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lunedì 15 maggio 2017

La Frazione della sinistra comunista italiana

Con questo articolo continuiamo la serie sul Giovane Bordiga illustrando la sua influenza politica determinatasi nella Frazione della sinistra comunista fino alla sua dissoluzione con la fondazione del Partito Comunista Internazionalista. Bordiga e la sinistra italiana accettarono la rivoluzione bolscevica di Ottobre come loro nuovo punto di riferimento. La loro intransigenza contro ogni tipo di corruzione della dottrina marxista, ogni tipo di collaborazione tra classi, e in alcuni casi con i sindacati, però li farà etichettare dagli stessi bolscevichi come infantili estremisti, settari e dottrinari. Comunque leninisti, i sinistri italiani saranno tra i primi a denunciare negli anni 20 la degenerazione politica del partito bolscevico, e alla fine negli anni 30, la degenerazione economica dell’Unione Sovietica. Nonostante ciò rimarranno ancorati al centralismo e alla coercizione delle masse. Questo articolo si concluderà con la citazione della risposta di Melvin Harris del nostro Partito, alla sinistra comunista, il quale taglierà corto sulla questione della degenerazione della rivoluzione russa. Questa non fu una rivoluzione Socialista, dice, ma condotta da una partito che era giacobino nella struttura e nel fine.

La sinistra comunista italiana storicamente origina dalla frazione intransigente rivoluzionaria presente all’interno del Partito Socialista Italiano (PSI). Questa frazione, come visto nel precedente scritto sul Giovane Bordiga, si opponeva a Filippo Turati e ai riformisti. Nel 1911 l’ex-operaista Costantino Lazzari aveva pubblicato “I principi e metodi del Partito Socialista Italiano” difendendo l’originale programma di partito del 1892 dalle degenerazioni riformiste. In termini semplicistici possiamo trovare in questo l’origine del concetto dell’invarianza del Programma del partito comunista, ovvero il leitmotiv, di Bordiga.  

Nell’Ottobre del 1917 il colpo di mano bolscevico alla rivoluzione russa, divise presto la frazione intransigente. Se i così detti riformisti di Turati, come Rodolfo Mondolfo, erano dell’opinione che la rivoluzione bolscevica era contro le condizioni oggettive storiche per instaurare il Socialismo, la frazione intransigente del PSI si divise tra astensionisti e massimalisti. Gli astensionisti si organizzarono nella “Frazione Comunista” fondata di fatto da Bordiga, subito prima del decisivo XVI Congresso del partito tenutosi a Bologna nell’Ottobre del 1919. La frazione era contro l’uso dello strumento elettorale in quanto spreco di preziose risorse rivoluzionarie, legittimazione dei riformisti, e fonte di corruzione degli intransigenti eletti. I massimalisti erano invece allo stesso tempo sia per la partecipazione elettorale che per la rivoluzione violenta. Alla luce dei fatti di Russia, Germania e Ungheria, durante il XVI Congresso del PSI i massimalisti riscrissero il programma originale del 1892 in uno più genuinamente rivoluzionario, il contributo di Bordiga fu però ridimensionato. Malgrado l’opposizione di Lazzari e Turati, il Partito votò per l’ingresso nella Terza Internazionale (Comintern). Il nuovo capo di fatto, anche se non segretario, divenne Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’Avanti. Bordiga fu molto critico nei sui riguardi perché considerava la sua posizione ipocrita, ovvero sostenitrice dell’azione parlamentare e allo stesso tempo conclamatrice della rivoluzione di classe e dell’unità di partito. Unità di partito che avrebbe significato coesistere con i riformisti di Turati. Tuttavia, la politica unitaria di Serrati, diede in qualche modo, dei frutti, ovvero il 30,4% dei voti per il PSI, alle elezioni del 1919. 

sabato 29 ottobre 2011

Il futuro cupo del capitalismo

Questo articolo offre numerosi spunti, ed è conforme alle idee del MSM in larghissima parte.
Su un punto però il  MSM la pensa in maniera diversa: esso ritiene che la precondizione necessaria perché il socialismo possa essere instaurato è che la vasta maggioranza della popolazione, a livello mondiale o quantomeno  nei paesi più sviluppati, abbia compreso cos'è il socialismo e abbia la volontà di realizzarlo. Senza questa vasta maggioranza, il socialismo non può proprio essere instaurato. Una volta che questa vasta maggioranza ci sarà, la via principe per instaurare il socialismo sarà quella elettorale (in termini di democrazia diretta). Ciò non vuol dire che il passaggio al socialismo sarà delegato, per via elettorale, ad una avanguardia dei lavoratori, ma al contrario che ognuno dovrà prendere parte in questo processo, e cioè che il voto è inteso dal MSM come strumento di accordo sociale.

venerdì 24 dicembre 2010

I limiti delle riforme

di Paul Mattick

Per quanto possa essere riformabile, il capitalismo non può alterare, senza eliminare se stesso, i rapporti fondamentali tra salario e profitto che lo caratterizzano. L’età delle riforme è un’età di spontanea espansione del capitale, caratterizzata da una crescita non proporzionale ma simultanea dei salari e dei profitti; un’età nella quale, per la borghesia, le concessioni fatte al proletariato sono più tollerabili delle perturbazioni della lotta di classe, che altrimenti accompagnerebbero lo sviluppo del capitalismo. Come classe, la borghesia non favorisce salari minimi e condizioni di lavoro intollerabili, anche se ogni capitalista, per il quale il lavoro è un costo di produzione, cerca di ridurre al massimo questa spesa. Non c’è alcun dubbio sul fatto che la borghesia preferisca una classe lavoratrice soddisfatta piuttosto che insoddisfatta e la stabilità sociale all’instabilità. In effetti, essa considera il miglioramento generale dei livelli di vita come una sua realizzazione e come la giustificazione del suo dominio di classe. A dire il vero, il benessere relativo dei lavoratori non deve essere eccessivo, poiché deve esistere sempre una dipendenza continua dal lavoro salariato.
Tuttavia, pur all’interno di questi limiti, la borghesia non ha alcun’inclinazione soggettiva a ridurre i lavoratori al più basso stadio d’esistenza, anche quando ciò potesse essere oggettivamente possibile attraverso adeguate misure di repressione. Mentre le inclinazioni e le azioni dei lavoratori sono determinate dalla loro dipendenza dal lavoro salariato, quelle della borghesia sono radicate nella necessità di fare profitti e accumulare capitale, indipendentemente dalle loro differenti propensioni ideologiche e psicologiche.

Le limitate riforme possibili all’interno del sistema capitalistico diventano le abituali condizioni
d’esistenza per chi ne è interessato e non possono essere annullate facilmente. In presenza di un basso tasso d’accumulazione, esse diventano un ostacolo per la produzione di profitto, il cui superamento richiede un eccezionale incremento dello sfruttamento del lavoro. D’altra parte, anche periodi di depressione comportano riforme di vario genere, se non altro per resistere alla minaccia di pericolose agitazioni sociali. Appena attuate, tendono a consolidarsi e devono essere compensate da una crescita corrispondentemente maggiore della produttività del lavoro. Naturalmente saranno fatti degli sforzi, alcuni con successo, per ridimensionare ciò che è stato ottenuto per mezzo della legislazione sociale e grazie al miglioramento dei livelli di vita, allo scopo di ristabilire la necessaria redditività del capitale. Alcune conquiste rimarranno comunque, durante i periodi di depressione che di prosperità, con il risultato di un generale miglioramento delle condizioni dei lavoratori nel corso del tempo.

Per i lavoratori vivere alla giornata non rendeva agevole la lotta per salari più alti e migliori
condizioni di lavoro, infatti erano spinti ad agire solo per le brutali provocazioni dei loro datori di lavoro, essendo un male minore rispetto ad uno stato di completa miseria. Consapevole della dipendenza dei lavoratori dal salario giornaliero, la borghesia rispondeva alle loro ribellioni con le serrate, come il mezzo più efficace per imporre la sua volontà. I profitti persi possono essere riguadagnati, mentre i salari no. Tuttavia, la formazione di sindacati e la costituzione di fondi per gli scioperi cambiarono, in qualche misura, questa situazione a favore dei lavoratori, anche se non sempre consentirono di superare una certa riluttanza a ricorrere all’arma dello sciopero. Inoltre, per i capitalisti, la volontà di opporsi alle richieste dei lavoratori diminuiva con la perdita sempre maggiore di profitti su di un capitale accresciuto ma inutilizzato. Con un sufficiente incremento della produttività, le concessioni che venivano fatte ai lavoratori potevano risultare più redditizie della loro negazione. La graduale eliminazione della concorrenza spietata attraverso la monopolizzazione, nonché in generale la crescente organizzazione della produzione capitalistica, comportarono una regolazione del mercato del lavoro. La contrattazione collettiva sui salari e sulle condizioni di lavoro eliminò in qualche misura gli elementi di spontaneità ed incertezza nei conflitti tra capitale e lavoro. L’autodifesa sporadica dei lavoratori lasciò il posto ad un confronto più ordinato e ad una maggiore “razionalità” nelle relazioni capitale-lavoro. I rappresentanti sindacali dei lavoratori diventarono i manager del mercato del lavoro, nello stesso modo in cui i loro rappresentanti politici nel parlamento della democrazia borghese si occupavano dei loro interessi sociali più rilevanti.

Lentamente, ma inarrestabilmente, il controllo sulle organizzazioni del proletariato sfuggì dalle
mani della base e fu centralizzato in quello dei sindacalisti di professione, il cui potere si basava su di un’organizzazione gerarchica e burocratica, il cui funzionamento, pena la distruzione della stessa organizzazione, non poteva più essere determinato dai suoi membri. L’accettazione di questo stato di fatto da parte dei lavoratori richiedeva naturalmente che le attività delle “loro” organizzazioni fornissero qualche beneficio tangibile, che fosse associato col potere crescente delle organizzazioni e con il loro particolare sviluppo strutturale. Era la leadership centralizzata che determinava ora il carattere della lotta di classe come lotta per i salari e per obiettivi politici limitati, che avessero qualche possibilità d’essere realizzati nell’ambito del sistema capitalistico.

Le differenti fasi di sviluppo della produzione capitalistica nei diversi paesi, così come i diversi
tassi d’espansione delle particolari industrie in ogni nazione, si riflettevano nell’eterogeneità dei tassi salariali e delle condizioni di lavoro, che determinavano una suddivisione all’interno della classe operaia, incoraggiando specifici interessi di gruppo a scapito degli interessi generali del proletariato. Di questi ci si sarebbe occupati, presumibilmente, attraverso l’attività politica socialista, e dove tale attività non fosse ancora possibile – o perché la borghesia aveva già occupato l’intera sfera politica attraverso il completo controllo della macchina statale, come nei paesi anglosassoni, o perché i regimi autocratici precludevano qualunque partecipazione all’attività politica, come nelle nazioni orientali capitalisticamente sottosviluppate – l’unica possibilità era la lotta economica che, mentre unificava alcuni strati del proletariato, provocava una divisione al suo interno, vanificando così lo sviluppo di una coscienza di classe.

La rottura della potenziale unità dei lavoratori per mezzo delle differenze salariali, sia nazionali
sia internazionali, non fu il risultato di una cosciente applicazione del vecchio principio di dividere e governare, così da rendere sicuro il predominio della minoranza borghese, ma il risultato dei rapporti tra domanda e offerta sul mercato del lavoro determinati dalla dinamica della produzione e dell’accumulazione del capitale. I lavoratori con occupazioni privilegiate da questo trend cercavano di mantenere le proprie prerogative attraverso la loro monopolizzazione, così da restringere l’offerta di lavoro in particolari settori, non solo a detrimento dei capitalisti loro avversari ma anche nei confronti della gran massa di lavoratori non specializzati che operavano in condizioni più competitive. I sindacati, considerati un tempo strumenti per lo sviluppo di una coscienza di classe, divennero organizzazioni preoccupate solo dei loro particolari interessi, determinati dalla divisione capitalistica del lavoro e dai suoi effetti sul mercato del lavoro. Col passare del tempo, naturalmente, le organizzazioni di categoria furono soppiantate dai sindacati industriali, che incorporavano parecchie categorie e unificavano la manodopera specializzata e non specializzata, ma solo per riprodurre su una base organizzativa allargata le aspirazioni strettamente economiche degli iscritti. In aggiunta alle differenze salariali, caratteristica generale del sistema, la discriminazione salariale fu (ed è) praticata in maniera diffusa anche da singole aziende e dalle industrie allo scopo di rompere l’omogeneità della loro forza-lavoro e indebolirne la capacità di condurre azioni comuni. Le discriminazioni possono essere basate sul sesso, la razza o la nazionalità, secondo le particolarità di un dato mercato del lavoro. Persistenti pregiudizi, associati all’ideologia dominante, sono così utilizzati per indebolire la solidarietà dei lavoratori e con essa il loro potere di contrattazione. In teoria, è irrilevante per i capitalisti a quale razza o nazionalità particolari appartenga la loro forza-lavoro, purché la sua abilità e propensione a lavorare non cada al di sotto della media, ma in pratica una forza-lavoro diversificata con retribuzioni differenti (o anche uguali) produce o accentua i già esistenti antagonismi razziali o nazionali, indebolendo la crescita di una coscienza di classe. Per esempio, riservando la paga migliore o il lavoro meno sgradevole ad una razza o nazionalità favorite, un gruppo di lavoratori è messo in competizione con altri, a detrimento di tutti. Come la competizione generale sul mercato del lavoro , così le discriminazioni fanno abbassare il saggio generale del salario e incrementano la redditività del capitale. Il loro utilizzo è tanto vecchio quanto lo stesso capitalismo. La storia del proletariato è anche la storia della competizione e della discriminazione all’interno di questa classe, che ha diviso i lavoratori irlandesi dai britannici, gli algerini dai francesi, i neri dai bianchi, i nuovi immigrati dai primi colonizzatori e così via, pressoché dappertutto.

Sebbene questa sia una conseguenza della grande diffusione del nazionalismo borghese e del
razzismo dietro sollecitazione dell’imperativo imperialistico, ciò influenza i lavoratori non solo ideologicamente ma anche attraverso la competizione sul mercato del lavoro. Tutto ciò rafforza, della lotta di classe, gli elementi che dividono rispetto a quelli unificanti e contrasta le implicazioni rivoluzionarie della coscienza di classe. Ad ogni modo, ciò porta all’interno del proletariato le stratificazioni sociali del capitalismo. Le sue lotte economiche e le sue organizzazioni sono destinate a servire particolari gruppi di lavoratori, senza alcun riguardo per gli interessi generali di classe, e i confronti tra lavoro e capitale restano necessariamente interni alla struttura del mercato e dei rapporti di prezzo.

Differenze salariali di ampia portata comportano differenti livelli di vita ed è attraverso questi,
non per il lavoro svolto, che i lavoratori giudicano il loro status nella società capitalistica. Se possono permettersi di vivere come la piccola borghesia o quasi, tenderanno a sentirsi più simili a questa classe che al proletariato. Sebbene i lavoratori salariati possano sottrarsi alla loro collocazione di classe solo attraverso l’eliminazione di tutte le classi, singoli lavoratori cercheranno di separarsi dalla loro classe per entrare in un’altra, oppure adottare lo stile di vita della classe media. Un capitalismo in espansione offre qualche possibilità di miglioramento sociale, così come getta nel proletariato individui della classe dominante o media; ma tali spostamenti individuali non influenzano la struttura classista della società, essi producono solo l’illusione di un’eguaglianza delle opportunità, che serve come argomento contro la critica all’immutabile struttura di classe nella produzione capitalistica.

In tempi di prosperità e per l’aumento del numero di famiglie con più redditi, i lavoratori meglio
pagati possono risparmiare una parte delle loro entrate e così percepire interessi, oltre che ricevere salari dal loro lavoro. Ciò fa sorgere l’illusione di un graduale disfacimento della determinazione di classe nel meccanismo di distribuzione del reddito nazionale, giacché i lavoratori vi partecipano non solo come percettori di salario ma anche come beneficiari d’interessi provenienti dal plusvalore, o anche come azionisti nella forma di dividendi. Qualunque cosa questo può significare in termini di coscienza di classe per chi ne è avvantaggiato, è abbastanza insignificante da un punto di vista sociale, poiché non influenza i rapporti fondamentali tra valore e plusvalore, salari e profitti. Ciò significa soltanto che alcuni lavoratori ottengono un incremento del loro reddito dal profitto e dagli interessi prodotti dalla classe lavoratrice. Mentre tutto questo può influenzare la distribuzione del reddito tra i lavoratori, accentuando le già esistenti differenze salariali, non influenza in alcun modo la divisione sociale in salari e profitti, rappresentata dal saggio di sfruttamento e dall’accumulazione di capitale. Il saggio del profitto rimane lo stesso, qualsiasi sia la parte della massa del profitto che può raggiungere alcuni lavoratori attraverso i loro risparmi. Il numero di azioni possedute dai lavoratori non è noto, ma a giudicare dal numero degli azionisti in ogni singolo paese e dai prevalenti saggi medi salariali, dovrebbe essere trascurabile. L’interesse sui risparmi, come parte del profitto, è compensato naturalmente dal fatto che mentre alcuni lavoratori risparmiano, altri ottengono dei prestiti, così l’interesse aumenta ma riduce anche i salari. Con la crescita del credito al consumo, è più probabile che, nel complesso, l’interesse ricevuto da alcuni lavoratori sia più che compensato dall’interesse pagato da altri.

Poiché il proletariato non è omogeneo al suo interno riguardo alla distribuzione del reddito, ma lo
è solo rispetto alla sua posizione nel quadro dei rapporti di produzione, i lavoratori salariati sono propensi a prestare più attenzione alle loro immediate necessità ed opportunità economiche che agli stessi rapporti di produzione, i quali, comunque, appaiono incrollabili in un capitalismo in ascesa. I loro interessi economici, naturalmente, riguardano non solo i privilegi goduti da speciali strati della classe lavoratrice, ma anche il bisogno generale della gran massa dei lavoratori di mantenere, o aumentare, il loro livello di vita. Salari più alti e migliori condizioni di vita presuppongono una crescita dello sfruttamento, ossia la riduzione del valore della forza-lavoro, assicurando così la riproduzione della lotta di classe nel quadro del processo di accumulazione. E’ l’oggettiva possibilità di quest’ultimo che vanifica la lotta economica dei lavoratori come mezzo per lo sviluppo di una coscienza di classe rivoluzionaria. Non c’è alcuna prova che i conflitti di lavoro degli ultimi cento anni abbiano reso il proletariato rivoluzionario, nel senso di un desiderio crescente di liberarsi del sistema capitalistico. In tutti i paesi capitalistici la tipologia degli scioperi varia col ciclo economico, ossia il numero degli scioperi e dei lavoratori che vi partecipano diminuisce in periodi di depressione e cresce ad ogni ripresa dell’attività economica. E’ l’accumulazione di capitale, non la sua mancanza, che provoca l’attivismo dei lavoratori nelle loro lotte salariali e nelle loro organizzazioni.

Ovviamente, una seria contrazione dell’attività economica, che riduce il numero totale dei
lavoratori, riduce anche le ore di lavoro perdute in scioperi e serrate, non solo per il numero minore di lavoratori occupati, ma anche a causa della loro maggiore riluttanza a scioperare, nonostante condizioni di lavoro in via di peggioramento. I sindacati, parimenti, decadono non solo a causa della crescente disoccupazione, ma anche perché sono meno capaci, o non lo sono per nulla, di procurare ai lavoratori benefici sufficienti a garantire la loro esistenza. Tanto in tempi di depressione quanto di prosperità, i conflitti continui tra lavoro e capitale non hanno condotto ad una radicalizzazione politica della classe lavoratrice, ma ad un’accentuata preoccupazione per migliori accomodamenti all’interno del sistema capitalistico. I disoccupati rivendicano il “loro diritto al lavoro” e non l’abolizione del lavoro salariato, mentre quelli ancora occupati dimostrano d’essere propensi ad accettare parecchi sacrifici pur di arrestare il declino dell’economia capitalistica. La retorica delle organizzazioni dei lavoratori esistenti o di quelle fondate recentemente è diventata senza dubbio più minacciosa, ma le loro rivendicazioni concrete, realizzabili o no, sono andate nella direzione di un migliore funzionamento del capitalismo e non della sua abolizione.

Ogni sciopero, inoltre, o è un fenomeno localizzato, che coinvolge un numero limitato di
lavoratori, o una lotta che interessa tutta l’industria, estesa a varie località, che coinvolge perciò un grande numero di lavoratori. In entrambi i casi, riguarda solo interessi particolari, condizionati nel tempo, di piccoli settori della classe lavoratrice e raramente influenza in maniera significativa l’intera società. Ogni sciopero deve finire nella sconfitta di una delle due parti in conflitto, o in un compromesso conveniente ad entrambe; in ogni caso, deve consentire che le imprese capitalistiche mantengano un grado sufficiente di redditività per produrre ed espandersi. Gli scioperi che conducono al fallimento delle imprese vanificherebbero anche gli obiettivi stessi dei lavoratori, obiettivi che presuppongono l’esistenza dei loro datori di lavoro. L’arma dello sciopero come tale è di natura riformistica, essa potrebbe diventare uno strumento rivoluzionario solo attraverso la sua generalizzazione ed estensione all’intera società. Fu per questa ragione che il sindacalismo rivoluzionario sostenne lo sciopero generale come leva per rovesciare la società capitalistica, ed è per la stessa ragione che il movimento operaio riformista si oppone allo sciopero generale, eccetto come un mezzo straordinario e politicamente controllato per salvaguardare la propria esistenza (1).
Forse l’unico sciopero generale nazionale che abbia avuto un completo successo fu quello voluto dallo stesso governo tedesco per sconfiggere il reazionario Putsch di Kapp del 1920.

Sempre che uno sciopero di massa non si trasformi in una guerra civile ed in una lotta per il
potere politico, presto o tardi esso è destinato a finire non appena i lavoratori conseguono o no le loro rivendicazioni. Ci si aspettava, naturalmente, che le situazioni critiche causate da tali scioperi, e con esse le reazioni da parte del capitale e del suo stato, avrebbero condotto al crescente riconoscimento dell’incolmabile antagonismo tra lavoro e capitale, così da rendere i lavoratori sempre più sensibili all’idea del socialismo. Questa non era un’assunzione irragionevole, ma non è stata confermata dal corso degli eventi che si sono verificati. Senza dubbio, il subbuglio procurato da uno sciopero porta con se un’acuita consapevolezza del vero significato di una società di classe e della sua natura sfruttatrice, ma questo, di per sé, non cambia la realtà delle cose.. La situazione eccezionale degenera di nuovo nella routine della vita quotidiana e dei suoi bisogni immediati; la coscienza di classe che si era ridestata, si trasforma di nuovo in apatia e in una sottomissione allo stato delle cose presenti.

La lotta di classe coinvolge la borghesia non meno dei lavoratori, perciò non basterà considerare
solo questi ultimi, riguardo allo sviluppo della loro coscienza. L’ideologia borghese dominante sarà riformulata e notevolmente modificata per neutralizzare i cambiamenti che si possono avvertire negli atteggiamenti e nelle aspirazioni dei lavoratori. L’iniziale aperto disprezzo che la borghesia nutre verso i lavoratori lascia spazio ad un’evidente preoccupazione per il loro benessere e al riconoscimento del loro contributo alla “qualità della vita sociale”; per cui la borghesia fa qualche concessione che in precedenza le veniva imposta attraverso le azioni indipendenti dei lavoratori. La collaborazione è fatta apparire vantaggiosa per tutte le classi, come la via verso armoniose relazioni sociali.

La più importante di tutte le riforme compiute dal capitalismo fu naturalmente rappresentata
dall’ascesa dello stesso movimento operaio. La continua estensione del diritto di voto fino ad interessare l’intera popolazione adulta, nonché la legalizzazione e la tutela dell’attività sindacale, integrarono il movimento operaio nelle strutture di mercato e nelle istituzioni politiche della società borghese. Il movimento operaio divenne da allora parte integrante del sistema, a condizione che questo si conservasse, e così sembrava, proprio per la capacità del sistema stesso di mitigare le contraddizioni di classe per mezzo delle riforme. Peraltro, queste riforme presupponevano condizioni economiche stabili ed uno sviluppo ordinato, che si potevano realizzare attraverso una crescente organizzazione sociale, di cui le stesse riforme erano parte integrante. Naturalmente questa possibilità era stata negata dalla teoria marxiana, sicché la giustificazione di una coerente politica riformista richiese l’abbandono di quella teoria. Dentro il movimento operaio, i revisionisti si convinsero che, contrariamente a quanto pensava Marx, l’economia capitalistica non avesse una tendenza insita al collasso, mentre i sostenitori della teoria marxiana insistevano sulle limitazioni oggettive del sistema. Tuttavia, rispetto alla situazione determinatasi, anche questi ultimi non avevano altra scelta che lottare per le riforme economiche e politiche, differenziandosi dai revisionisti per via dell’assunto che, a causa dei limiti oggettivi del capitalismo, la lotta per le riforme avrebbe avuto significati differenti secondo i momenti in cui veniva condotta. In quest’ottica , era possibile intraprendere la lotta di classe sia nei parlamenti sia nelle strade, non solo attraverso i partiti politici ed i sindacati, ma anche con i lavoratori non organizzati. La base legale conquistata nella democrazia borghese doveva essere garantita mediante le azioni dirette delle masse nella loro lotta salariale, e si supponeva che le attività parlamentari dovessero sostenere questi sforzi. Mentre ciò non avrebbe avuto alcun’implicazione rivoluzionaria in periodi di prosperità, la situazione sarebbe cambiata in periodi di crisi, particolarmente in una fase discendente del capitalismo. Poiché il capitalismo trova un ostacolo solo in se stesso, la lotta per le riforme si sarebbe trasformata in una lotta rivoluzionaria appena la borghesia non fosse stata più in grado di fare concessioni ai lavoratori.

Proprio come i capitalisti (tranne qualche eccezione) non sono economisti, ma uomini d’affari,
anche i lavoratori non sono interessati alla teoria economica. Indipendentemente dalla questione se il capitalismo è destinato o no a crollare, i lavoratori devono badare ai loro bisogni immediati attraverso le lotte salariali, onde difendere o migliorare i loro livelli di vita. Se sono convinti della necessità del declino e della caduta del capitalismo, ciò accade perché già aderiscono all’ideologia socialista, anche se probabilmente non sono in grado di dimostrare “scientificamente” il loro punto di vista. Per la verità, è duro immaginare che un sistema sociale come il capitalismo possa durare ancora a lungo, salvo che, naturalmente, si fosse totalmente indifferenti alle condizioni anarchiche della produzione capitalistica ed alla sua completa decomposizione. Tuttavia, tale indifferenza è solo un altro termine per indicare l’individualismo borghese, il quale non è solo un’ideologia, ma anche una condizione dei rapporti di mercato come rapporti sociali. Tuttavia anche sotto quest’incantesimo, l’indifferenza dei lavoratori non impedisce loro di condurre la lotta di classe, sebbene a volte sia intrapresa solo parzialmente, a causa della violenta repressione che colpisce tutte le azioni indipendenti dei lavoratori.

Finora, il riformismo non ha portato ad una trasformazione del capitalismo in un sistema sociale più accettabile, né a rivoluzioni e neppure al socialismo; d’altra parte, potrebbe aver bisogno di rivoluzioni politiche per realizzare alcune riforme sociali. La storia recente fornisce numerosi esempi di rivoluzioni politiche che finirono col rovesciare l’odiata struttura di governo di una nazione, senza influenzare i suoi rapporti di produzione. Simili sovvertimenti rivoluzionari sostituiscono un regime dittatoriale per perseguire cambiamenti istituzionali e, implicitamente, riforme economiche. In questo caso, le rivoluzioni politiche sono una precondizione per qualunque tipo di attività riformistica e non il risultato di quest’ultima. Non si tratta di rivoluzioni socialiste nel senso marxiano, anche quando sono preminentemente iniziate e realizzate per mezzo della classe operaia, ma di attività riformiste condotte con mezzi politici più diretti.
La possibilità di un cambiamento rivoluzionario non può essere contestata, poiché ci sono state rivoluzioni politiche che hanno cambiato i rapporti di produzione e sostituito il governo di una classe con quello di un’altra. Le rivoluzioni borghesi assicurarono il trionfo della classe media e del modo di produzione capitalistico; una rivoluzione proletaria – ossia una rivoluzione per eliminare ogni rapporto di classe nel processo di produzione sociale – non è finora avvenuta, sebbene siano stati fatti tentativi in questa direzione, all’interno e all’esterno del sistema politico borghese. Mentre la riforma sociale è un surrogato della rivoluzione e questa può dissolversi in pure e semplici riforme capitalistiche, come in niente, una rivoluzione proletaria può solo vincere o perdere. Essa non può basarsi su alcun genere di compromesso di classe, poiché il suo compito è di eliminare ogni rapporto di classe. Conseguentemente, troverà tutte le altre classi schierate contro i tentativi di realizzare i propri obiettivi socialisti. E’ questo carattere speciale della rivoluzione proletaria che spiega le difficoltà eccezionali che incontra sul suo percorso.

(1) Nel suo libro In Place of Fear (New York, 1952, pp. 21-23), Aneurin Bevan riferisce che nel 1919 – quando i sindacati britannici minacciarono uno sciopero nazionale – l’allora primo ministro David Lloyd Gorge disse ai leader sindacali che dovevano essere consapevoli di tutte le conseguenze di una simile azione, perché “se nello stato sorge una forza più forte dello stato stesso, allora essa deve essere pronta ad assumerne le funzioni, o a ritirarsi e accettare l’autorità dello stato.” Da quel momento in poi”, disse un leader sindacale, “noi sapemmo d’essere sconfitti.” Dopo di ciò, continua Bevan, “lo sciopero generale del 1926 fu veramente una delusione. Nel 1926 i leader sindacali non si resero conto delle implicazioni rivoluzionarie di un’azione diretta su una tale scala, né erano ansiosi di farlo … Non fu tanto il potere coercitivo dello stato che limitò il pieno uso del potere dei lavoratori dell’industria …
I lavoratori e i loro leader indugiarono anche quando il loro potere coercitivo era più grande di quello dello stato. L’opportunità di impadronirsi del potere non è sufficiente quando la volontà di conquistarlo è assente, e quella volontà è conseguente all’atteggiamento tradizionalmente tenuto dal popolo verso quelle istituzioni politiche che fanno parte della loro eredità storica.”
Questo può essere vero, ma per la verità, in questo caso particolare, non fu l’atteggiamento dei lavoratori riguardo alla loro eredità storica, ma semplicemente la sottomissione alle loro organizzazioni e alle loro leadership che permise a queste ultime di sospendere lo sciopero generale, per il timore che esso potesse condurre ad agitazioni rivoluzionarie a causa della determinazione
apparentemente ferma del governo di interrompere lo sciopero con la forza.

(Traduzione a cura di www.countdownnet.info)

domenica 12 settembre 2010

La leggenda di Lenin

Paul Mattick 1935

Fonte: Archivio Kurasje

Scritto: da Paul Mattick, pubblicato in International Council Correspondence Vol. 2, n. 1, dicembre 1935 e ristampato nel Western Socialist Vol. 13 n. 3, gennaio 1946. Nel 1978 fu incluso in “Anti-Bolshevik Communism” di Paul Mattick edito da Merlin Press, Londra, 1978 ISBN: 0 850 36 222 7/9. La versione elettronica di questo testo fu prodotta da Kavosh Kavoshgar per Kurasje.
Tradotto da: Francesco Sartor con la collaborazione di Gian Maria Freddi, 2010

Più gialla e più coriacea diventa la pelle mummificata di Lenin, e più alto diventa il numero determinato statisticamente di visitatori al mausoleo di Lenin, meno la gente si preoccupa del vero Lenin e della sua significatività storica. Sempre più monumenti vengono eretti alla sua memoria, sempre più pellicole vengono fuori nelle quali lui è la figura centrale, sempre più libri scritti su di lui, e i pasticceri russi modellano dolci in forme che rassomigliano alla sua figura. E ancora lo sbiadirsi delle facce dei Lenin di cioccolata è associato alla poca chiarezza e all’improbabilità delle storie che vengono raccontate su di lui. Sebbene l’Istituto Lenin di Mosca potrebbe pubblicare la raccolta dei suoi lavori, questi non hanno più nessun significato in confronto alle leggende fantastiche che si sono formate attorno al suo nome. Appena la gente incominciò a preoccuparsi dei bottoni del colletto di Lenin, cessarono anche di preoccuparsi delle sue idee. Ognuno quindi si modella il proprio Lenin, e se non alla sua stessa immagine, in ogni caso secondo i propri desideri. Quanto la leggenda di Napoleone sta alla Francia e la leggenda di Federico alla Germania, tanto la leggenda di Lenin sta alla nuova Russia. Così come la gente una volta si rifiutava assolutamente di credere alla morte di Napoleone, e così come la gente sperò nella risurrezione di Federico, così in Russia ancor oggi ci sono contadini secondo i quali il nuovo “piccolo padre Zar” non è morto ma continua a indulgere il suo insaziabile appetito richiedendo a loro addirittura nuovi tributi. Altri accendono lumini eterni sotto la foto di Lenin: per loro lui è un santo, un redentore al quale si prega per un aiuto. Milioni di occhi fissano milioni di queste foto, e vedono in Lenin l’equivalente russo di Mosé, San Giorgio, Ulisse, Ercole, Dio o il Diavolo. Il culto di Lenin è diventato una nuova religione davanti la quale anche l’ateismo comunista felicemente si genuflette: rende la vita più facile in ogni aspetto. Lenin appare a loro come il padre dell’Unione Sovietica, l’uomo che rese possibile la vittoria della rivoluzione, il grande leader senza il quale loro stessi non esisterebbero. Ma non solo in Russia e non solo nella leggenda popolare, ma anche a una larga parte dell’intellighenzia marxista in tutto il mondo, la rivoluzione russa è diventata un evento mondiale addirittura così strettamente unito al genio di Lenin che si ha l’impressione che senza di lui la rivoluzione e quindi la storia mondiale avrebbe probabilmente potuto prendere un corso essenzialmente diverso. Una genuina e obiettiva analisi della rivoluzione russa, tuttavia, rivelerà immediatamente l’insostenibilità di tale idea.

“L’affermazione che la storia è fatta dai grandi uomini è da un punto di vista teorico completamente infondata.” Queste sono le parole con le quali Lenin stesso dà il via alla leggenda che insiste nel fare di lui l’unico responsabile del “successo” o del “crimine” della rivoluzione russa. Egli considerava la guerra mondiale determinante in merito alla diretta causa del suo scoppio e per il tempo del suo verificarsi. Sì; senza la guerra, dice, “la rivoluzione sarebbe stata probabilmente posticipata di decenni”. L’idea che lo scoppio e il corso della rivoluzione russa dipese in grandissima misura da Lenin necessariamente implica una completa identificazione della rivoluzione con la presa del controllo del potere da parte dei bolscevichi. Trotsky ha rimarcato l’effetto che l’intero credito per il successo della rivolta di Ottobre appartiene a Lenin; contro l’opposizione di tutti i suoi amici di partito, la risoluzione per l’insurrezione fu portata avanti da lui solo. Ma la presa del potere da parte dei bolscevichi non diede alla rivoluzione lo spirito di Lenin; al contrario, Lenin aveva talmente adattato se stesso alle necessità rivoluzionarie che praticamente egli eseguì completamente il compito della classe che lui apparentemente combatteva. Di sicuro spesso si afferma che con la presa del potere statale da parte dei bolscevichi la rivoluzione originariamente democratico-borghese fu senz’altro convertita in una socialista-proletaria. Ma è davvero possibile per chiunque credere seriamente che un singolo atto politico sia capace di rimpiazzare un intero sviluppo storico; che sei mesi – da febbraio a ottobre – siano sufficienti per formare i presupposti economici di una rivoluzione socialista in un paese che stava soltanto cercando di liberarsi dai suoi vincoli feudali e assolutisti, con lo scopo di dare più libero gioco alle forze del capitalismo moderno?

Fino alla rivoluzione, e in stragrande misura anche oggi, il ruolo decisivo nello sviluppo economico e sociale della Russia fu giocato dalla questione agraria. Su 174 milioni di abitanti prima della guerra, solo 24 milioni vivevano nelle città. Per ogni migliaia di lavoratori retribuiti, 719 erano occupati nell’agricoltura. Malgrado la loro enorme importanza economica, la maggioranza dei contadini conducevano ancora vite miserabili. La causa della loro situazione deplorabile era l’insufficienza di terra. Lo Stato, la nobiltà e i grandi proprietari terrieri assicuravano a loro stessi con brutalità asiatica un irragionevole sfruttamento della popolazione.

Dall’abolizione della servitù della gleba (1861) la scarsità di terra per le masse contadine era stata costantemente la questione attorno alla quale tutto il resto girava nella politica interna russa. Formò l’oggetto principale di tutti i tentativi di riforma, che vide in questo la forza motrice dell’imminente rivoluzione, la quale dovette essere sviata. La politica finanziaria del regime zarista, con le sue nuove imposte di tassazione indiretta, peggiorarono le condizioni dei contadini ancor di più. Le spese per l’esercito, la flotta, l’apparato statale arrivarono a proporzioni gigantesche; la porzione più grande del budget statale andò a propositi improduttivi, i quali rovinarono totalmente la fondazione economica dell’agricoltura.

“Libertà e terra” era la necessaria richiesta rivoluzionaria dei contadini. Sotto questa parola d’ordine si verificarono una serie di rivolte contadine che presto, nel periodo che va dal 1902 al 1906, assunsero una portata significativa. In combinazione con i movimenti di sciopero di massa dei lavoratori che prendevano luogo allo stesso momento, esse produssero un tale violento scompiglio nel cuore dello Zarismo che quel periodo potrebbe invero essere denotato come una “prova generale” per la rivoluzione del 1917. La maniera in cui lo Zarismo reagì a queste ribellioni è illustrata nel modo migliore dall’espressione del vice governatore della provincia di Tambov Bogdanovich: “Pochi arrestati, i più sono stai passati per le armi”. E uno degli ufficiali che aveva preso parte alla soppressione dell’insurrezione scrisse: “Tutto attorno a noi, spargimenti di sangue; ogni cosa in fiamme; abbiamo sparato, abbattuto, pugnalato.” Fu in questo mare di sangue e fiamme che nacque la rivoluzione del 1917.

Nonostante le sconfitte, la pressione dei contadini crebbe di più e più minacciosa. Portò alle riforme di Stolipin, che comunque, erano solo gesti vuoti, pieni di promesse che in realtà non aggiunsero alla questione agraria un singolo passo avanti. Ma una volta dato il mignolo, si vorrà presto prendere l’intero braccio. L’ulteriore peggioramento della situazione dei contadini durante la guerra, la sconfitta dell’esercito zarista al fronte, le crescenti rivolte nelle città, la caotica politica zarista, nella quale ogni ragione fu gettata a mare, il dilemma generale per tutte le classi della società, portò alla rivoluzione di febbraio, che prima di tutto fece emergere la situazione violenta della questione agraria; la quale era stata una questione calda per mezzo secolo. Il suo carattere politico, tuttavia, non era stato inculcato a questa rivoluzione dal movimento contadino; questo movimento semplicemente gli diede il suo grande potere. Nel primo annuncio del Comitato Esecutivo Centrale del Consiglio (soviet) dei lavoratori e dei soldati di San Pietroburgo la questione agraria non fu neppure menzionata. Ma i contadini presto imposero la loro presenza all’attenzione del nuovo governo. Stanchi di aspettare il governo per agire in merito alla questione agraria, in aprile e maggio del 1917 le masse contadine deluse incominciarono ad appropriarsi della terra da sole. I soldati al fronte, timorosi di non aver modo di prendere il loro pezzo nella nuova distribuzione, abbandonarono le trincee e si precipitarono nei loro villaggi. Portandosi le armi dietro, comunque, e così non dando altra scelta al nuovo governo di reprimerli. Tutti i suoi appelli al sentimento di nazionalità e sacralità degli interessi russi non erano di alcuna utilità contro l’urgenza delle masse di ottenere alla fine i loro bisogni economici. E questi bisogni comprendevano la pace e la terra. Fu detto a quel tempo che i contadini che venivano implorati di rimanere al fronte, altrimenti i tedeschi avrebbero occupato Mosca, erano alquanto indecisi e risposero agli emissari di governo: “E che cos’è quello per noi? Che diamine, noi veniamo dal Governo di Tamboff”.

Lenin e i bolscevichi non inventarono lo slogan vincente “Terra ai contadini”; piuttosto, essi accettarono che la vera rivoluzione contadina proseguiva indipendentemente da loro. Usando a loro favore il vacillante atteggiamento del regime di Kerensky, che sperava ancora di essere in grado di accomodare la questione agraria per mezzo di una discussione pacifica, i bolscevichi vinsero il favore dei contadini e furono così in grado di scacciare il governo di Kerensky e di assumere loro stessi il controllo del potere. Ma questo fu possibile per loro solo come agenti del volere contadino, sanzionando la loro appropriazione della terra, e fu solo attraverso il loro supporto che i bolscevichi furono in grado di mantenersi al potere.

Lo slogan “terra ai contadini” non ha nulla a che vedere con i principi comunisti. La frammentazione di un grande possedimento in un vasto numero di piccole imprese agricole indipendenti era una misura direttamente opposta al socialismo, e che poteva essere giustificata solo in virtù di una necessità tattica. I successivi cambiamenti nella politica contadina di Lenin e dei bolscevichi furono vani nell’apportare qualche cambiamento nelle necessarie conseguenze della sua politica opportunistica originale. Malgrado tutta la collettivizzazione, che fino ad ora è largamente limitata a lati tecnici del processo produttivo, l’agricoltura russa è ancor oggi in pratica determinata da interessi e motivi di economia privata. E questo implica l’impossibilità, anche in campo industriale, di approdare a non più di un’economia a capitalismo di Stato. Anche se questo capitalismo di Stato punta a trasformare completamente la popolazione agricola in salariati agricoli sfruttabili, questo obiettivo non è assolutamente possibile da ottenere in vista dei nuovi scontri rivoluzionari legati a tale avventura. La presente collettivizzazione non può essere considerata il compimento del socialismo. Questo diventa chiaro quando si tiene in considerazione il fatto che osservatori della scena russa come Maurice Hindus ritengono possibile che “anche se i Soviet dovessero collassare, l’agricoltura russa rimarrebbe collettivista, con il controllo forse più nelle mani dei contadini che del governo”. Comunque, anche se la politica agricola bolscevica dovesse portare al risultato desiderato, la situazione dei lavoratori rimarrebbe comunque inalterata. E neppure tale compimento sarebbe considerato una transizione al socialismo reale, in quanto questi elementi della popolazione ora privilegiati dal capitalismo di Stato difenderebbero i loro privilegi contro tutti i cambiamenti esattamente come i proprietari privati fecero prima al tempo della rivoluzione del 1917.

I lavoratori delle industrie formavano ancora una piccola minoranza della popolazione, ed erano coerentemente incapaci di imprimere alla rivoluzione russa un carattere conforme ai propri bisogni. Gli elementi borghesi che similmente combattevano lo zarismo retrocedettero davanti alla natura dei loro stessi compiti. Non potevano accedere alla soluzione rivoluzionaria della questione agraria, in quanto a un’espropriazione generale della terra avrebbe fatto seguito troppo facilmente l’espropriazione dell’industria. Né i contadini né i lavoratori li seguirono, e il destino della borghesia era deciso dalla temporanea alleanza tra questi ultimi gruppi. Non fu la borghesia ma i lavoratori a portare la rivoluzione borghese alla sua conclusione; il posto del capitalismo fu preso dall’apparato statale bolscevico sotto lo slogan leninista: “se capitalismo in ogni caso, allora facciamolo”. Di sicuro i lavoratori nelle città avevano rovesciato il capitalismo, ma solo allo scopo ora di convertire l’apparato del partito bolscevico nei loro nuovi padroni. Nelle città industriali la lotta dei lavoratori continuò sotto richieste socialiste, in modo apparentemente indipendente dalla rivoluzione contadina in corso allo stesso tempo ma in un senso decisivo determinato da quest’ultima. Le richieste rivoluzionarie originali dei lavoratori erano oggettivamente impossibili da portare a compimento. Dobbiamo riconoscerlo, i lavoratori erano in grado, con l’aiuto dei contadini, di vincere il potere statale per il loro partito, ma questo nuovo Stato presto assunse una posizione direttamente opposta a quella degli interessi dei lavoratori. Un’opposizione che persino oggi ha assunto forme che effettivamente permettono di parlare di uno “zarismo rosso”: soppressione degli scioperi, deportazioni, esecuzioni di massa, e quindi anche la nascita di nuove organizzazioni illegali che conducono una rivolta comunista contro il presente finto socialismo. L’attuale discorso riguardo a un’estensione della democrazia in Russia, al pensiero di introdurre una sorta di parlamentarismo, alla risoluzione dell’ultimo congresso dei soviet in merito allo smantellamento della dittatura, tutto questo è meramente una manovra tattica progettata per compensare l’ultimo atto di violenza da parte del governo contro l’opposizione. Queste promesse non sono da prendere seriamente, ma sono un risultato della pratica leninista, la quale era sempre ben calcolata per funzionare in due direzioni allo stesso tempo nell’interesse della sua stessa stabilità e sicurezza. Lo zigzagare della politica leninista deriva dalla necessità di conformarsi costantemente all’avvicendamento delle forza di classe in Russia in tale maniera che il governo possa sempre rimanere padrone della situazione. E così oggi si accetta ciò che si era respinto il giorno prima, o viceversa; un non principio è stato elevato a principio, e il partito leninista si concentra solo su una cosa, cioè, l’esercizio del potere di Stato ad ogni costo.

Qui, tuttavia, noi siamo interessati solo nel chiarire che la rivoluzione russa non fu dipendente da Lenin o dai bolscevichi, ma che l’elemento decisivo fu la rivolta contadina. E, su questo argomento, Zinoviev, ancora al potere a quel tempo e dalla parte di Lenin, aveva affermato durante l’undicesimo Congresso del Partito Bolscevico (marzo-aprile 1921): “Non fu l’avanguardia proletaria dalla nostra parte, ma il passaggio dalla nostra parte dell’esercito, perché noi chiedevamo la pace, che fu il fatto decisivo della nostra vittoria. L’esercito, comunque era formato da contadini. Se noi non avessimo avuto il supporto dei milioni di contadini soldati, la nostra vittoria sulla borghesia sarebbe stata fuori questione”. Il grande interesse dei contadini sulla questione della terra da un lato, e il minimo interesse da parte del governo dall’altro, permise ai bolscevichi di condurre una lotta vittoriosa per il governo. I contadini erano abbastanza disponibili a lasciare il Cremlino ai bolscevichi, solo a patto che questi non interferissero con la loro lotta contro i grandi proprietari terrieri.

Ma anche nelle città, Lenin non fu il fattore decisivo nel conflitto tra capitale e lavoro. Al contrario, egli fu impotentemente trascinato dalla scia dei lavoratori, i quali nelle loro richieste e misure effettive andarono ben oltre i bolscevichi. Non fu Lenin che condusse la rivoluzione, ma la rivoluzione condusse Lenin. Però non prima della rivolta d’Ottobre Lenin restrinse le sue originarie e risolute richieste al controllo della produzione, e desiderava fermarsi con la socializzazione delle banche e dei trasporti; senza un’abolizione generale della proprietà privata, i lavoratori non diedero attenzione ulteriore ai suoi punti di vista e esporpriarono tutte le imprese. È interessante ricordare che il primo decreto del governo bolscevico fu diretto contro le espropriazioni selvagge e non autorizzate delle fabbriche per mezzo dei consigli dei lavoratori. Ma questi consigli (soviet) erano a quel tempo più forti dell’apparato di partito e obbligarono Lenin a emanare il decreto per la nazionalizzazione di tutte le imprese industriali. Fu solo sotto la pressione esercitata dai lavoratori che i bolscevichi acconsentirono a questo cambio nei loro piani. Gradualmente, attraverso l’estensione del potere statale, l’influenza dei consigli s’indebolì, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui i consigli non servono altro che a scopi decorativi.

Durante i primi anni della rivoluzione, sino all’introduzione della Nuova Politica Economica (New Economic Policy, NEP) (1921), ci fu di sicuro qualche sperimentazione in Russia in senso comunista. Questo, però, non è da accreditare a Lenin, ma a quelle forze che lo resero un camaleonte politico che una volta assumeva un colore reazionario e un’altra un colore rivoluzionario. Inizialmente nuove rivolte contadine contro i bolscevichi portarono Lenin a una politica più radicale, un’enfasi più forte agli interessi degli operai e dei contadini poveri che si erano ritrovati a mani vuote dopo la prima distribuzione della terra. Ma poi questa politica si dimostra un fallimento, in quanto i contadini poveri, i cui interessi sono quindi privilegiati, si rifiutano di appoggiare i bolscevichi e Lenin “rivolge il suo sguardo ancora verso i contadini medi”. In tal caso Lenin non ha scrupoli nel rafforzare da capo gli elementi di capitale privato, e gli alleati di prima, che sono ora cresciuti in modo indesiderato, vengono abbattuti con i cannoni, com’è avvenuto a Kronstadt.

Il potere, e niente di meno che il potere: è a questo che l’intera saggezza politica di Lenin in fine si riduce. Il fatto che i modi con i quali si ottiene, i mezzi che portano al potere, determinano a loro volta la maniera in cui tale potere è applicato, era una materia che gli interessava poco. Il socialismo, per lui, era in ultima istanza semplicemente una sorta di capitalismo di Stato, seguendo il “modello del servizio postale tedesco”. E questo capitalismo di Stato colse sulla sua strada, perché in realtà non c’era null’altro da prendere. Fu semplicemente una questione di chi sarebbe stato il beneficiario del capitalismo di Stato, e qui Lenin non diede la precedenza a nessuno. E pertanto George Bernard Shaw, tornando dalla Russia, fu alquanto corretto quando, in una lezione davanti alla Società Fabiana a Londra, affermò che “il comunismo russo non è niente più che la messa in pratica del programma fabiano che noi abbiamo predicato negli ultimi quarant’anni”.

Ancora nessuno, tuttavia, ha avuto il sospetto che i fabiani costituiscano una forza rivoluzionaria mondiale. E Lenin è di sicuro prima di tutto acclamato come un rivoluzionario mondiale, nonostante il fatto che il presente governo russo con il quale il suo “patrimonio” è amministrato diffonde smentite enfatiche quando la stampa pubblica articoli di brindisi russi alla rivoluzione mondiale. La leggenda della significatività mondiale rivoluzionaria di Lenin riceve il suo nutrimento dalla sua coerente posizione internazionale durante la guerra. Fu alquanto impossibile per Lenin a quel tempo concepire che una rivoluzione russa non avrebbe avuto ulteriori ripercussioni e sarebbe stata abbandonata a se stessa. C’erano due ragioni per questo punto di vista: primo, perché tale pensiero era in contraddizione con la situazione oggettiva risultante dalla guerra mondiale; e secondo, egli sosteneva che l’attacco delle nazioni imperialiste contro i bolscevichi avrebbe rotto la schiena della rivoluzione russa se il proletariato dell’Europa occidentale non fosse venuto in suo soccorso. La chiamata di Lenin per la rivoluzione mondiale era primariamente una chiamata in supporto e per il mantenimento del potere bolscevico. La prova che non fu molto più che questo è fornita dalla sua incoerenza in questa questione: in aggiunta alle sue richieste per la rivoluzione mondiale, allo stesso tempo venne fuori con il “diritto di autodeterminazione di tutti i popoli oppressi”, per la loro liberazione nazionale. Anche questa partita doppia proviene allo stesso modo dal bisogno giacobino dei bolscevichi di mantenere il potere. Con entrambi gli slogan le forze di intervento dei paesi capitalisti negli affari russi erano indebolite, in quanto la loro attenzione veniva deviata sui loro stessi territori e colonie. Ciò permise ai bolscevichi di respirare. Al fine di renderla più lunga possibile, Lenin istituì la sua Internazionale. Essa stabilì per se stessa un doppio compito: da una parte, subordinare i lavoratori dell’Europa occidentale e dell’America alla volontà di Mosca; dall’altra, rafforzare l’influenza di Mosca sulle genti dell’Asia orientale. Il lavoro sul campo internazionale era modellato sul seguito del corso della rivoluzione russa. L’obiettivo era quello di combinare gli interessi dei lavoratori e dei contadini su scala mondiale e di controllarli attraverso i bolscevichi, per mezzo dell’Internazionale Comunista. In questo modo almeno il potere statale bolscevico in Russia riceveva supporto; e nel caso in cui la rivoluzione mondiale dovesse diffondersi veramente, il potere sul mondo sarebbe a portata di mano. Anche se il primo progetto aveva avuto successo, allo stesso tempo il secondo non era stato ultimato. La rivoluzione mondiale non fu in grado di progredire come un’imitazione allargata di quella russa, e le limitazioni nazionali della vittoria in Russia necessariamente fecero dei bolscevichi una forza contro-rivoluzionaria sul piano internazionale. Perciò anche la richiesta della “rivoluzione mondiale” fu convertita nella “teoria di costruire il socialismo in un solo paese”. E questa non è una perversione di una posizione leninista – come Trotsky, per esempio, asserisce oggi – ma la conseguenza diretta di una pseudo politica di rivoluzione mondiale perseguita da Lenin stesso.

Era chiaro a quel tempo, addirittura a molti bolscevichi, che la restrizione della rivoluzione alla Russia avrebbe fatto della rivoluzione russa stessa un fattore per il quale la rivoluzione mondiale sarebbe stata impedita. Così, per esempio, Eugene Varga scrisse nel suo libro “Problemi economici della dittatura del proletariato”, pubblicato dell’Internazionale Comunista (1921): “Esiste il pericolo che la Russia possa essere eliminata come forza motrice della rivoluzione internazionale…Ci sono comunisti in Russia che si sono stancati di aspettare la rivoluzione europea e sperano di trarre il meglio dal loro isolamento nazionale… Con una Russia che considererebbe la rivoluzione sociale degli altri paesi come una materia con la quale non avrebbe niente a che vedere, i paesi capitalisti sarebbero in ogni caso in grado di vivere pacificamente con rapporti di buon vicinato. Sono lontano dal credere che il soffocamento della rivoluzione russa sarebbe in grado di fermare il progresso della rivoluzione mondiale. Ma quel progresso sarebbe rallentato”. E con l’inasprirsi delle crisi interne in Russia intorno al quel periodo, non ci volle molto tempo prima che tutti i comunisti, incluso Varga stesso, maturassero la sensazione di cui Varga qui si lamenta. Infatti, ancora prima, addirittura nel 1920, Lenin e Trotsky si presero la briga di arginare le forze rivoluzionarie d’Europa. La pace in tutto il mondo era necessaria al fine di assicurare la costruzione del capitalismo di Stato in Russia sotto gli auspici dei bolscevichi. Era sconsigliabile avere questa pace disturbata dalla guerra o da nuove rivoluzioni, in entrambi i casi un paese come la Russia sarebbe stato tirato in ballo di sicuro. Perciò, Lenin impose, con divisioni e intrighi, un corso neoriformista al movimento dei lavoratori dell’Europa Occidentale, un corso che portò alla sua totale dissoluzione. Fu con parole argute che Trotsky, con l’approvazione di Lenin, accese la sollevazione nella Germania Centrale (1921): “Noi dobbiamo dire chiaro e tondo ai lavoratori tedeschi che consideriamo questa filosofia dell’offensiva come il più grande pericolo e nella sua applicazione pratica come il più grande crimine politico”. E in altre situazioni rivoluzionarie nel 1923, Trotsky dichiarò al corrispondente del Manchester Guardian, ancora con l’approvazione di Lenin: “Noi siamo certamente interessati alla vittoria della classe dei lavoratori, ma non è per niente nel nostro interesse che scoppi la rivoluzione in Europa, la quale è dissanguata ed esausta, e che il proletariato riceva dalle mani della borghesia nient’altro che rovine. Noi siamo interessati nel mantenimento della pace.” E dieci anni dopo, quando Hitler salì al potere, l’Internazionale Comunista non mosse un dito per prevenirlo. Trotsky non è solo in errore, ma rivela una perdita di memoria risultante senza dubbio dalla perdita della sua uniforme, quando oggi caratterizza il fallimento di Stalin nell’aiutare la Germania comunista come un tradimento dei principi del leninismo. Questo tradimento fu costantemente praticato da Lenin, e da Trotsky stesso. Ma in accordo con un detto di Trotsky, la cosa importante è certamente non cosa viene fatto, ma chi lo fa.

Stalin è, in realtà, il discepolo migliore di Lenin, per quanto riguarda il suo atteggiamento nei riguardi del fascismo tedesco. I bolscevichi non si sono neanche certamente fermati dall’entrare in alleanza con la Turchia e dal fornire supporto politico ed economico al governo di quel paese anche quando le misure più aspre erano state prese contro i comunisti – misure che frequentemente eclissarono persino le azioni di Hitler.

In visione del fatto che l’Internazionale Comunista nella misura in cui essa stessa continua a funzionare è meramente un’agenzia del settore turistico russo, in vista del collasso in tutti i paesi dei movimenti comunisti controllati da Mosca, la leggenda di Lenin il rivoluzionario mondiale è senza dubbio talmente indebolita che si potrebbe contare sulla sua scomparsa nel futuro prossimo. E di sicuro anche oggi i ruffiani dell’Internazionale Comunista non operano più con l’idea della rivoluzione mondiale, ma parlano della “Patria dei lavoratori”, dalla quale attingono il loro entusiasmo finché non sono forzati a viverci come lavoratori. Quelli che continuano ad acclamare Lenin come il rivoluzionario mondiale par excellence in realtà si entusiasmano per nulla più che i sogni politici di potere mondiale di Lenin, sogni che scemano nel nulla alla luce del giorno.

La contraddizione esistente tra la significatività storica reale di Lenin e quella che è generalmente ascritta a lui è più grande e allo stesso tempo più inscrutabile di quella di qualsiasi altro personaggio agente nella storia moderna. Abbiamo mostrato che non può essere considerato il responsabile del successo della rivoluzione russa, e anche che la sua teoria e pratica non può, come si fa spesso, essere apprezzata come d’importanza rivoluzionaria mondiale. Né, malgrado tutte le affermazioni contrarie, Lenin può essere considerato come uno che ha esteso o integrato il Marxismo. Nel lavoro di Thomas B. Brameld intitolato “Un approccio filosofico al comunismo”, recentemente pubblicato dall’Università di Chicago, il comunismo è ancora definito come “una sintesi delle dottrine di Marx, Engels e Lenin.” Non è solo in questo libro, ma anche in generale, e in particolare nella stampa del partito comunista, che Lenin è piazzato in tale relazione con Marx ed Engels. Stalin ha denotato il leninismo come il “marxismo nel periodo dell’imperialismo”. Tale posizione, tuttavia, ricava la sua unica giustificazione da un’infondata sopravalutazione di Lenin. Lenin non ha aggiunto al marxismo un singolo elemento che può essere giudicato come nuovo e indipendente. La prospettiva filosofica di Lenin è il materialismo dialettico come sviluppato da Marx, Engels e Plekhanov. È a questo che si riferisce in connessione con tutti i problemi importanti: è il suo criterio in ogni cosa e la sua corte d’appello finale. Nel suo principale lavoro filosofico, “Materialismo ed Empirocriticismo”, Lenin semplicemente ripete Engels tracciando le opposizioni dei diversi punti di vista filosofici intaccando la grande contraddizione: Materialismo vs Idealismo. Mentre per la prima posizione, la Natura è primaria e la Mente secondaria; per l’altra è vero esattamente l’opposto. Questa formulazione precedentemente nota è documentata da Lenin con materiale aggiuntivo proveniente dai vari campi di conoscenza. E così non si può pensare a un arricchimento essenziale della dialettica marxiana da parte di Lenin. Nel campo della filosofia, parlare di una scuola leninista è impossibile.

mercoledì 14 luglio 2010

Marxismo. L'ultimo rifugio della borghesia?

Paul Mattick (Meriln Press)

La parte importante del titolo di questo lavoro postumo di Paul Mattick (morto nel 1981) è il punto di domanda, in quanto Mattick non considera per nulla il Marxismo “borghese”. Egli, tuttavia, voleva spiegare come il “Marxismo” è divenuto un’ideologia dei regimi e dei movimenti che non hanno assolutamente nulla a che fare con il fine di Marx di una comunità mondiale senza classi, Stati e salari.

La prima parte del libro si occupa di una discussione dell’economia marxiana, dove Mattick inizia a spiegare il perché così tanti accademici si sono ritrovati a immaginarsi marxisti senza avere compreso per nulla quale era il fine di Marx. Così molti saggi sono stati pubblicati sul valore, sul prezzo, e sul così detto problema della “trasformazione” di uno nell’altro, senza che gli autori capissero che Marx puntava all’abolizione del sistema dei prezzi e che per lui “valore era una categoria storica [che] è destinata a scomparire con la fine del capitalismo”. Chiaramente, il “problema della trasformazione” sbiadisce nell’insignificante di fronte alla proposta di abolire il prezzo e il valore. Similmente, questi accademici, che usano le idee di Marx per dare raccomandazioni politiche ai governi, non hanno realizzato che “la teoria marxista punta non a risolvere ‘problemi economici’ della società borghese ma a mostrare la loro insolubilità”. Come scrive Mattick, “Marx era un socialista, non un economista”.

Quando Mattick scrive sull’economia marxista, quindi, è sulla nostra stessa lunghezza d’onda, anche se noi non possiamo sempre concordare con lui. Come, per esempio, sul supposto collasso economico del capitalismo in cui Mattick aveva creduto per tutta la sua vita politica e che ancora, nel suo ultimo libro, egli si aspettava accendesse la rivoluzione socialista.

La seconda parte del libro (che è più lucida e può essere letta separatamente prima, o senza, la più ostica prima parte) tratta del “Marxismo” come un movimento politico e ideologico. Qui Mattick ha delle cose assai pertinenti da dire, sottolineando che la socialdemocrazia tedesca nel suo periodo d’oro prima della Prima Guerra Mondiale vedeva il socialismo non come l’abolizione del sistema del lavoro salariato e il controllo della produzione da parte dei produttori [lavoratori], ma come il controllo di un governo democraticamente eletto di un Grande Cartello verso il quale questi vedevano tendere il capitalismo.

Questa concezione di capitalismo di Stato del “socialismo” fu più tardi abbandonata dai socialdemocratici (in favore di una franca accettazione dello status quo capitalista misto privato/statale) ma fu ereditata, e in gran parte raggiunta, dai bolscevichi. La Rivoluzione Russa, dice Mattick, era “una sorta di rivoluzione borghese” nella quale “le funzioni storiche della borghesia occidentale erano state assunte da un partito all’apparenza antiborghese”. E il seguente commento potrebbe essere venuto agevolmente da noi:

“Il regime bolscevico non aveva nessuna intenzione di abolire il sistema del lavoro salariato e non era quindi impegnato nel portare avanti una rivoluzione nel senso marxiano”

“Il sistema capitalistico fu modificato ma non abolito. La storia fatta dai bolscevichi era ancora storia capitalista nel travestimento ideologico del Marxismo”

In questo modo il “Marxismo” divenne l’ideologia dei regimi a capitalismo di Stato, una teoria del controllo totalitario della società da parte di una minoranza, mentre Marx aveva sempre parlato di una società senza classi e senza mezzi di coercizione. È un peccato che non ci saranno più libri scritti dalla penna di Mattick per far notare questo.

(Traduzione da Socialist Standard, gennaio 1985)