismo si sviluppava, la tendenza osservabile del sistema di concentrare la ricchezza in sempre meno mani porterebbe a eccessivo risparmio, al fare provvista di ricchezza e a un declino nella domanda complessiva. Questo subito dopo farebbe piombare il capitalismo in un crollo prolungato.

Keynes, nell’elaborare una dottrina economica con l’intento di influenzare i governi in tutto il mondo, sostenne che l’intervento del governo era necessario per prevenire future crisi. I governi dovevano aumentare le tasse su quelli con meno probabilità di spendere ampie parti del loro reddito, e dirigere i fondi verso quelli che lo facevano. Inoltre, i governi dovevano intraprendere azioni per assicurare un adeguato livello di domanda nell’economia, aumentando la spesa e facendo deficit di bilancio dove necessario.

Il commercio mondiale nel 1932 fu poco più di un terzo di quello che fu prima del Crollo di Wall Street. I due paesi più influenzati furono gli USA, dove la disoccupazione superò i tredici milioni, e la Germania dove si mantenne a sei milioni e aiutò a spingere per la salita al potere di Hitler. In Gran Bretagna più di tre milioni di persone, ossia il venti percento della forza lavoro, nel 1932 erano disoccupate.

I rimedi di Keynes della spesa statale aumentata e dei deficit di bilancio furono messi in pratica dal 1933 in poi negli USA dall’amministrazione dei democratici sotto Roosevelt. La disoccupazione calò per un periodo di tempo, ma non di più di quanto in Gran Bretagna, che non aveva ancora agito in maniera keynesiana e che operò direttamente politiche opposte. Il 1938 vide l’arrivo di una depressione nuova di zecca negli Stati Uniti che diminuì soltanto durante la Seconda Guerra Mondiale. La prognosi iniziale per l’intervento keynesiano non fu perciò buona, anche se l’alternativa del libero mercato sembrava morta e sepolta.

Dopo la seconda guerra mondiale, i vari paesi capitalisti basati sull’impresa privata adottarono le raccomandazioni di Keynes a gradi variabili, essendo guardinghi nei confronti di un’altra possibile Grande Depressione e del tumulto sociale che poteva causare, e fiduciosi che il libero mercato senza impedimenti fosse una cosa del passato. Nonostante ciò, la maggior parte dei paesi continuò con il ciclo economico operando come prima, anche se non c’era nessuna grande depressione. Una delle poche eccezioni fu la Gran Bretagna. Nel Regno Unito la crescita rimase relativamente forte per tutti gli anni ‘50 e ‘60 e la disoccupazione non superò mai le 900.000 unità. I sostenitori delle politiche keynesiane affermarono che fu un trionfo dell’amministrazione della domanda da parte del governo.

La storia susseguente dell’economia in Gran Bretagna fu il provare quanto sbagliate esse fossero. Dopo la guerra la Gran Bretagna aveva raggiunto una posizione relativamente vantaggiosa nel mercato mondiale per molte merci, con i rivali come la Germania e la Francia economicamente devastati. Per del tempo la Gran Bretagna emerse come uno dei maggiori produttori di veicoli a motore, di aeroplani, di prodotti chimici, di corrente elettrica e di altre merci. Per la fine degli anni ‘60, tuttavia, i rivali della Gran Bretagna erano aumentati, facendo competizione sulla base della nuova e migliorata tecnologia che venne introdotta come conseguenza della devastazione del tempo di guerra. Negli ultimi anni ‘60 e nei primi anni ‘70, il classico ciclo economico cominciò a riaffermare se stesso furiosamente sull’economia britannica – alla fine promuovendo un ritorno alle politiche del libero mercato negli anni ‘80. La disoccupazione salì, sfondando la barriera di 1.000.000 per la prima volta dal 1945 sotto il Primo Ministro Edward Health nei primi anni ‘70.

Una Guida Passo dopo Passo

In verità, la sola esistenza della compravendita innalza sempre la possibilità di crisi, ma la spinta ad accumulare capitale – la linfa vitale del capitalismo – assicura che periodicamente le crisi diventino estremamente una realtà, e i politicanti non possono fare nulla per prevenirle. Quando il capitalismo è in fase di boom, le imprese sono in una posizione in cui i loro profitti stanno aumentando, il capitale si sta accumulando e il mercato è affamato di più merci. Ma questa situazione non dura. Le imprese sono in una lotta perpetua per i profitti – hanno bisogno di profitti per essere in grado di accumulare capitale e perciò sopravvivere contro i loro competitori. Durante un boom questo inevitabilmente porta alcune imprese – tipicamente quelle che sono cresciute più rapidamente – a sovraestendere le loro attività per il mercato disponibile.

Nel capitalismo, le decisioni riguardo all’investimento e alla produzione sono prese da migliaia di imprese in competizione che operano senza controllo sociale o regole. La spinta competitiva ad accumulare capitale costringe le imprese a espandere le loro capacità produttive come se non ci fosse alcun limite al mercato disponibile per le merci che stanno producendo.

La crescita non è pianificata ma governata dall’anarchia del mercato. La crescita di un’industria non è collegata alla crescita delle altre industrie ma semplicemente all’aspettativa di profitto, e ciò dà luogo ad accumulazione e crescita sbilanciate fra i vari rami della produzione. L’accumulazione eccessiva di capitale in alcuni settori dell’economia presto appare come una sovrapproduzione di merci. I beni si accumulano, non possono essere venduti, e le imprese che hanno sovraesteso le loro attività devono tagliare sulla produzione.

Come le merci giacciono invendute le rendite e i profitti cadono, rendendo l’ulteriore investimento allo stesso tempo più difficoltoso e meno proficuo. L’accumulazione va in stallo, il risparmio e la tesaurizzazione aumentano e le forze instabili del denaro e del credito presto trasmettono la depressione agli altri settori dell’economia. Quelle che inizialmente erano le imprese sovraestese tagliano sull’investimento e questo porta a una caduta nella domanda per i prodotti dei loro fornitori, i quali a loro volta sono obbligati a tagliare, causando delle difficoltà ai loro fornitori (i fornitori dei fornitori) e così via. I profitti cadono, i debiti crescono e le banche spingono in su i tassi d’interesse e contraggono il loro prestito in una viziosa spirale verso il basso di contrazione economica. In questo modo, ciò che ha inizio come una parziale sovrapproduzione per mercati particolari viene trasformata in sovrapproduzione generale con la maggior parte dei settori dell’industria influenzati.

Le crisi e i crolli immancabilmente seguono questo modello generale. Qualche volta la sovrapproduzione iniziale ha luogo in industrie di beni di consumo, come avvenne nel 1929, e si estende da quel punto. In altri casi, come nella metà degli anni 1970, la sovraestensione iniziale è nel settore dei beni dei produttori dove le imprese producono nuovi mezzi di produzione come l’acciaio industriale o l’apparecchiatura robotica. Nella crisi dei primi anni ‘90 uno dei maggiori fattori fu la sovraestensione del settore della proprietà commerciale e alcune delle appena sorte industrie high-tech. Qualunque sia la causa, il risultato è sempre lo stesso – produzione in caduta, fallimenti in aumento, tagli delle retribuzioni e disoccupazione, con un’annessa crescita nella povertà.

In una crisi vi è simultaneamente un problema di domanda di mercato in caduta accanto ai profitti in declino. Chi prova a occuparsi di un problema (diciamo la domanda dei consumatori) a costo dell’altro (profitti) come hanno fatto i keynesiani, non migliorerà la situazione.

Un numero di cose completamente distinte e separare devono succedere prima che una crisi possa mettere in azione il suo corso. Innanzitutto, il capitale si trova a essere annientato se la capacità produttiva eccessiva deve essere affrontata con capitale svalutato che è comprato a buon mercato da quelle imprese nella migliore posizione per scampare alla crisi. In secondo luogo, facendo in modo che abbia luogo il rifornimento dei bisogni, con merci sovraprodotte accaparrate a buon mercato o ammortizzate completamente. L’investimento non riprenderà, se c’è ancora sovrapproduzione. In terzo luogo, dopo che questo è accaduto vi è la necessità di un incremento del saggio di profitto industriale aiutato sia dai tagli delle retribuzioni reali che dalla caduta dei tassi d’interesse (che decrescono naturalmente quando la domanda per più capitale monetario diventa meno intensa nella crisi). Questo aiuterà a rinnovare l’investimento e ad aumentare l’accumulazione. Inoltre, se si vuole che il recupero sia sostenuto, un’ampia parte del debito fatto durante gli anni del boom dovrà essere liquidata, se non esiste per agire come un erpice sulla futura accumulazione. Attraverso questi meccanismi una crisi aiuta a costruire le condizioni per la futura crescita, liberando il capitalismo delle unità inefficienti di produzione.

Ciclo Continuo

Quando questi processi hanno messo in azione il loro corso, l’accumulazione e la crescita possono iniziare un’altra volta con il capitalismo che crea ancora una situazione di boom che sarà inevitabilmente seguita da una crisi e da un crollo. Questa è stata la storia del capitalismo da quando si è sviluppato per la prima volta. Nessun intervento riformatore da parte dei governi – per quanto sinceri – ha impedito o può impedire a questo ciclo di operare. I sostenitori del laissez faire e il libero mercato hanno fallito e così gli interventisti keynesiani. Oggi, quando si trovano di fronte al ciclo economico, i sostenitori del capitalismo non hanno nulla da gestire.

Il ciclo economico dimostra l’impotenza dei riformisti e dei politici, ed è un ulteriore stato d’accusa del sistema capitalista nel complesso, che porta miseria per milioni di lavoratori i quali perdono i loro lavori, vanno in fallimento o si trovano con le loro retribuzioni ridotte e le loro condizioni di lavoro peggiorate. E lontano dall’essere un’aberrazione, questo ciclo di miseria è il ciclo naturale del capitalismo.

Regno Unito, agosto 1996

Fonti:
(1) Il Capitale – Libro Primo, K. Marx, Capitolo 13 – Macchine e grande industria, Par. 7
(2) Il Capitale – Libro Primo, K. Marx, Capitolo 3 – Il denaro e la circolazione delle merci, Par. 2

(Traduzione da www.worldsocialism.org)

giovedì 22 luglio 2010

Socialismo, Comunismo, Leninismo, Keynesismo

In primo luogo la distinzione tra socialismo e comunismo è un concetto assente in Marx per una ragione molto semplice, tale distinzione è un’invenzione di Lenin. Ma non del Lenin prerivoluzione di ottobre. Tale distinzione infatti è assente nell’articolo dell’“Enciclopedia” su Marx scritto da Lenin alla vigilia della prima guerra mondiale (1914) dove parla solamente di socialismo. Lenin fa questa distinzione tra socialismo e comunismo nel testo “I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione” (1917), affermando che “il socialismo si deve inevitabilmente sviluppare… gradualmente in comunismo”. Egli si riferisce alla nota del manifesto (fine della seconda sezione), identificando il “socialismo” con la “prima fase del comunismo” di Marx (K. Marx, Critica al Programma di Gotha, 1875). L’idea del socialismo come transizione tra capitalismo e comunismo non si basa su testi di Marx (P. Chattopadhyay, Economic Content of Socialism in Lenin, is it the same as in Marx? 1991).
Chiarito questo punto il MSM ci tiene a precisare che Marx non ha dubbi sul fatto che in una società comunista o socialista “il capitale monetario sarà completamente eliminato e insieme con esso saranno eliminati i travestimenti che esso assume nelle operazioni (economiche).” (K. Marx, Il Capitale, vol. II capitolo 2).

La storia chiaramente mostra che il partito bolscevico rovesciò la borghesia russa (utilizzando la questione agraria e il malcontento dei soldati-marinai) diventando una forza dittatoriale. Tale dittatura non fu del proletariato (ovvero della classe dei lavoratori) ma sofferta dal proletariato (imposta ai lavoratori). Il partito formato da un’avanguardia di rivoluzionari di professione non è l’unico “difetto” del leninismo, ma un tratto delineante della sua indole borghese, come direbbe Rosa Luxembrug, “giacobina”. Tale concetto non arriva dalla filosofia marxista, la quale è dalla parte dei lavoratori, ma dalla filosofia borghese Černyševskiana. Lenin sostituisce un’oligarchia dominante con un'altra. Per il lavoratore russo nulla era cambiato dal punto di vista dell’assoggettazione al capitale. La cosa che cambiò veramente fu che con la scusa del socialismo, i lavoratori persero ogni sorta di potere contrattuale: “ogni interferenza diretta dei sindacati nella direzione delle fabbriche dev’essere considerata decisamente dannosa e non permissibile” (V. I. Lenin, Role and Functions of the Trade Unions Under The New Economic Policy, Decision Of The C.C., R.C.P.(B.), 1922) e ancor peggio ogni sorta di diritto umano.

Maestro degli slogan Lenin usò la spontaneità dei consigli (soviet) di cui diffidava per conservare il potere politico. Lenin inoltre adottò a pieno la visione errata della Seconda Internazionale secondo cui il socialismo è una sorta di capitalismo di Stato. Marx aveva parlato di “accentramento di credito nelle mani dello Stato per mezzo di una banca nazionale” (nazionalizzazione), ma questo non era il socialismo ma il passaggio dalla proprietà borghese alla proprietà “degli individui associati” (Manifesto del partito comunista, K. Marx e F. Engels, 1848). Lenin confondeva la proprietà borghese con la proprietà privata in generale. Ciò derivava dal fatto che dal punto di vista economico, quando si atteneva a Marx, Lenin non riusciva a concepire nulla più di quanto era stato già scritto. Lenin creò quindi un sistema centralizzato e burocratico dal quale Stalin ne uscì come una sua naturale creatura.

Per non parlare del fatto che Lenin si oppose aspramente ai marxisti che coerentemente ritenevano che un paese arretrato come quello russo non poteva saltare la fase capitalistica, riconoscendo poi con la NEP l’errore… “Noi…pensavamo di stabilire – direttamente comandato dallo stato proletario – lo stato di produzione e distribuzione dei prodotti su linee comuniste in un piccolo paese di contadini. La vita ha mostrato il nostro errore” (per la fonte vedi P. Chattopadhyay, Economic Content of Socialism in Lenin, is it the same as in Marx? 1991). Non considerando che quando interpellato sul merito da Vera Ivanovna Zassulich, Marx si era mostrato molto cauto, affermando che “l’inevitabilità storica di questo processo è quindi esplicitamente limitato ai paesi dell’Europa Occidentale […] L’analisi nel “Capitale” non contiene una sola prova – né a favore né contro la vitalità della comunità di villaggio. Ma lo studio speciale che ho condotto sull’argomento e per il quale ho fatto uso di materiale originale, mi ha dato la convinzione che questa comunità di villaggio è alla base della rinascita della società Russa.” (K. Marx, Lettera di Karl Marx a Vera Ivanovna Zassulich, 1881).
Per quanto riguarda il valore, quando i mezzi di produzione e di distribuzione della ricchezza diventano proprietà comune dei produttori socializzati la legge del valore perde di senso, “tutta l’economia o è regolata dalla legge del valore o non è regolata dalla legge del valore. Non è possibile dire con Stalin, per esempio, che la legge del valore regola la sfera del consumo ma non la sfera della produzione; la legge o regola l’intera economia o non ne regola neppure una parte” (P. Mattick, Marx e Keynes, i limiti dell’economia mista, 1972). Inoltre, in accordo con Marx, il MSM ritiene che il modo di distribuzione dipende dal modo di produzione.

Il MSM ribadisce che come il keynesismo non favorisce il passaggio dal capitalismo al socialismo dal punto di vista economico non lo favorisce neanche dal punto di vista sociale.
Il keynesismo mette gli interessi dell’economia borghese in generale davanti agli interessi dei singoli capitalisti. Lo Stato (borghese) è lo strumento attraverso il quale tale mediazione, economia generale-singolo capitalista, avviene. Il keynesismo è applicato dalla classe capitalista fin quando è in grado di assicurare la realizzazione di profitto.
Anche se Keynes ha elaborato la sua teoria per il capitalismo maturo (paesi economicamente sviluppati) tale teoria ha effetti anche sui precapitalismi e/o capitalismi sottosviluppati.
Nel capitalismo maturo lo Stato, mediante la tassazione, le imprese statali e il prestito, finanzia, con il debito pubblico, le opere pubbliche a spese del capitale privato. Tale interevento statale è atto a diminuire temporaneamente la disoccupazione e aumentare temporaneamente il consumo (domanda effettiva) rilanciando, nel migliore dei casi, temporaneamente l’economia. Il capitale privato in primis perde, finanziando il debito, ma in secundis, se l’economia si riattiva adeguatamente vince su due fronti, in quanto creditore e in quanto produttore. Ovviamente il keynesismo non si è rivelato, dal punto di vista capitalista, infallibile e per questo ha subito critiche e trasformazioni.
Comunque in linea di principio nei paesi sviluppati un intervento keynesiano vincente allontana temporaneamente i lavoratori di tali paesi dalla necessità di organizzarsi in classe al fine di lottare contro il capitale in crisi.
“Insistendo sul fatto che solo il volume e non la direzione della produzione si doveva sottoporre alla pianificazione statale, Keynes faceva intendere di non aver interesse a modificare gli esistenti rapporti di classe ma di voler solo rimuovere le tendenze pericolose nei periodi di crisi” (P. Mattick, Marx e Keynes, i limiti dell’economia mista, 1972).
Keynes non si occupa direttamente dei paesi economicamente sottosviluppati, egli ritiene che “la collettività sarà propensa a consumare la massima parte della produzione, cosicché basterà un volume molto modesto di investimento per assicurare un’occupazione piena” (J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, 1936).
La disoccupazione nei paesi sottosviluppati non è però dovuta all’abbondanza di capitale ma alla sua scarsità quindi la teoria keynesiana non è pedissequamente applicabile. Gli investimenti di cui Keynes parla non sono una sua invenzione economica, ma sono frutto della tendenza naturale del capitalismo a investire capitale per ottenere più capitale.
Il capitale privato investito nei paesi sottosviluppati è generalmente estero e generalmente sottrae le risorse naturali da tali paesi. Anche le sovvenzioni, chiamati aiuti economici, che vanno nella costruzione di infrastrutture di questi paesi aiutano principalmente il capitale privato che si serve di tali infrastrutture.
A questo punto lo sviluppo di capitale nei paesi poveri viene ottenuto attraverso l’aumento della produzione che grazie all’intervento dello Stato (keynesianamente), il quale aumenta l’inflazione monetaria, tiene basso il consumo locale di tali prodotti e genera profitto nei paesi ricchi.
Questo amplia il divario tra i pochi ricchi e le masse di poveri che in questi paesi sottosviluppati è ancora più accentuato.
Se nei paesi sviluppati il keynesismo, finché funziona, imborghesisce i lavoratori, nei paesi sottosviluppati non crea le basi per un miglioramento delle masse povere le quali non hanno alcun potere contrattuale quindi alcuna possibilità di lottare convincentemente contro il capitale, nel loro caso classe dominante locale e capitale estero.
La ragione per la quale si ha il divario tra i movimenti dei lavoratori degli anni passati e quelli odierni non è il keynesismo ma la riduzione del potere contrattuale determinata dalla globalizzazione del mercato del lavoro.

Mattick, come il MSM, va oltre la critica dell’avanguardismo leninista, egli critica la mancanza dei seguenti concetti marxisti:

  1. “L’emancipazione della classe lavoratrice deve essere il lavoro della classe lavoratrice stessa”.
  2. La dittatura del proletariato non è la dittatura del Partito, com’era inteso da Lenin.
  3. Il socialismo è una società in cui i mezzi di produzione sono della società nel complesso (e non dello Stato/Partito), dove non ci sono classi sociali, quindi niente lavoro salariato, denaro e divisione del lavoro. Il socialismo non è quindi una fase (capitalismo di Stato) di passaggio dal capitalismo al comunismo.
  4. Democraticità del movimento dei lavoratori, che non è quindi gerarchico-centralizzato come quello bolscevico dove il leader è indiscusso e infallibile.
  5. Contro il culto della personalità, per un approccio scientifico e non dogmatico.
Di buono in Lenin c’è davvero poco e se si legge attentamente Mattick o gli scritti del Socialist Party of Great Britain (SPGB), si può notare chiaramente il riconoscimento soprattutto della sua battaglia contro il revisionismo della Seconda Internazionale.
Il MSM ha avuto origine dal SPGB, il quale esiste dal 1904 e deriva direttamente dal Social Democratic Federation (SDF) (1884), che annovera tra i suoi membri William Morris, Edward Aveling e Eleanor Marx.
La politica del MSM non è quella di “cancellare tutto”, ma sicuramente non quella di farsi corrompere dal giacobinismo piccolo borghese. Il MSM è dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati che ogni giorno sono alla mercé del capitale. Il MSM ha una struttura democratica dove non esistono leader.