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mercoledì 26 dicembre 2018

Rosa Luxemburg e l’opposizione marxista al leninismo

Durante la cosiddetta "rivolta di gennaio", iniziata il 6 gennaio di cento anni fa, Rosa Luxemburg viene rapita e poi assassinata, insieme a Karl Liebknecht, dai soldati dei famigerati Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del premier social-democratico Friedrich Ebert e del ministro della Difesa Gustav Noske. Il corpo di Rosa, gettato in un canale di Berlino, è recuperato solo il 31 maggio e sepolto nel cimitero centrale di Friedrichsfelde. Si sa per certo che il brutale assassinio avviene il 15 gennaio.

Da questo momento inizia un vero e proprio processo di “beatificazione” per la rivoluzionaria polacco-tedesca portato avanti dalla Sinistra mondiale delle più varie sfumature: già nel 1926 a lei, Karl Liebknecht, Leo Jogiches e Franz Mehring viene dedicato un monumento del famoso architetto Ludwig Mies van der Rohe, commissionato dal Partito Comunista Tedesco (la KPD) di stretta osservanza moscovita. Successivamente, con la fondazione della Repubblica Democratica Tedesca nel 1949 all’interno della zona di occupazione sovietica della Germania sconfitta, praticamente tutto viene intitolato alla memoria di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht: vie, piazze, scuole, biblioteche, musei, perfino monete e francobolli. Il messaggio è molto chiaro ed elementare (benché, come vedremo in seguito, completamente falso): le idee rivoluzionarie della Luxemburg sono sopravvissute alla sua morte nel programma della KPD e si sono poi finalmente concretizzate nella Germania “socialista”, resa possibile dalle baionette russe dopo il crollo del regime nazista.
Ma vi è anche un altro uso, senz’altro più scaltro e intellettualmente sofisticato, ma non per questo più autentico, dell’eredità politica luxemburghiana. Quando diviene chiaro, ad opera soprattutto dei lavori del comunista libertario Daniel Guérin (1971), che il pensiero di Rosa Luxemburg è per moltissimi aspetti irriducibile alla vulgata marxista-leninista di Mosca o di Pechino, ella viene assunta da vari gruppi socialdemocratici critici e “di sinistra” come l’emblema della cosiddetta “Terza Via”, equidistante dal “socialismo reale” sovietico o cinese e dal riformismo socialdemocratico dell’Europa Settentrionale. Campione di questa tendenza in Italia è il dirigente del PSI prima (e del PSIUP poi) Lelio Basso, figura culturalmente molto significativa nel trentennio ’50-‘70, ma alquanto inquieta e oscillante tra un socialismo democratico “radicale” e un comunismo critico “dal volto umano”, con venature anche di operaismo e di terzomondismo. E una tale apologia luxemburghiana da parte dei “riformisti di sinistra” continua ancora oggi: gli esponenti del partito della "Sinistra Europea'', nato proprio a Berlino il 10 gennaio 2004, come primo atto ufficiale si sono recati in pellegrinaggio sulla tomba di Rosa Luxemburg per rivendicare la supposta continuità tra il loro progetto politico e quello della grande rivoluzionaria polacco-tedesca.
Ma chi è davvero questa donna eccezionale che con i suoi scritti e le sue azioni sembra riscuotere un consenso generale nella Sinistra degli ultimi cento anni, mettendo apparentemente insieme lo stalinista Walter Ulbricht, il socialista “di sinistra” Lelio Basso, l’anarco-comunista Daniel Guérin e il comunista dei consigli Paul Mattick, in un modo tale che forse solo un gigante del pensiero come Marx potrebbe fare?
E, soprattutto, se non fosse stata crudelmente massacrata a soli 47 anni, cosa avrebbe pensato del “socialismo reale” edificato dai comunisti ufficiali, o, più in generale, della ideologia dogmatica e totalitaria del cosiddetto “marxismo-leninismo”?
Nelle poche pagine che seguono cercheremo di dare una risposta sincera e senza preconcetti a questi interrogativi arrivando alla conclusione, probabilmente per molti un po’ provocatoria, che è forse proprio il “World Socialist Movement” (WSM), pur con tutte le differenze e i distinguo del caso, a essere il raggruppamento politico di oggi più autenticamente “luxemburghiano”. Paradossalmente utilizzeremo per le citazioni di Lenin parte di un vecchio e misconosciuto articolo telematico (“Chi era Rosa Luxemburg?”, http://www.pmli.it/chieraluxemburg.htm) di un piccolo raggruppamento maoista italiano (il PMLI) che, proprio a causa del suo estremismo settario (agli antipodi del WSM in tutto), riesce ad essere veritiero almeno in un punto: la pluriennale opposizione tra Lenin e la Luxemburg.

sabato 4 novembre 2017

Cento anni dal colpo di Stato bolscevico in Russia

In occasione del centesimo anniversario del colpo di Stato bolscevico in Russia (precisamente il 7 novembre del 1917, secondo il calendario gregoriano), il Movimento Socialista Mondiale pubblicherà una serie di articoli al fine di analizzare, il contesto storico, l'impatto sul socialismo marxista e la classe dei lavoratori, l'influenza sui socialisti in Italia che tale presa del potere ebbe e tuttora ha. A seguire la traduzione a cura di D.C. dell'articolo uscito sul numero di Ottobre 2017 dello Standard, che chiaramente mostra i limiti della visione leninista del marxismo.


La Russia è mai stata socialista? 

Esaminiamo la reazione del Partito Socialista della Gran Bretagna al colpo di stato bolscevico e descriviamo l’analisi della Russia Sovietica iniziata per primo da questo partito.


Introduzione

L’apparente trionfo dei bolscevichi nella Russia arretrata del 1917 mise in subbuglio il movimento marxista. Inoltre, varie organizzazioni politiche in Europa e in America Settentrionale, precedentemente impotenti, si mostrarono maggiormente colpite dal rapido e inatteso successo di alcuni rivoluzionari nel mezzo di una cruenta guerra mondiale, che preoccupate per il potenziale impatto di quest’evento sugli elementi centrali della teoria marxista (come erano stati sempre compresi in precedenza).
Contrariamente alla leggenda il Partito Socialista della Gran Bretagna divenne inizialmente preda proprio di questo sentimento come altri partiti della sinistra radicale, lodando i tentativi riusciti da parte dei bolscevichi di allontanare la Russia da quella carneficina che fu la Prima Guerra Mondiale. Riguardo a ciò che stava accadendo in Russia a un livello più profondo, il Partito Socialista della Gran Bretagna era più scettico. In effetti quello che attirava la nostra attenzione più di ogni altra cosa erano le affermazioni stravaganti, fatte per conto dei bolscevichi dai loro sostenitori in Gran Bretagna, sull’ “Ottobre Rosso” (i primi di novembre secondo il calendario gregoriano). La prima analisi dettagliata della situazione russa, scritta da Jack Fitzgerald, apparve sul “Socialist Standard” nel numero dell’agosto 1918 con il titolo: “La Rivoluzione in Russia – Dove fallisce”. Affrontava le pretese dell’allora “Socialist Labour Party” (di Gran Bretagna), sottolineando perché la presa del potere bolscevica non avrebbe potuto condurre all’instaurazione del socialismo in Russia. L’articolo si domandava:

“È pronta per il socialismo questa massa enorme di gente, circa 160 milioni, sparsa su otto milioni e mezzo di miglia quadrate? E i cacciatori del Nord, i piccoli proprietari contadini in rivolta nel Sud, gli schiavi-salariati agricoli delle Province Centrali e gli schiavi-salariati industriali delle città sono forse convinti della necessità d’instaurare la proprietà sociale dei mezzi di sostentamento e forniti delle conoscenze necessarie allo scopo? A meno che una rivoluzione mentale di un’ampiezza siffatta che il mondo non l’abbia mai vista abbia preso piede, o un cambiamento economico immensamente più rapido di ciò che la storia abbia mai registrato sia accaduto, la risposta è ‘No!’ (…). Quale giustificazione ci potrebbe essere, quindi, per definire la sollevazione avvenuta in Russia una ‘rivoluzione socialista’? Nessuna, al di là del fatto che i capi del movimento di novembre si definiscono ‘socialisti marxisti’.”

In effetti, col tempo, il Partito Socialista della Gran Bretagna arrivò a identificare cinque ragioni principali per cui l’edificazione del socialismo in Russia da parte dei bolscevichi sarebbe stata impossibile:

·   In primo luogo, come già indicato da Fitzgerald, la coscienza socialista di massa, necessaria prima di una rivoluzione socialista vittoriosa, era palesemente assente in Russia, come altrove. Fitzgerald faceva propria un’osservazione di Litvinov, il quale suggeriva che i bolscevichi non conoscessero veramente il punto di vista dell’intera classe lavoratrice quando assunsero il comando, ma solo quello di alcuni suoi settori come, per esempio, quello degli operai industriali di Pietrogrado.

·    In secondo luogo non era neanche il caso che la classe lavoratrice fosse la maggioran- za numerica in Russia, una società dominata dall’economia rurale. Come può essere portata a termine una rivoluzione socialista maggioritaria quando i lavoratori sono una minoranza e la classe sociale più grande è costituta da contadini analfabeti? Anche se l’analfabetismo non impedisce in modo assoluto il diffondersi della comprensione del socialismo, certo, lo rende più difficile. In ogni caso i contadini si sono da sempre mostrati più interessati a liberarsi dal pesante fardello delle tasse sulla terra e ad accrescere la dimensione dei loro appezzamenti piuttosto che a domandare la proprietà comune.

·   In terzo luogo il socialismo non potrebbe esistere in una nazione economicamente arretrata dove in mezzi di produzione non siano sufficientemente sviluppati da poter sostenete un sistema socialista di distribuzione.

·      In quarto luogo, e ciò è veramente cruciale, non è possibile costruire il socialismo in un solo paese, data la natura del capitalismo quale sistema economico mondiale con una divisione del lavoro su scala planetaria. Un ‘socialismo in un solo paese’, isolato, sarebbe destinato al fallimento a prescindere dalle lodevoli intenzioni dei rivoluzionari in esso coinvolti.

·  La quinta ragione avanzata per sostenere la natura non-socialista della Russia bolscevica andava, invece, proprio alla radice delle nostre differenze politiche con il bolscevismo: il socialismo non si sarebbe potuto raggiungere seguendo dei capi (illuminati o meno che fossero).


Il Capitalismo di Stato

In assenza di una rivoluzione socialista mondiale, realisticamente, ci poteva essere solo una via di sviluppo per la Russia semi-feudale: la via del capitalismo. Con la virtuale eliminazione della gracile borghesia russa, per i bolscevichi era stato necessario sviluppare l’industria attraverso la proprietà statale delle imprese e l’accumulazione forzata di capitale. In “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” [1], scritto appena prima della rivoluzione, Lenin aveva delineato proprio quest’approccio alla crisi russa. Secondo questo documento Lenin immaginava che le misure immediate necessarie avrebbero comportato la nazionalizzazione delle banche esistenti e la formazione di una sola banca di stato, insieme alla nazionalizzazione delle compagnie assicurative, dei monopoli e di tutte le altre realtà industriali fondamentali. Il “Socialist Standard” colse subito l’opportunità di porre in dubbio l’ipotetica applicabilità generale delle azioni bolsceviche in Russia, in questo caso lo sviluppo del “capitalismo di stato” come precondizione per l’instaurazione del socialismo:

“Se dovessimo copiare la politica bolscevica, dovremmo domandare il capitalismo di stato, che non è un passo in avanti verso il socialismo nei paesi capitalisti avanzati. Resta il fatto, come anche Lenin ha dovuto confessare, che non dobbiamo imparare dalla Russia, ma la Russia deve imparare dai paesi dove la produzione su ampia scala è dominante (“Un punto di vista socialista sulla politica bolscevica”, luglio 1920).

Come da noi evidenziato con gran pena ai nostri oppositori filo-bolscevichi, Lenin ammise che la formazione sociale della Russia sovietica era essenzialmente capitalistica di stato, sebbene sotto la direzione e il controllo di un cosiddetto “stato proletario” guidato da un partito d’avanguardia di rivoluzionari professionisti. Per Lenin la natura della politica rivoluzionaria era il determinante cruciale del tipo di sistema sociale esistente. Senza ciò che Lenin definì “democrazia rivoluzionaria”, i monopoli capitalistici di stato sarebbero rimasti solo espressioni di un capitalismo di stato. Con il controllo operaio della produzione e il controllo dello stato proletario da parte del partito di avanguardia della classe lavoratrice, però, il socialismo sarebbe divenuto una realtà. Secondo “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” il socialismo sarebbe semplicemente “i monopoli capitalistici di stato usati per servire gli interessi di tutto il popolo”.

Oltre vent’anni dopo la presa del potere bolscevica eravamo rimasti scettici sul fatto che il capitalismo di stato fosse realmente socialismo, anche se presieduto da coloro che si proclamavano socialisti:

“… le caratteristiche principali del capitalismo [in Russia] non sono scomparse e non sono in procinto di farlo. Le merci non sono prodotte per l’uso ma per la vendita a quelli che hanno denaro per acquistarle, come negli altri paesi. I lavoratori non sono membri di un sistema in cui i mezzi di produzione della ricchezza siano posseduti e controllati socialmente, ma sono salariati impiegati dallo stato o da imprese para-statali ecc. Le  imprese di stato russe non sono ‘socialmente possedute’ più delle Poste Britanniche, dell’Ente Centrale per l’Elettricità [del Regno Unito], o di ogni altra compagnia privata (…). Il tentativo bolscevico d’introdurre il socialismo mediante ‘decreti legali’ o ‘coraggiosi balzi in avanti’ prima che le condizioni economiche siano mature e prima che la gran massa della popolazione desideri il socialismo, è stato un totale fallimento. Con il tempo questo fallimento diverrà ovvio ai lavoratori dentro e fuori dalla Russia” (“Domande del giorno d’oggi”, 1942).

Il capitalismo, basato sulla separazione tra i produttori e i mezzi di produzione, non era stato abolito e non sarebbe potuto esserlo. La produzione aveva ancora luogo nella forma di un sistema di scambi basato sulla circolazione dei capitali. Il capitale si espandeva in conseguenza dello sfruttamento del lavoro salariato e i beni erano ancora prodotti per la vendita sul mercato in vista della realizzazione di un plusvalore. In effetti, molto dell’analisi iniziale del Partito Socialista della Gran Bretagna dedicata alle basi economiche del sistema sovietico rifletteva l’intento di dimostrare le somiglianze tra il capitalismo di stato russo e il capitalismo britannico, basato sulle imprese private, con cui il partito era più familiare.


Chi è la classe capitalista?

Col tempo, mentre era chiaro che il capitalismo di stato in Russia (e poi nei suoi vari paesi satelliti) manteneva tutte le caratteristiche essenziali del capitalismo, rimanevano anche evidenti differenze, benché superficiali. Una, ad esempio, era legata a chi fosse la classe capitalista in Russia, dato che i sostenitori di questo sistema spesso sostenevano che non potesse realmente esistere il capitalismo in Russia dato che non c’era una classe capitalista nel senso tradizionale del termine. Eppure in realtà esisteva una classe capitalista di questo tipo, come mostrato dall’opuscolo “Milionari Sovietici” di Reg Bishop del 1940, insieme a un settore privato che affiancava le maggiori istituzioni e le compagnie possedute dallo stato, nonostante fosse alquanto marginale.
Ad ogni modo era chiaro che il potere e il controllo effettivi (comprese le decisioni economiche) erano tutti concentrati in un potente gruppo di burocrati dirigenti che godevano di uno stile di vita privilegiato e di alti stipendi ottenuti dalla loro posizione al vertice della gerarchia sovietica. Questa classe dirigente non poteva essere semplicemente equiparata ai sovrintendenti e ai manager interni al capitalismo a cui si riferiva Marx, i quali ricevevano uno stipendio basato sulla quantità di beni necessaria per produrre e riprodurre la loro forza-lavoro. All’opposto, questa classe di burocrati in Russia stava usando la sua posizione di controllo per compiere le stesse funzioni espletate dai capitalisti individuali nelle prime fasi dello sviluppo capitalista e per impossessarsi di entrate privilegiate ricavate dal plusvalore. Benché non avesse titoli legali sui mezzi di produzione e non fosse in grado di cederne o passarne la proprietà, era chiaramente una classe possidente del tipo menzionato nella nostra Dichiarazione dei Principi, che esercitava un “monopolio … della ricchezza estorta ai lavoratori”. Questa classe capitalistica di stato, come la classe capitalista dei proprietari privati in occidente, era privilegiata nei consumi ricevendo stipendi “gonfiati” che non erano il prezzo della loro forza-lavoro, ma una quota del plusvalore totale creato dalla classe lavoratrice. Ed erano anche privilegiati per via di una moltitudine di vantaggi, benefici e bonus solo a loro disponibili, compreso l’accesso a esercizi commerciali esclusivi come negozi e ristoranti di lusso da cui la classe lavoratrice era addirittura fisicamente esclusa.

L’opinione prevalente nel Partito Socialista della Gran Bretagna fu che la natura di classe non potesse venir determinata dalle sole forme legali o dai metodi di selezione (infatti la classe possidente sovietica non veniva selezionata ereditariamente, ma tramite altri metodi, più meritocratici, che non erano stati del tutto inusuali nelle altre classi possidenti della storia). Così, in definitiva, il partito concluse che, nonostante la classe capitalistica di stato non avesse titoli legali di proprietà sui mezzi di produzione, tuttavia costituiva ugualmente una classe in grado di esercitare una proprietà collettiva sui mezzi di produzione e di distribuzione. Ciò che venne giudicato di primaria importanza fu, quindi, la realtà sociale del capitalismo piuttosto che una sua particolare forma legale: gli oppositori della teoria del capitalismo di stato non erano mai stati capaci di vedere al di là di quest’ultima.


La teoria del capitalismo di stato

Il Partito Socialista della Gran Bretagna fu il primo gruppo politico nel Regno Unito, e probabilmente nel mondo, a identificare la direzione capitalistica di stato presa dalla Russia sotto la dittatura del partito comunista, benché molti altri giunsero nel corso del tempo alla stessa conclusione, anche se non sempre per le medesime ragioni.
Diversamente da noi la gran parte di questi gruppi restava nel solco della tradizione leninista o, per lo meno, si mostrava interessata a identificare alcuni aspetti positivi nella presa del potere bolscevica i quali, in futuro, sarebbero potuti essere usati dal movimento socialista in altre situazioni. In particolare, la concezione leninista del socialismo come proprietà e direzione statali dell’economia sotto il controllo di un partito di avanguardia operante tramite lo strumento politico dei consigli operai era acriticamente accettata dalla maggioranza di questi gruppi. Di conseguenza essi attribuirono solo in seguito la caratteristica di “capitalismo di stato” alla Russia, quando ritennero che la proprietà statale non coincidesse più con la “democrazia proletaria” e con il potere dei soviet. Questa fu essenzialmente l’analisi proposta inizialmente dai “comunisti dei consigli” tra cui, per esempio, Otto Rühle che vide nella repressione dei soviet l’ascesa del “despotismo dei commissari” e del capitalismo di stato (Rühle stesso, più tardi, comprese l’inadeguatezza di questa posizione e giunse a concepire la nazionalizzazione e la regolazione da parte dello stato come intrinsecamente “capitalistiche di stato”). Il maggiore gruppo della “Sinistra Comunista” in Europa, la KAPD tedesca [2], sviluppò una prospettiva simile. Identificò il capitalismo con la proprietà privata (specificamente non-statale) dei mezzi di produzione e, come la “Workers’ Socialist Federation” (anch’essa “comunista dei consigli”) in Gran Bretagna, lodò i bolscevichi per la loro costruzione del socialismo nei centri industriali della Russia. In seguito la KAPD divenne fortemente critica del sistema bolscevico dopo la repressione finale dei soviet e l’introduzione della cosiddetta “Nuova Politica Economica”, che, sosteneva la KAPD, annunciava un “regresso verso il capitalismo”.

Nonostante gli eccessi iniziali della “Sinistra Comunista” e dei gruppi dei “comunisti dei consigli” che invariabilmente lasciarono che l’ammirazione per la forma politica dei soviet dominasse le loro analisi, forse il peggior esempio di socialismo concepito come la combinazione di proprietà statale più “democrazia rivoluzionaria” venne dai trotzkisti. Ironicamente le teorie trotzkiste sul capitalismo di stato, pur essendo le più deboli, sono le più note. C. L. R. James e Raya Dunayevskaya del “Socialist Workers’ Party” statunitense furono i primi trotzkisti a separarsi dallo stesso Trockij e ad attribuire all’URSS una natura capitalistica di stato, benché la teoria forse più nota sia quella elaborata da Tony Cliff e fatta circolare come documento di discussione all’interno del Partito Comunista Rivoluzionario della Gran Bretagna nel periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, prima di venir pubblicata con il titolo: “Russia, un’analisi marxista”.
Cliff, che era la vera guida dietro ciò che sarebbe poi divenuto l’SWP britannico [3], sostenne che le sue ragioni per dividersi dai trotzkisti ortodossi, identificando l’Unione Sovietica con il capitalismo di stato, fossero abbastanza semplici:

“Quando giunsi alla teoria del capitalismo di stato non vi arrivai attraverso lunghe analisi [sulla sopravvivenza] della legge del valore in Russia … Niente di tutto ciò. Vi arrivai con la semplice constatazione che … non si può avere uno stato operaio senza che i lavoratori abbiano il potere di determinare ciò che avviene nella società” (intervista a “The Leveller”, 30 settembre 1979).

In realtà Cliff era stato pesantemente influenzato dal suo compagno trotzkista Jock Haston circa le opinioni del Partito Socialista della Gran Bretagna sull’esistenza del capitalismo di stato in Russia al posto del socialismo o del cosiddetto “stato operaio”; ma Cliff non sarebbe mai stato in grado abbandonare del tutto le prospettive di Lenin e di Trockij. In effetti l’analisi di Cliff era profondamente radicata nell’idea che l’URSS fosse una forma di “stato operaio” prima che il “Piano Quinquennale” di Stalin, nel 1928, instaurasse la burocrazia come nuova classe consumatrice di plusvalore. Come tutti i trotzkisti, Cliff non identificò l’URSS con una società in via di sviluppo secondo le linee guida del capitalismo di stato già dal 1917, ma soltanto a partire dall’ascesa al potere di Stalin. Sotto Lenin la Russia sarebbe stata, ipoteticamente, una società in transizione dal capitalismo al comunismo, fondata sul potere della classe lavoratrice. Per Cliff un cambiamento visibile di controllo politico condurrebbe a una mutazione fondamentale della struttura economica, a quello che, in effetti, arriverebbe a essere un “regresso verso il capitalismo”.
Forse sorprendentemente, furono proprio i trotzkisti che restarono fedeli alle opinioni di Trockij (nel periodo dell’esilio) sulla Russia vista come uno “stato operaio degenerato” che mossero le critiche più pertinenti all’analisi di Cliff, in particolar modo alle sue conclusioni che la struttura del sistema sovietico fosse cambiata nel 1928 e avesse assunto basi capitalistiche. Il primo di questi critici fu il rivale trotzkista britannico Ted Grant (fondatore di ciò che poi divenne “The Militant” [4]) che scrisse:

“Se la tesi del compagno Cliff fosse corretta, ossia che in Russia oggi ci sia il capitalismo di stato, allora non si potrebbe evitare la conclusione che il capitalismo di stato esista dai tempi della rivoluzione russa e che la funzione stessa della rivoluzione sia stata quella di introdurre questo sistema di capitalismo di stato nella società. Perché, nonostante i suoi strenui sforzi per tracciare una linea di demarcazione tra le basi economiche della Russia prima e dopo il 1928, tali basi economiche sono rimaste immutate (…) il denaro, la forza-lavoro, l’esistenza della classe lavoratrice, il plusvalore ecc. sono tutti relitti del vecchio sistema capitalista sopravvissuti perfino sotto il regime di Lenin (…) la legge del valore si applica, e deve potersi applicare, fino a che non vi sia un accesso diretto ai prodotti da parte dei produttori” (“Contro la teoria del capitalismo di stato”, 1949).

Questa conclusione fu certamente rifiutata da Cliff e dagli altri teorici trotzkisti del capitalismo di stato, benché ovviamente, non da noi. Oggi molti gruppi politici di “comunisti dei consigli”, di “comunisti di sinistra” e di trotzkisti identificano la Russia sovietica, sicuramente nel periodo successivo a quello di Lenin, con una realtà essenzialmente a capitalismo di stato e, come noi, hanno applicato la loro analisi della società russa ad altri paesi “socialisti” con caratteristiche simili in Asia, Africa e America Centrale. Il non esser soli nell’identificare la natura capitalistica dell’URSS ovviamente non indebolisce la nostra posizione di unica organizzazione che promosse un’analisi basata sul capitalismo di stato degli eventi della Russia all’epoca del loro accadimento e non, solamente, con il senno di poi. Ma quello che è più importante è che rimaniamo una delle poche organizzazioni impegnate a sostenere una tale critica all’URSS (e ai regimi simili) che non abbia mai cercato di adottare o di promuovere l’avanguardismo leninista che, così chiaramente, condusse proprio a questo sbocco capitalistico di stato.

DAP

(da “Socialist Standard” n. 1358, Ottobre 2017, traduzione italiana a cura del blog “Movimento Socialista Mondiale”).


NOTE

[1] “La catastrofe imminente e come lottare contro di essa” (del 10-14 settembre 1917) in V. I. Lenin, Opere, vol. 25 (Editori Riuniti, Roma, 1967).
[2] Kommunistische Arbeiterpartei Deutschlands (“Partito Comunista Operaio di Germania”), attivo dal 1920 al 1933.
[3] “Socialist Workers’ Party” (“Partito Socialista dei Lavoratori”), partito trotzkista britannico fondato nel 1950 e ancora esistente.
[4] “The Militant” (“Il Militante”) fu il giornale dell’ala trotzkista del Partito Laburista britannico nota come “Militant Tendency” nel periodo 1964-1991. Dopo l’espulsione proseguì come rivista autonoma fino al 1997.

              

lunedì 15 maggio 2017

La Frazione della sinistra comunista italiana

Con questo articolo continuiamo la serie sul Giovane Bordiga illustrando la sua influenza politica determinatasi nella Frazione della sinistra comunista fino alla sua dissoluzione con la fondazione del Partito Comunista Internazionalista. Bordiga e la sinistra italiana accettarono la rivoluzione bolscevica di Ottobre come loro nuovo punto di riferimento. La loro intransigenza contro ogni tipo di corruzione della dottrina marxista, ogni tipo di collaborazione tra classi, e in alcuni casi con i sindacati, però li farà etichettare dagli stessi bolscevichi come infantili estremisti, settari e dottrinari. Comunque leninisti, i sinistri italiani saranno tra i primi a denunciare negli anni 20 la degenerazione politica del partito bolscevico, e alla fine negli anni 30, la degenerazione economica dell’Unione Sovietica. Nonostante ciò rimarranno ancorati al centralismo e alla coercizione delle masse. Questo articolo si concluderà con la citazione della risposta di Melvin Harris del nostro Partito, alla sinistra comunista, il quale taglierà corto sulla questione della degenerazione della rivoluzione russa. Questa non fu una rivoluzione Socialista, dice, ma condotta da una partito che era giacobino nella struttura e nel fine.

La sinistra comunista italiana storicamente origina dalla frazione intransigente rivoluzionaria presente all’interno del Partito Socialista Italiano (PSI). Questa frazione, come visto nel precedente scritto sul Giovane Bordiga, si opponeva a Filippo Turati e ai riformisti. Nel 1911 l’ex-operaista Costantino Lazzari aveva pubblicato “I principi e metodi del Partito Socialista Italiano” difendendo l’originale programma di partito del 1892 dalle degenerazioni riformiste. In termini semplicistici possiamo trovare in questo l’origine del concetto dell’invarianza del Programma del partito comunista, ovvero il leitmotiv, di Bordiga.  

Nell’Ottobre del 1917 il colpo di mano bolscevico alla rivoluzione russa, divise presto la frazione intransigente. Se i così detti riformisti di Turati, come Rodolfo Mondolfo, erano dell’opinione che la rivoluzione bolscevica era contro le condizioni oggettive storiche per instaurare il Socialismo, la frazione intransigente del PSI si divise tra astensionisti e massimalisti. Gli astensionisti si organizzarono nella “Frazione Comunista” fondata di fatto da Bordiga, subito prima del decisivo XVI Congresso del partito tenutosi a Bologna nell’Ottobre del 1919. La frazione era contro l’uso dello strumento elettorale in quanto spreco di preziose risorse rivoluzionarie, legittimazione dei riformisti, e fonte di corruzione degli intransigenti eletti. I massimalisti erano invece allo stesso tempo sia per la partecipazione elettorale che per la rivoluzione violenta. Alla luce dei fatti di Russia, Germania e Ungheria, durante il XVI Congresso del PSI i massimalisti riscrissero il programma originale del 1892 in uno più genuinamente rivoluzionario, il contributo di Bordiga fu però ridimensionato. Malgrado l’opposizione di Lazzari e Turati, il Partito votò per l’ingresso nella Terza Internazionale (Comintern). Il nuovo capo di fatto, anche se non segretario, divenne Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’Avanti. Bordiga fu molto critico nei sui riguardi perché considerava la sua posizione ipocrita, ovvero sostenitrice dell’azione parlamentare e allo stesso tempo conclamatrice della rivoluzione di classe e dell’unità di partito. Unità di partito che avrebbe significato coesistere con i riformisti di Turati. Tuttavia, la politica unitaria di Serrati, diede in qualche modo, dei frutti, ovvero il 30,4% dei voti per il PSI, alle elezioni del 1919. 

domenica 7 maggio 2017

Imperialismo: dove Lenin sbagliò

Abbiamo tradotto questo recente articolo pubblicato sul Socialist Standard n. 1353 di Maggio 2017, non solo perché ne condividiamo a pieno il contenuto, ma anche perché riteniamo che sia un elemento di analisi importante per ridare credito al socialismo marxista. Considerare personaggi del passato, come del presente del resto, infallibili o allo stesso modo dei completi falliti non è mai realistico. Il Movimento Socialista Mondiale ha spesso pubblicato materiale anti-leninista, ma questo non va letto come un voler screditare l’uomo politico, il rivoluzionario o il socialista a prescindere da tutto. E’ importante però analizzare la sua opera e le sue azioni con gli strumenti forniteci dal materialismo storico. Secondo il nostro punto di vista Lenin, già dalla sua presa di posizione del 1902 nel impostare il partito socialdemocratico russo in termini gerarchici avanguardisti, è uscito dal seminato. Il suo atteggiamento denigratorio nei confronti di chi lo criticava, premiato dal suo indiscusso successo politico grazie a quello che fu davvero il suo più grande risultato, ovvero ottenere il potere politico con il colpo di stato di Ottobre, ha determinato una visione ampiamente deformata di cosa è il Socialismo e di come si può raggiungere. Questo breve articolo a seguire rimette in prospettiva l’analisi di Lenin sull’imperialismo e la questione coloniale. Questione coloniale che è anche oggi lungi dall’esser chiusa, se consideriamo, per esempio, gli strascichi nel nord Africa e nel medio oriente. E’ storia dell’altro ieri di movimenti di sinistra internazionalisti sfaldatisi sulla questione della lotte di liberazione dal colonialismo, ci riferiamo per esempio alla sinistra comunista italiana e francese all’inizio degli anni ottanta.                     


Imperialismo: dove Lenin sbagliò

Il mese scorso sono passati cento anni dalla pubblicazione dell’opuscolo di Lenin ‘Imperialismo, la fase superiore del capitalismo’. Riguardiamo qui i suoi difetti.  
Nella sua introduzione Lenin scrisse che l’opuscolo era basato sui punti di vista espressi nel libro ‘Imperialismo’ (1902) dallo scrittore inglese, non marxista, JA Hobson e quelli del socialdemocratico austriaco Rudolf Hilferding nel ‘Capitale Finanziario’ (1910). Hilferding, si basava soprattutto sull’esperienza tedesca, descrivendo come le banche, attraverso quello che oggi chiameremmo investimento bancario, erano arrivate a fondersi con il capitale industriale, raccogliendo capitale per gli industriali e non solo facendoli pagare per questo servizio ma trattenendo una quota per se stesse. Hobson, il quale era un sottoconsumista, sosteneva che ciò che aveva portato all’imperialismo, inteso come investimento e espansione territoriale all’estero, era il sovrappiù di capitale che non riusciva a trovare uno sbocco proficuo nel paese d’origine.        
Lenin combinò queste due visioni venendone fuori con una definizione di imperialismo come ‘lo stadio monopolistico del capitalismo’ dove ‘il capitale finanziario’ e allo stesso tempo ‘il capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche’ si era ‘fuso con il capitale delle unioni monopolistiche industriali’. Accettando la teoria del sovrappiù di capitale di Hobson, Lenin disse che il ‘capitalismo monopolistico’ aveva condotto alla formazione di ‘associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo tra di loro’ e la ‘ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche’.   
Questa era una descrizione passabile di alcuni aspetti del capitalismo a quei tempi, specialmente in Germania, e Lenin aveva ragione nel vedere la prima guerra mondiale come una guerra di ripartizione del mondo tra le più grandi potenze capitaliste. D’altro canto però la sua approvazione della teoria del sovrappiù di capitale di Hobson come una spiegazione per ‘esportazione di capitale’, ovvero, investimenti all’estero, lasciava dei dubbi. Una più lineare spiegazione dell’investimento di capitali all’estero sarebbe che era più proficuo investirli lì che a casa propria.       
Lenin errava anche nel vedere la fusione in stile tedesco di banche e capitale industriale come ‘la fase superiore del capitalismo’. Era un’opinione comune tra i partiti socialdemocratici a quel tempo che la competizione capitalista avrebbe condotto ai monopoli e che quello che ai socialisti toccava fare era prendere possesso di questi monopoli trasformandoli in proprietà comune e riorientare la produzione per soddisfare i bisogni della gente piuttosto che per il profitto. Karl Kautsky aveva ipotizzato che il processo di monopolizzazione poteva portare a un singolo consorzio monopolistico mondiale e a un accordo di non aggressione tra le potenze imperialiste, che egli chiamò ultra-imperialismo. Lenin aveva ragione nel dire che questo era impossibile in quanto le potenze non avrebbero mai trovato un accordo su una suddivisione permanete del mondo ma avrebbero cercato di cambiarlo a seconda di come cambiavano le loro forze. Ma Lenin non vide che questo concernesse i ‘monopoli’ nei suoi paesi ‘imperialisti’. La classe capitalista non era un blocco monolitico ma composta da sezioni diverse con interessi diversi e nessuna voleva essere tenuta in sacco da qualche monopolio. Da cui l’intervento ‘antimonopolistico’ negli Stati Uniti e la nazionalizzazione, e anche la minaccia di nazionalizzazione in Gran Bretagna.    
Fedele al suo stile polemico, Lenin attribuiva un movente a Kautsky, accusandolo di difendere un pacifico capitalismo mondiale anche se Kautsky aveva solo immaginato ‘l’ultra-imperialismo’ come una possibilità teorica. Lenin postulò un collegamento tra ‘l’opportunismo’ del quale accusava Kautsky e ‘l’imperialismo’, argomentando che il riformismo dei partiti Socialdemocratico e Laburista d’Europa era dovuto alle potenze ‘imperialiste’ che usavano una parte dei loro ‘alti profitti monopolistici’ per corrompere ‘certe sezioni di lavoratori’ nel sostenere il riformismo e lo stato nel quale questi vivevano. Dopo il colpo di stato bolscevico questo argomento fu sviluppato in una teoria bell’e fatta che lo strato più alto dei lavoratori in paesi con colonie era stato corrotto per sostenere il capitalismo per dei super-profitti derivanti dall’esplorazione coloniale e che l’indipendenza dei territori coloniali avrebbe ridimensionato questo fenomeno, con il risultato che, deprivati della loro quota di super-profitto, i lavoratori avrebbero abbandonato il riformismo e sarebbero diventati rivoluzionari.  
Questo fu un errore per un numero di ragioni. In primo luogo, va contro la teoria marxiana dei salari che sostiene che i salari sono il prezzo di quello che i lavoratori vendono e che salari più alti riflettono più alte capacità e preparazione tecnica, non qualsivoglia condizione di plusvalore come implicava Lenin (ovvero che parte dei soldi che alcuni lavoratori ricevono dai loro padroni sia una quota di plusvalore, estratto dai lavoratori delle colonie*). In secondo luogo, questo portò a sostenere la creazione di nuovi stati capitalisti per il beneficio della classe capitalista locale. In terzo luogo, presuppone che i lavoratori diventino meno riformisti se il loro livello di vita è diminuito.      
Lenin stesso menzionò un’obiezione, che attribuiva all’anti-militarista menscevico Martov, che la situazione per i socialisti sarebbe alquanto disperata ‘se fossero proprio i lavoratori meglio pagati ad essere inclini all’opportunismo’, per esempio gli ingegneri qualificati. La replica di Lenin era, tipicamente, di accusare anche Martov di difendere l’opportunismo e il riformismo.
Se i bolscevichi non avessero conservato il potere in Russia questo lavoro sarebbe rimasto un opuscolo sconosciuto e datato. Tuttavia, data la posizione di Lenin e la sua successiva semi-deificazione, fu gonfiato in un’opera seria di ricerca e teoria. Il risultato fu che le sue idee errate – specialmente in merito a dei lavoratori che condividono lo sfruttamento coloniale e che i socialisti dovrebbero sostenere l’emergere delle classi capitaliste ‘anti-imperialiste’ – divennero più ampiamente accettate di quanto sarebbero state altrimenti.      
ADAM BUICK (traduzione di Cesco)

* comunicazione personale dell’autore al traduttore

sabato 25 aprile 2015

Dove ci guidano i leader

Traduciamo questo interessante articolo dei compagni del “Socialist Party of Great Britain” rivolto criticamente a uno dei vari gruppi britannici della cosiddetta “estrema sinistra”, poiché le considerazioni dell’autore si applicano in maniera abbastanza puntuale anche a quello che accade nel nostro paese per ciò che concerne la galassia dei partitini leninisti, trozkisti, stalinisti e maoisti: da “Lotta Comunista” al “Partito Comunista dei Lavoratori”, da “FalceMartello” fino al “Partito Comunista - Sinistra Popolare” e al “Bolscevico”. Con in più l’aggravante che in certi casi al discutibile metodo di Lenin se ne è sostituito da noi uno ancora peggiore: il cosiddetto “centralismo dialettico”, dove non vi sono più né congressi né votazioni, ma tutto avviene per pura cooptazione da parte della dirigenza. Direttamente la prassi di una setta esoterica o religiosa...
 
Piuttosto noto nel Regno Unito per le sue imprese, per i suoi banchetti in strada e per il suo attivismo studentesco, il Socialist Worker Party (SWP, https://www.swp.org.uk/) britannico soffrì un paio di anni fa di un notevole arretramento che condusse a un vero e proprio esodo dei suoi militanti. Uno di questi era Ian Birchall, biografo del fondatore del gruppo Tony Cliff e già componente della dirigenza del partito. Era stato membro dell’SWP e del suo gruppo predecessore, l’International Socialism (IS), per oltre cinquant’anni. Lo scorso dicembre ha pubblicato nel suo blog alcune riflessioni [1] su cosa è andato storto nel partito.
Quando venne formato negli anni ’50 come gruppo trotzkista che riconosceva la natura capitalista della cosiddetta URSS (cosa che noi ben sapevamo da parecchio tempo...) l’IS era organizzato allo stesso modo di molti altri gruppi di sinistra del Regno Unito: i suoi membri erano tutti affiliati al Partito Laburista e si definivano “laburisti di sinistra”. Poi negli anni ’60 le cose iniziarono a cambiare: uscirono dal Partito Laburista e nel 1968 Cliff decise che era il momento di riorganizzare il gruppo secondo linee guida leniniste più rigorose. Era stato lo sciopero generale in Francia di qualche mese prima a spingerlo in questa direzione. Tipicamente, da buon trotzkista, Cliff attribuiva l’impossibilità di arrivare alla rivoluzione socialista all’assenza di un partito rivoluzionario che guidasse i lavoratori in sciopero (non che la rivoluzione socialista fosse il reale obiettivo dello sciopero, tuttavia esso era effettivamente un successo da un punto di vista sindacale). Concluse quindi che ciò che i “rivoluzionari” dovevano fare alla luce di questo evento era di organizzarsi apertamente secondo le linee guida del partito bolscevico di Lenin, che, per lui e per la leggenda trotzkista, aveva condotto a una rivoluzione socialista vittoriosa (benché questa fosse successivamente degenerata in un brutale capitalismo di stato...).
Lenin aveva esposto le sue idee su come doveva essere organizzato un partito rivoluzionario nel noto opuscolo del 1903 intitolato “Che fare?”, dove proponeva un partito di rivoluzionari professionisti a tempo pieno che dovevano cercare di guidare i lavoratori e i contadini formulando parole d’ordine populiste che riflettessero il livello di comprensione che “le masse” erano considerate in grado di raggiungere. Ciò poteva avere un senso come strategia per rovesciare un regime retrogrado e autocratico quale lo zarismo. Come accadde, il regime zarista collassò per conto suo sotto la pressione della Prima Guerra Mondiale, ma la forma organizzativa di Lenin contribuì non poco alla presa del potere politico da parte dei bolscevichi dopo il crollo dello zarismo. Tale successo spinse Lenin a proclamare che quello bolscevico era l’unico modo in cui i rivoluzionari si dovevano organizzare, anche nei paesi capitalisti sviluppati là dove esisteva una stabile democrazia politica.
Così nel 1968 i membri dell’IS cambiarono nome sui loro documenti ufficiali da “lavoratori laburisti” a “lavoratori socialisti” e, più importante, abbandonarono la loro precedente struttura organizzativa dove la linea politica era decisa da una congresso di delegati di sezione che votavano mozioni proposte dalle sezioni e dove i membri del comitato esecutivo erano eletti individualmente. Tutto questo fu messo da parte e venne introdotto il sistema della “lista bloccata” che aveva usato il partito bolscevico e che era stato ereditato dal PCUS in Russia (sì, anche in questo il leninismo condusse allo stalinismo...). Con tale sistema la dirigenza (l’“ufficio politico”,il  “comitato centrale” o come vogliamo chiamarla) viene eletta in blocco al congresso di partito. I delegati non votano per i singoli candidati, ma per la lista (o “blocco”) che contiene tanti nomi quanti sono i posti vacanti. In teoria ci potrebbero essere più liste, ma in pratica non ce ne sono (e non ce ne sono mai state). Nell’SWP (come nell’URSS) ce n’era una sola, quella proposta dalla dirigenza uscente. Piuttosto che proporre una lista rivale, gli oppositori della dirigenza preferivano abbandonare il partito e formare un altro gruppo organizzato nello stesso modo (questo spiega la proliferazione di gruppi trotzkisti...). Si può vedere facilmente come sia una ricetta per la nascita di una dirigenza che si auto-replica. Cosa che infatti è puntualmente accaduta, come nota Birchall:
“Gli eventi recenti hanno mostrato i limiti del sistema della ‘lista bloccata’. È diventata un metodo con cui il Comitato Centrale può riproporsi per la rielezione all’infinito, cooptando singole persone designate quando serve.”
Ma anche nell’SWP vi è un’altra conseguenza:
“Inoltre è emersa pure l’idea della carriera: compagni, in generale ex-studenti, diventano funzionari a tempo pieno e, se hanno successo, entrano nell’apparato e divengono membri del Comitato Centrale. Così abbiamo un Comitato Centrale quasi interamente composto da persone che hanno speso la gran parte della loro carriera politica come funzionari a tempo pieno e hanno quindi una limitatissima esperienza lavorativa e sindacale.”Il sistema delle liste bloccate era applicato persino per eleggere i delegati di sezione al congresso di partito:
“Negli anni ’80, quando esistevano direttivi di sezione vigorosi, tali direttivi stabilivano le liste dei delegati al congresso di partito. Se ovviamente in teoria era possibile per i membri proporre liste alternative, questo era malvisto e, in pratica, era alquanto raro far porre all’ordine del giorno del congresso di sezione il punto in cui si raccoglievano le candidature per divenire delegati al congresso di partito. In pratica andava bene quello che faceva il direttivo: era ciò che accadeva normalmente.” Così l’SWP finì per essere un’organizzazione verticista gestita da un gruppetto di dirigenti che si auto-replicava.
Forse sorprende che Birchall non concluda che questo fosse il risultato inevitabile del sistema delle “liste bloccate”, un punto chiave nel concetto di partito leninista di avanguardia. Egli pensa ancora a un partito di rivoluzionari di professione organizzato in modo leninista. Non ce l’ha con la teoria, ma con come è stata applicata nell’SWP: burocraticamente invece che democraticamente. Però per lui “democrazia” non significa una procedura decisionale, ma soltanto un mezzo per informare la dirigenza in modo tale che possa formulare la politica migliore da perseguire e le parole d’ordine più adeguate da proporre ai lavoratori affinché le seguano:
“...una dirigenza rivoluzionaria necessita di sapere cosa accade nella classe lavoratrice. Non lo può fare leggendo il ‘Financial Times’; deve ascoltare i compagni radicati nella varie sezioni della classe che possono riportare quello che succede nella base. Come diceva Cliff: ‘...devono imparare dai loro compagni lavoratori quanto più possibile e persino in misura maggiore di quanto devono insegnare loro. Ripetendomi: il compito è dirigere e per dirigere dovete comprendere in pieno quelli che state dirigendo’.” Questa non è democrazia in nessun senso compiuto. Si sta ancora dicendo che la classe dei salariati e degli stipendiati è incapace di liberarsi da sé e che quindi necessita di un’avanguardia che si è autonominata. Si rifiuta ancora l’idea che il socialismo, in quanto società completamente democratica, possa esser stabilito solo democraticamente, sia nel senso di esser quello che vuole la maggioranza, sia nel senso di utilizzare metodi democratici. Per arrivare al socialismo la classe dei salariati e degli stipendiati necessita certamente di organizzarsi per conquistare il potere politico, per esempio in un partito politico, ma in un partito democratico, e non di seguire un partito di avanguardia o altri possibili capi.
Però c’è una cosa che Birchall sembra aver capito dopo più di cinquant’anni vissuti da trozkista-leninista:
“La cosa importante in questo momento è la battaglia delle idee, come disse William Morris: ‘il nostro compito particolare sarebbe quello di creare dei Socialisti’.” È una citazione dallo “Statement of Principles of the Hammersmith Socialist Society” stilato nel 1890. Ed è ciò che andiamo dicendo noi del “Socialist Party of Great Britain” da più di cento anni.

ADAM BUICK

tratto da “Socialist Standard”  pp. 16 e 17 , n. 1326, vol. 111, febbraio 2015. Tradotto in italiano il 12 aprile 2015.

NOTE
[1] http://grimanddim.org/political-writings/2014-so-sad/


K. Marx o V. I. Lenin? Il primo nel 1864 scrisse che “l'emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi”, mentre il secondo nel 1903, con l’opuscolo “Che fare?”, inventò il partito bolscevico di avanguardia: costituito da sedicenti “rivoluzionari di professione” (in genere studenti o intellettuali stipendiati con le quote dei lavoratori) sarà il germe di tutta la futura nomenklatura sovietica, rapace, repressiva e autoritaria. Il marxismo-leninismo non esiste: è una contraddizione in termini!

domenica 12 settembre 2010

La leggenda di Lenin

Paul Mattick 1935

Fonte: Archivio Kurasje

Scritto: da Paul Mattick, pubblicato in International Council Correspondence Vol. 2, n. 1, dicembre 1935 e ristampato nel Western Socialist Vol. 13 n. 3, gennaio 1946. Nel 1978 fu incluso in “Anti-Bolshevik Communism” di Paul Mattick edito da Merlin Press, Londra, 1978 ISBN: 0 850 36 222 7/9. La versione elettronica di questo testo fu prodotta da Kavosh Kavoshgar per Kurasje.
Tradotto da: Francesco Sartor con la collaborazione di Gian Maria Freddi, 2010

Più gialla e più coriacea diventa la pelle mummificata di Lenin, e più alto diventa il numero determinato statisticamente di visitatori al mausoleo di Lenin, meno la gente si preoccupa del vero Lenin e della sua significatività storica. Sempre più monumenti vengono eretti alla sua memoria, sempre più pellicole vengono fuori nelle quali lui è la figura centrale, sempre più libri scritti su di lui, e i pasticceri russi modellano dolci in forme che rassomigliano alla sua figura. E ancora lo sbiadirsi delle facce dei Lenin di cioccolata è associato alla poca chiarezza e all’improbabilità delle storie che vengono raccontate su di lui. Sebbene l’Istituto Lenin di Mosca potrebbe pubblicare la raccolta dei suoi lavori, questi non hanno più nessun significato in confronto alle leggende fantastiche che si sono formate attorno al suo nome. Appena la gente incominciò a preoccuparsi dei bottoni del colletto di Lenin, cessarono anche di preoccuparsi delle sue idee. Ognuno quindi si modella il proprio Lenin, e se non alla sua stessa immagine, in ogni caso secondo i propri desideri. Quanto la leggenda di Napoleone sta alla Francia e la leggenda di Federico alla Germania, tanto la leggenda di Lenin sta alla nuova Russia. Così come la gente una volta si rifiutava assolutamente di credere alla morte di Napoleone, e così come la gente sperò nella risurrezione di Federico, così in Russia ancor oggi ci sono contadini secondo i quali il nuovo “piccolo padre Zar” non è morto ma continua a indulgere il suo insaziabile appetito richiedendo a loro addirittura nuovi tributi. Altri accendono lumini eterni sotto la foto di Lenin: per loro lui è un santo, un redentore al quale si prega per un aiuto. Milioni di occhi fissano milioni di queste foto, e vedono in Lenin l’equivalente russo di Mosé, San Giorgio, Ulisse, Ercole, Dio o il Diavolo. Il culto di Lenin è diventato una nuova religione davanti la quale anche l’ateismo comunista felicemente si genuflette: rende la vita più facile in ogni aspetto. Lenin appare a loro come il padre dell’Unione Sovietica, l’uomo che rese possibile la vittoria della rivoluzione, il grande leader senza il quale loro stessi non esisterebbero. Ma non solo in Russia e non solo nella leggenda popolare, ma anche a una larga parte dell’intellighenzia marxista in tutto il mondo, la rivoluzione russa è diventata un evento mondiale addirittura così strettamente unito al genio di Lenin che si ha l’impressione che senza di lui la rivoluzione e quindi la storia mondiale avrebbe probabilmente potuto prendere un corso essenzialmente diverso. Una genuina e obiettiva analisi della rivoluzione russa, tuttavia, rivelerà immediatamente l’insostenibilità di tale idea.

“L’affermazione che la storia è fatta dai grandi uomini è da un punto di vista teorico completamente infondata.” Queste sono le parole con le quali Lenin stesso dà il via alla leggenda che insiste nel fare di lui l’unico responsabile del “successo” o del “crimine” della rivoluzione russa. Egli considerava la guerra mondiale determinante in merito alla diretta causa del suo scoppio e per il tempo del suo verificarsi. Sì; senza la guerra, dice, “la rivoluzione sarebbe stata probabilmente posticipata di decenni”. L’idea che lo scoppio e il corso della rivoluzione russa dipese in grandissima misura da Lenin necessariamente implica una completa identificazione della rivoluzione con la presa del controllo del potere da parte dei bolscevichi. Trotsky ha rimarcato l’effetto che l’intero credito per il successo della rivolta di Ottobre appartiene a Lenin; contro l’opposizione di tutti i suoi amici di partito, la risoluzione per l’insurrezione fu portata avanti da lui solo. Ma la presa del potere da parte dei bolscevichi non diede alla rivoluzione lo spirito di Lenin; al contrario, Lenin aveva talmente adattato se stesso alle necessità rivoluzionarie che praticamente egli eseguì completamente il compito della classe che lui apparentemente combatteva. Di sicuro spesso si afferma che con la presa del potere statale da parte dei bolscevichi la rivoluzione originariamente democratico-borghese fu senz’altro convertita in una socialista-proletaria. Ma è davvero possibile per chiunque credere seriamente che un singolo atto politico sia capace di rimpiazzare un intero sviluppo storico; che sei mesi – da febbraio a ottobre – siano sufficienti per formare i presupposti economici di una rivoluzione socialista in un paese che stava soltanto cercando di liberarsi dai suoi vincoli feudali e assolutisti, con lo scopo di dare più libero gioco alle forze del capitalismo moderno?

Fino alla rivoluzione, e in stragrande misura anche oggi, il ruolo decisivo nello sviluppo economico e sociale della Russia fu giocato dalla questione agraria. Su 174 milioni di abitanti prima della guerra, solo 24 milioni vivevano nelle città. Per ogni migliaia di lavoratori retribuiti, 719 erano occupati nell’agricoltura. Malgrado la loro enorme importanza economica, la maggioranza dei contadini conducevano ancora vite miserabili. La causa della loro situazione deplorabile era l’insufficienza di terra. Lo Stato, la nobiltà e i grandi proprietari terrieri assicuravano a loro stessi con brutalità asiatica un irragionevole sfruttamento della popolazione.

Dall’abolizione della servitù della gleba (1861) la scarsità di terra per le masse contadine era stata costantemente la questione attorno alla quale tutto il resto girava nella politica interna russa. Formò l’oggetto principale di tutti i tentativi di riforma, che vide in questo la forza motrice dell’imminente rivoluzione, la quale dovette essere sviata. La politica finanziaria del regime zarista, con le sue nuove imposte di tassazione indiretta, peggiorarono le condizioni dei contadini ancor di più. Le spese per l’esercito, la flotta, l’apparato statale arrivarono a proporzioni gigantesche; la porzione più grande del budget statale andò a propositi improduttivi, i quali rovinarono totalmente la fondazione economica dell’agricoltura.

“Libertà e terra” era la necessaria richiesta rivoluzionaria dei contadini. Sotto questa parola d’ordine si verificarono una serie di rivolte contadine che presto, nel periodo che va dal 1902 al 1906, assunsero una portata significativa. In combinazione con i movimenti di sciopero di massa dei lavoratori che prendevano luogo allo stesso momento, esse produssero un tale violento scompiglio nel cuore dello Zarismo che quel periodo potrebbe invero essere denotato come una “prova generale” per la rivoluzione del 1917. La maniera in cui lo Zarismo reagì a queste ribellioni è illustrata nel modo migliore dall’espressione del vice governatore della provincia di Tambov Bogdanovich: “Pochi arrestati, i più sono stai passati per le armi”. E uno degli ufficiali che aveva preso parte alla soppressione dell’insurrezione scrisse: “Tutto attorno a noi, spargimenti di sangue; ogni cosa in fiamme; abbiamo sparato, abbattuto, pugnalato.” Fu in questo mare di sangue e fiamme che nacque la rivoluzione del 1917.

Nonostante le sconfitte, la pressione dei contadini crebbe di più e più minacciosa. Portò alle riforme di Stolipin, che comunque, erano solo gesti vuoti, pieni di promesse che in realtà non aggiunsero alla questione agraria un singolo passo avanti. Ma una volta dato il mignolo, si vorrà presto prendere l’intero braccio. L’ulteriore peggioramento della situazione dei contadini durante la guerra, la sconfitta dell’esercito zarista al fronte, le crescenti rivolte nelle città, la caotica politica zarista, nella quale ogni ragione fu gettata a mare, il dilemma generale per tutte le classi della società, portò alla rivoluzione di febbraio, che prima di tutto fece emergere la situazione violenta della questione agraria; la quale era stata una questione calda per mezzo secolo. Il suo carattere politico, tuttavia, non era stato inculcato a questa rivoluzione dal movimento contadino; questo movimento semplicemente gli diede il suo grande potere. Nel primo annuncio del Comitato Esecutivo Centrale del Consiglio (soviet) dei lavoratori e dei soldati di San Pietroburgo la questione agraria non fu neppure menzionata. Ma i contadini presto imposero la loro presenza all’attenzione del nuovo governo. Stanchi di aspettare il governo per agire in merito alla questione agraria, in aprile e maggio del 1917 le masse contadine deluse incominciarono ad appropriarsi della terra da sole. I soldati al fronte, timorosi di non aver modo di prendere il loro pezzo nella nuova distribuzione, abbandonarono le trincee e si precipitarono nei loro villaggi. Portandosi le armi dietro, comunque, e così non dando altra scelta al nuovo governo di reprimerli. Tutti i suoi appelli al sentimento di nazionalità e sacralità degli interessi russi non erano di alcuna utilità contro l’urgenza delle masse di ottenere alla fine i loro bisogni economici. E questi bisogni comprendevano la pace e la terra. Fu detto a quel tempo che i contadini che venivano implorati di rimanere al fronte, altrimenti i tedeschi avrebbero occupato Mosca, erano alquanto indecisi e risposero agli emissari di governo: “E che cos’è quello per noi? Che diamine, noi veniamo dal Governo di Tamboff”.

Lenin e i bolscevichi non inventarono lo slogan vincente “Terra ai contadini”; piuttosto, essi accettarono che la vera rivoluzione contadina proseguiva indipendentemente da loro. Usando a loro favore il vacillante atteggiamento del regime di Kerensky, che sperava ancora di essere in grado di accomodare la questione agraria per mezzo di una discussione pacifica, i bolscevichi vinsero il favore dei contadini e furono così in grado di scacciare il governo di Kerensky e di assumere loro stessi il controllo del potere. Ma questo fu possibile per loro solo come agenti del volere contadino, sanzionando la loro appropriazione della terra, e fu solo attraverso il loro supporto che i bolscevichi furono in grado di mantenersi al potere.

Lo slogan “terra ai contadini” non ha nulla a che vedere con i principi comunisti. La frammentazione di un grande possedimento in un vasto numero di piccole imprese agricole indipendenti era una misura direttamente opposta al socialismo, e che poteva essere giustificata solo in virtù di una necessità tattica. I successivi cambiamenti nella politica contadina di Lenin e dei bolscevichi furono vani nell’apportare qualche cambiamento nelle necessarie conseguenze della sua politica opportunistica originale. Malgrado tutta la collettivizzazione, che fino ad ora è largamente limitata a lati tecnici del processo produttivo, l’agricoltura russa è ancor oggi in pratica determinata da interessi e motivi di economia privata. E questo implica l’impossibilità, anche in campo industriale, di approdare a non più di un’economia a capitalismo di Stato. Anche se questo capitalismo di Stato punta a trasformare completamente la popolazione agricola in salariati agricoli sfruttabili, questo obiettivo non è assolutamente possibile da ottenere in vista dei nuovi scontri rivoluzionari legati a tale avventura. La presente collettivizzazione non può essere considerata il compimento del socialismo. Questo diventa chiaro quando si tiene in considerazione il fatto che osservatori della scena russa come Maurice Hindus ritengono possibile che “anche se i Soviet dovessero collassare, l’agricoltura russa rimarrebbe collettivista, con il controllo forse più nelle mani dei contadini che del governo”. Comunque, anche se la politica agricola bolscevica dovesse portare al risultato desiderato, la situazione dei lavoratori rimarrebbe comunque inalterata. E neppure tale compimento sarebbe considerato una transizione al socialismo reale, in quanto questi elementi della popolazione ora privilegiati dal capitalismo di Stato difenderebbero i loro privilegi contro tutti i cambiamenti esattamente come i proprietari privati fecero prima al tempo della rivoluzione del 1917.

I lavoratori delle industrie formavano ancora una piccola minoranza della popolazione, ed erano coerentemente incapaci di imprimere alla rivoluzione russa un carattere conforme ai propri bisogni. Gli elementi borghesi che similmente combattevano lo zarismo retrocedettero davanti alla natura dei loro stessi compiti. Non potevano accedere alla soluzione rivoluzionaria della questione agraria, in quanto a un’espropriazione generale della terra avrebbe fatto seguito troppo facilmente l’espropriazione dell’industria. Né i contadini né i lavoratori li seguirono, e il destino della borghesia era deciso dalla temporanea alleanza tra questi ultimi gruppi. Non fu la borghesia ma i lavoratori a portare la rivoluzione borghese alla sua conclusione; il posto del capitalismo fu preso dall’apparato statale bolscevico sotto lo slogan leninista: “se capitalismo in ogni caso, allora facciamolo”. Di sicuro i lavoratori nelle città avevano rovesciato il capitalismo, ma solo allo scopo ora di convertire l’apparato del partito bolscevico nei loro nuovi padroni. Nelle città industriali la lotta dei lavoratori continuò sotto richieste socialiste, in modo apparentemente indipendente dalla rivoluzione contadina in corso allo stesso tempo ma in un senso decisivo determinato da quest’ultima. Le richieste rivoluzionarie originali dei lavoratori erano oggettivamente impossibili da portare a compimento. Dobbiamo riconoscerlo, i lavoratori erano in grado, con l’aiuto dei contadini, di vincere il potere statale per il loro partito, ma questo nuovo Stato presto assunse una posizione direttamente opposta a quella degli interessi dei lavoratori. Un’opposizione che persino oggi ha assunto forme che effettivamente permettono di parlare di uno “zarismo rosso”: soppressione degli scioperi, deportazioni, esecuzioni di massa, e quindi anche la nascita di nuove organizzazioni illegali che conducono una rivolta comunista contro il presente finto socialismo. L’attuale discorso riguardo a un’estensione della democrazia in Russia, al pensiero di introdurre una sorta di parlamentarismo, alla risoluzione dell’ultimo congresso dei soviet in merito allo smantellamento della dittatura, tutto questo è meramente una manovra tattica progettata per compensare l’ultimo atto di violenza da parte del governo contro l’opposizione. Queste promesse non sono da prendere seriamente, ma sono un risultato della pratica leninista, la quale era sempre ben calcolata per funzionare in due direzioni allo stesso tempo nell’interesse della sua stessa stabilità e sicurezza. Lo zigzagare della politica leninista deriva dalla necessità di conformarsi costantemente all’avvicendamento delle forza di classe in Russia in tale maniera che il governo possa sempre rimanere padrone della situazione. E così oggi si accetta ciò che si era respinto il giorno prima, o viceversa; un non principio è stato elevato a principio, e il partito leninista si concentra solo su una cosa, cioè, l’esercizio del potere di Stato ad ogni costo.

Qui, tuttavia, noi siamo interessati solo nel chiarire che la rivoluzione russa non fu dipendente da Lenin o dai bolscevichi, ma che l’elemento decisivo fu la rivolta contadina. E, su questo argomento, Zinoviev, ancora al potere a quel tempo e dalla parte di Lenin, aveva affermato durante l’undicesimo Congresso del Partito Bolscevico (marzo-aprile 1921): “Non fu l’avanguardia proletaria dalla nostra parte, ma il passaggio dalla nostra parte dell’esercito, perché noi chiedevamo la pace, che fu il fatto decisivo della nostra vittoria. L’esercito, comunque era formato da contadini. Se noi non avessimo avuto il supporto dei milioni di contadini soldati, la nostra vittoria sulla borghesia sarebbe stata fuori questione”. Il grande interesse dei contadini sulla questione della terra da un lato, e il minimo interesse da parte del governo dall’altro, permise ai bolscevichi di condurre una lotta vittoriosa per il governo. I contadini erano abbastanza disponibili a lasciare il Cremlino ai bolscevichi, solo a patto che questi non interferissero con la loro lotta contro i grandi proprietari terrieri.

Ma anche nelle città, Lenin non fu il fattore decisivo nel conflitto tra capitale e lavoro. Al contrario, egli fu impotentemente trascinato dalla scia dei lavoratori, i quali nelle loro richieste e misure effettive andarono ben oltre i bolscevichi. Non fu Lenin che condusse la rivoluzione, ma la rivoluzione condusse Lenin. Però non prima della rivolta d’Ottobre Lenin restrinse le sue originarie e risolute richieste al controllo della produzione, e desiderava fermarsi con la socializzazione delle banche e dei trasporti; senza un’abolizione generale della proprietà privata, i lavoratori non diedero attenzione ulteriore ai suoi punti di vista e esporpriarono tutte le imprese. È interessante ricordare che il primo decreto del governo bolscevico fu diretto contro le espropriazioni selvagge e non autorizzate delle fabbriche per mezzo dei consigli dei lavoratori. Ma questi consigli (soviet) erano a quel tempo più forti dell’apparato di partito e obbligarono Lenin a emanare il decreto per la nazionalizzazione di tutte le imprese industriali. Fu solo sotto la pressione esercitata dai lavoratori che i bolscevichi acconsentirono a questo cambio nei loro piani. Gradualmente, attraverso l’estensione del potere statale, l’influenza dei consigli s’indebolì, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui i consigli non servono altro che a scopi decorativi.

Durante i primi anni della rivoluzione, sino all’introduzione della Nuova Politica Economica (New Economic Policy, NEP) (1921), ci fu di sicuro qualche sperimentazione in Russia in senso comunista. Questo, però, non è da accreditare a Lenin, ma a quelle forze che lo resero un camaleonte politico che una volta assumeva un colore reazionario e un’altra un colore rivoluzionario. Inizialmente nuove rivolte contadine contro i bolscevichi portarono Lenin a una politica più radicale, un’enfasi più forte agli interessi degli operai e dei contadini poveri che si erano ritrovati a mani vuote dopo la prima distribuzione della terra. Ma poi questa politica si dimostra un fallimento, in quanto i contadini poveri, i cui interessi sono quindi privilegiati, si rifiutano di appoggiare i bolscevichi e Lenin “rivolge il suo sguardo ancora verso i contadini medi”. In tal caso Lenin non ha scrupoli nel rafforzare da capo gli elementi di capitale privato, e gli alleati di prima, che sono ora cresciuti in modo indesiderato, vengono abbattuti con i cannoni, com’è avvenuto a Kronstadt.

Il potere, e niente di meno che il potere: è a questo che l’intera saggezza politica di Lenin in fine si riduce. Il fatto che i modi con i quali si ottiene, i mezzi che portano al potere, determinano a loro volta la maniera in cui tale potere è applicato, era una materia che gli interessava poco. Il socialismo, per lui, era in ultima istanza semplicemente una sorta di capitalismo di Stato, seguendo il “modello del servizio postale tedesco”. E questo capitalismo di Stato colse sulla sua strada, perché in realtà non c’era null’altro da prendere. Fu semplicemente una questione di chi sarebbe stato il beneficiario del capitalismo di Stato, e qui Lenin non diede la precedenza a nessuno. E pertanto George Bernard Shaw, tornando dalla Russia, fu alquanto corretto quando, in una lezione davanti alla Società Fabiana a Londra, affermò che “il comunismo russo non è niente più che la messa in pratica del programma fabiano che noi abbiamo predicato negli ultimi quarant’anni”.

Ancora nessuno, tuttavia, ha avuto il sospetto che i fabiani costituiscano una forza rivoluzionaria mondiale. E Lenin è di sicuro prima di tutto acclamato come un rivoluzionario mondiale, nonostante il fatto che il presente governo russo con il quale il suo “patrimonio” è amministrato diffonde smentite enfatiche quando la stampa pubblica articoli di brindisi russi alla rivoluzione mondiale. La leggenda della significatività mondiale rivoluzionaria di Lenin riceve il suo nutrimento dalla sua coerente posizione internazionale durante la guerra. Fu alquanto impossibile per Lenin a quel tempo concepire che una rivoluzione russa non avrebbe avuto ulteriori ripercussioni e sarebbe stata abbandonata a se stessa. C’erano due ragioni per questo punto di vista: primo, perché tale pensiero era in contraddizione con la situazione oggettiva risultante dalla guerra mondiale; e secondo, egli sosteneva che l’attacco delle nazioni imperialiste contro i bolscevichi avrebbe rotto la schiena della rivoluzione russa se il proletariato dell’Europa occidentale non fosse venuto in suo soccorso. La chiamata di Lenin per la rivoluzione mondiale era primariamente una chiamata in supporto e per il mantenimento del potere bolscevico. La prova che non fu molto più che questo è fornita dalla sua incoerenza in questa questione: in aggiunta alle sue richieste per la rivoluzione mondiale, allo stesso tempo venne fuori con il “diritto di autodeterminazione di tutti i popoli oppressi”, per la loro liberazione nazionale. Anche questa partita doppia proviene allo stesso modo dal bisogno giacobino dei bolscevichi di mantenere il potere. Con entrambi gli slogan le forze di intervento dei paesi capitalisti negli affari russi erano indebolite, in quanto la loro attenzione veniva deviata sui loro stessi territori e colonie. Ciò permise ai bolscevichi di respirare. Al fine di renderla più lunga possibile, Lenin istituì la sua Internazionale. Essa stabilì per se stessa un doppio compito: da una parte, subordinare i lavoratori dell’Europa occidentale e dell’America alla volontà di Mosca; dall’altra, rafforzare l’influenza di Mosca sulle genti dell’Asia orientale. Il lavoro sul campo internazionale era modellato sul seguito del corso della rivoluzione russa. L’obiettivo era quello di combinare gli interessi dei lavoratori e dei contadini su scala mondiale e di controllarli attraverso i bolscevichi, per mezzo dell’Internazionale Comunista. In questo modo almeno il potere statale bolscevico in Russia riceveva supporto; e nel caso in cui la rivoluzione mondiale dovesse diffondersi veramente, il potere sul mondo sarebbe a portata di mano. Anche se il primo progetto aveva avuto successo, allo stesso tempo il secondo non era stato ultimato. La rivoluzione mondiale non fu in grado di progredire come un’imitazione allargata di quella russa, e le limitazioni nazionali della vittoria in Russia necessariamente fecero dei bolscevichi una forza contro-rivoluzionaria sul piano internazionale. Perciò anche la richiesta della “rivoluzione mondiale” fu convertita nella “teoria di costruire il socialismo in un solo paese”. E questa non è una perversione di una posizione leninista – come Trotsky, per esempio, asserisce oggi – ma la conseguenza diretta di una pseudo politica di rivoluzione mondiale perseguita da Lenin stesso.

Era chiaro a quel tempo, addirittura a molti bolscevichi, che la restrizione della rivoluzione alla Russia avrebbe fatto della rivoluzione russa stessa un fattore per il quale la rivoluzione mondiale sarebbe stata impedita. Così, per esempio, Eugene Varga scrisse nel suo libro “Problemi economici della dittatura del proletariato”, pubblicato dell’Internazionale Comunista (1921): “Esiste il pericolo che la Russia possa essere eliminata come forza motrice della rivoluzione internazionale…Ci sono comunisti in Russia che si sono stancati di aspettare la rivoluzione europea e sperano di trarre il meglio dal loro isolamento nazionale… Con una Russia che considererebbe la rivoluzione sociale degli altri paesi come una materia con la quale non avrebbe niente a che vedere, i paesi capitalisti sarebbero in ogni caso in grado di vivere pacificamente con rapporti di buon vicinato. Sono lontano dal credere che il soffocamento della rivoluzione russa sarebbe in grado di fermare il progresso della rivoluzione mondiale. Ma quel progresso sarebbe rallentato”. E con l’inasprirsi delle crisi interne in Russia intorno al quel periodo, non ci volle molto tempo prima che tutti i comunisti, incluso Varga stesso, maturassero la sensazione di cui Varga qui si lamenta. Infatti, ancora prima, addirittura nel 1920, Lenin e Trotsky si presero la briga di arginare le forze rivoluzionarie d’Europa. La pace in tutto il mondo era necessaria al fine di assicurare la costruzione del capitalismo di Stato in Russia sotto gli auspici dei bolscevichi. Era sconsigliabile avere questa pace disturbata dalla guerra o da nuove rivoluzioni, in entrambi i casi un paese come la Russia sarebbe stato tirato in ballo di sicuro. Perciò, Lenin impose, con divisioni e intrighi, un corso neoriformista al movimento dei lavoratori dell’Europa Occidentale, un corso che portò alla sua totale dissoluzione. Fu con parole argute che Trotsky, con l’approvazione di Lenin, accese la sollevazione nella Germania Centrale (1921): “Noi dobbiamo dire chiaro e tondo ai lavoratori tedeschi che consideriamo questa filosofia dell’offensiva come il più grande pericolo e nella sua applicazione pratica come il più grande crimine politico”. E in altre situazioni rivoluzionarie nel 1923, Trotsky dichiarò al corrispondente del Manchester Guardian, ancora con l’approvazione di Lenin: “Noi siamo certamente interessati alla vittoria della classe dei lavoratori, ma non è per niente nel nostro interesse che scoppi la rivoluzione in Europa, la quale è dissanguata ed esausta, e che il proletariato riceva dalle mani della borghesia nient’altro che rovine. Noi siamo interessati nel mantenimento della pace.” E dieci anni dopo, quando Hitler salì al potere, l’Internazionale Comunista non mosse un dito per prevenirlo. Trotsky non è solo in errore, ma rivela una perdita di memoria risultante senza dubbio dalla perdita della sua uniforme, quando oggi caratterizza il fallimento di Stalin nell’aiutare la Germania comunista come un tradimento dei principi del leninismo. Questo tradimento fu costantemente praticato da Lenin, e da Trotsky stesso. Ma in accordo con un detto di Trotsky, la cosa importante è certamente non cosa viene fatto, ma chi lo fa.

Stalin è, in realtà, il discepolo migliore di Lenin, per quanto riguarda il suo atteggiamento nei riguardi del fascismo tedesco. I bolscevichi non si sono neanche certamente fermati dall’entrare in alleanza con la Turchia e dal fornire supporto politico ed economico al governo di quel paese anche quando le misure più aspre erano state prese contro i comunisti – misure che frequentemente eclissarono persino le azioni di Hitler.

In visione del fatto che l’Internazionale Comunista nella misura in cui essa stessa continua a funzionare è meramente un’agenzia del settore turistico russo, in vista del collasso in tutti i paesi dei movimenti comunisti controllati da Mosca, la leggenda di Lenin il rivoluzionario mondiale è senza dubbio talmente indebolita che si potrebbe contare sulla sua scomparsa nel futuro prossimo. E di sicuro anche oggi i ruffiani dell’Internazionale Comunista non operano più con l’idea della rivoluzione mondiale, ma parlano della “Patria dei lavoratori”, dalla quale attingono il loro entusiasmo finché non sono forzati a viverci come lavoratori. Quelli che continuano ad acclamare Lenin come il rivoluzionario mondiale par excellence in realtà si entusiasmano per nulla più che i sogni politici di potere mondiale di Lenin, sogni che scemano nel nulla alla luce del giorno.

La contraddizione esistente tra la significatività storica reale di Lenin e quella che è generalmente ascritta a lui è più grande e allo stesso tempo più inscrutabile di quella di qualsiasi altro personaggio agente nella storia moderna. Abbiamo mostrato che non può essere considerato il responsabile del successo della rivoluzione russa, e anche che la sua teoria e pratica non può, come si fa spesso, essere apprezzata come d’importanza rivoluzionaria mondiale. Né, malgrado tutte le affermazioni contrarie, Lenin può essere considerato come uno che ha esteso o integrato il Marxismo. Nel lavoro di Thomas B. Brameld intitolato “Un approccio filosofico al comunismo”, recentemente pubblicato dall’Università di Chicago, il comunismo è ancora definito come “una sintesi delle dottrine di Marx, Engels e Lenin.” Non è solo in questo libro, ma anche in generale, e in particolare nella stampa del partito comunista, che Lenin è piazzato in tale relazione con Marx ed Engels. Stalin ha denotato il leninismo come il “marxismo nel periodo dell’imperialismo”. Tale posizione, tuttavia, ricava la sua unica giustificazione da un’infondata sopravalutazione di Lenin. Lenin non ha aggiunto al marxismo un singolo elemento che può essere giudicato come nuovo e indipendente. La prospettiva filosofica di Lenin è il materialismo dialettico come sviluppato da Marx, Engels e Plekhanov. È a questo che si riferisce in connessione con tutti i problemi importanti: è il suo criterio in ogni cosa e la sua corte d’appello finale. Nel suo principale lavoro filosofico, “Materialismo ed Empirocriticismo”, Lenin semplicemente ripete Engels tracciando le opposizioni dei diversi punti di vista filosofici intaccando la grande contraddizione: Materialismo vs Idealismo. Mentre per la prima posizione, la Natura è primaria e la Mente secondaria; per l’altra è vero esattamente l’opposto. Questa formulazione precedentemente nota è documentata da Lenin con materiale aggiuntivo proveniente dai vari campi di conoscenza. E così non si può pensare a un arricchimento essenziale della dialettica marxiana da parte di Lenin. Nel campo della filosofia, parlare di una scuola leninista è impossibile.