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venerdì 30 dicembre 2016

Come potrebbe essere il socialismo?

Il socialismo sarà una società globale basata sulla proprietà comune e sul controllo democratico delle risorse naturali e industriali del mondo. Ma ciò come potrebbe funzionare? Come saranno interessati la produzione, il processo decisionale e la cultura?

La produzione

Ci sarà una completa trasformazione nel calcolo delle risorse, e nelle collegate produzione e distribuzione. Nel capitalismo gli articoli della ricchezza (merci) sono prodotti per essere venduti e acquistati sui mercati, per un profitto. Questo commercio di merci genera: sprechi; inquinamento ed esternalità; sovrapproduzione e sottoproduzione; obsolescenza programmata; quantità a scapito della qualità; crisi e boom economici; povertà nell’abbondanza; occupazione per alcuni e spreco di potenzialità umane per i più; e ricchezza oscena per pochi.

Senza produzione di merci e senza commercio non ci saranno nessun valore di scambio e nessun prezzo, solo i dati di input e di output delle risorse e dei bisogni umani. Il processo decisionale avrà lo scopo di assicurare che ci sia sufficiente controllo delle scorte per soddisfare le esigenze proiettate attraverso il calcolo in natura.

Questo processo decisionale comprenderà anche: valutazioni di impatto ambientale; elevato standard di controllo di qualità e di durata; riciclaggio positivo - dove i prodotti saranno deliberatamente progettati in modo da garantire che durino più a lungo e quando avranno perso la loro utilità tutte le loro componenti saranno facilmente riciclati in altri prodotti utili; e le distanze di trasporto per la distribuzione dei beni in modo che sia utilizzato il percorso più breve possibile. Tale efficienza di calcolo assicurerà che l’energia richiesta dalla produzione di beni e servizi sarà mantenuta al minimo e promuoverà l’utilizzo di fonti di energia rinnovabili [e pulite].    

Il processo decisionale

In questo ambito il sistema sarà una democrazia partecipativa con l’uso di delegati. Nel capitalismo i partiti politici rappresentano interessi campanilistici, all’interno della classe capitalista. Tutti questi partiti sono in competizione per il controllo politico dello stato e del suo apparato di governo. Senza interessi di classe da rappresentare quando ci sarà la proprietà comune, non ci saranno partiti politici o apparato statale. Ciò nonostante, le questioni principali saranno gestite con decisioni prese su ciò che è il miglior modo di agire per ottenere un esito positivo.

Un processo decisionale dal basso che richiede partecipazione volontaria non può essere imposto da una gerarchia o da un’avanguardia, altrimenti il concetto diventa privo di significato. La struttura base è costituita dalle assemblee di comunità o di quartiere, riunioni faccia a faccia in cui i cittadini si riuniscono per discutere e votare sulle questioni del giorno, ciò non significa che sarà necessario votare su ogni questione in quanto la maggior parte del lavoro quotidiano svolto sarà di routine. Queste assemblee eleggeranno dei delegati con mandato e revocabili che poi si collegheranno con altre assemblee formando un consiglio confederale, una “comunità di comunità”. La differenza tra questa forma di democrazia con delegati e la nostra attuale forma di democrazia rappresentativa è che in quest’ultima il potere è dato quasi interamente al rappresentante che poi è libero di agire di propria iniziativa. In una democrazia con delegati l’iniziativa è imposta dal corpo elettivo e il delegato può essere richiamato in qualsiasi momento nel caso in cui il corpo elettivo sentisse che il suo mandato non fosse seguito, quindi il potere rimane al popolo.

La cultura

A causa dell’impatto della proprietà privata sulla comunità globale ci sarà perfino più di un incremento nelle scelte e nelle possibilità culturali di quanto ce ne siano sotto il capitalismo. Senza le restrizioni dei rapporti sociali conformati alla proprietà privata, gli individui e le comunità saranno in grado di concentrarsi su una celebrazione continua della libertà di espressione – che porterà a un incremento delle diversità culturali.

Le attività ricreative probabilmente aumenteranno nella portata e diminuiranno in termini di dimensioni. Attualmente, i pacchetti vacanza sono il modo più economico di prendere una pausa dalla fatica e dalla monotonia della linea di produzione o dell’ufficio, sono la forma più popolare di vacanza.  

Nel socialismo, dove il principio del libero accesso è alla base della proprietà comune dei mezzi di vita, le nostre possibilità e scelte su viaggi e vacanze sarebbero estese e influenzate dal contributo positivo che possiamo dare alla località che stiamo visitando. E con i pacchetti vacanza e il turismo di massa diventati una cosa del passato, è probabile che le vacanze nel socialismo non sarebbero limitate entro un arco di tempo che va dai 10 ai 14 giorni di edonismo frenetico, ma trasformate in una opportunità unica di soggiornare in un luogo particolare per tutto il tempo necessario per capire la storia e la cultura della regione.

La natura umana

Ma tutto questo non sarebbe contro la natura umana? No. I socialisti fanno una distinzione tra la natura umana e il comportamento umano. Che le persone siano in grado di pensare e di agire è un fatto di sviluppo biologico e sociale (natura umana), ma come esse pensino e agiscano è il risultato di specifiche condizioni sociali storiche (comportamento umano). La natura umana cambia, se non del tutto, su vasti periodi di tempo; il comportamento umano cambia in base alle condizioni sociali mutate. Il capitalismo essendo essenzialmente competitivo e predatore, produce modi di pensare e di agire viziosi e competitivi. Ma noi esseri umani siamo in grado di cambiare la nostra società e di adattare il nostro comportamento, e non vi è alcun motivo per cui il nostro desiderio razionale per il benessere e la felicità umani non dovrebbe permettere di realizzare e gestire una società basata sulla cooperazione. 

I bisogni hanno una dimensione fisiologica e storica. I bisogni fisiologici primari derivano dalla nostra natura umana (per es. il cibo, il vestiario e il riparo), ma i bisogni storicamente condizionati derivano dallo sviluppo delle forze produttive. Nel capitalismo i bisogni sono manipolati dall’imperativo di vendere merci e accumulare capitale; i bisogni fisiologici primari quindi assumono la forma storicamente condizionata di “bisogni” come per qualsiasi altra cosa che i capitalisti possono venderci.

L’evoluzione sociale suggerisce che nessun modo di produzione è scolpito nella pietra e che dinamiche del cambiamento riguardano anche il capitalismo come sistema sociale. Studi dei sistemi sociali con rapporti sociali distinti legati e corrispondenti al loro specifico modo di produzione hanno identificato, per esempio, il comunismo primitivo, la schiavitù, il feudalesimo e il capitalismo. Tutte queste società mutarono da una a un’altra a causa delle contraddizioni insite in quella società e anche a causa dello sviluppo tecnologico a cui ogni società non è stata in grado di adattarsi. Il capitalismo ha raggiunto questo punto più di un secolo fa. È il momento di passare al socialismo.

(Traduzione da The Socialist Standard, ottobre 2016)

sabato 25 aprile 2015

Dove ci guidano i leader

Traduciamo questo interessante articolo dei compagni del “Socialist Party of Great Britain” rivolto criticamente a uno dei vari gruppi britannici della cosiddetta “estrema sinistra”, poiché le considerazioni dell’autore si applicano in maniera abbastanza puntuale anche a quello che accade nel nostro paese per ciò che concerne la galassia dei partitini leninisti, trozkisti, stalinisti e maoisti: da “Lotta Comunista” al “Partito Comunista dei Lavoratori”, da “FalceMartello” fino al “Partito Comunista - Sinistra Popolare” e al “Bolscevico”. Con in più l’aggravante che in certi casi al discutibile metodo di Lenin se ne è sostituito da noi uno ancora peggiore: il cosiddetto “centralismo dialettico”, dove non vi sono più né congressi né votazioni, ma tutto avviene per pura cooptazione da parte della dirigenza. Direttamente la prassi di una setta esoterica o religiosa...
 
Piuttosto noto nel Regno Unito per le sue imprese, per i suoi banchetti in strada e per il suo attivismo studentesco, il Socialist Worker Party (SWP, https://www.swp.org.uk/) britannico soffrì un paio di anni fa di un notevole arretramento che condusse a un vero e proprio esodo dei suoi militanti. Uno di questi era Ian Birchall, biografo del fondatore del gruppo Tony Cliff e già componente della dirigenza del partito. Era stato membro dell’SWP e del suo gruppo predecessore, l’International Socialism (IS), per oltre cinquant’anni. Lo scorso dicembre ha pubblicato nel suo blog alcune riflessioni [1] su cosa è andato storto nel partito.
Quando venne formato negli anni ’50 come gruppo trotzkista che riconosceva la natura capitalista della cosiddetta URSS (cosa che noi ben sapevamo da parecchio tempo...) l’IS era organizzato allo stesso modo di molti altri gruppi di sinistra del Regno Unito: i suoi membri erano tutti affiliati al Partito Laburista e si definivano “laburisti di sinistra”. Poi negli anni ’60 le cose iniziarono a cambiare: uscirono dal Partito Laburista e nel 1968 Cliff decise che era il momento di riorganizzare il gruppo secondo linee guida leniniste più rigorose. Era stato lo sciopero generale in Francia di qualche mese prima a spingerlo in questa direzione. Tipicamente, da buon trotzkista, Cliff attribuiva l’impossibilità di arrivare alla rivoluzione socialista all’assenza di un partito rivoluzionario che guidasse i lavoratori in sciopero (non che la rivoluzione socialista fosse il reale obiettivo dello sciopero, tuttavia esso era effettivamente un successo da un punto di vista sindacale). Concluse quindi che ciò che i “rivoluzionari” dovevano fare alla luce di questo evento era di organizzarsi apertamente secondo le linee guida del partito bolscevico di Lenin, che, per lui e per la leggenda trotzkista, aveva condotto a una rivoluzione socialista vittoriosa (benché questa fosse successivamente degenerata in un brutale capitalismo di stato...).
Lenin aveva esposto le sue idee su come doveva essere organizzato un partito rivoluzionario nel noto opuscolo del 1903 intitolato “Che fare?”, dove proponeva un partito di rivoluzionari professionisti a tempo pieno che dovevano cercare di guidare i lavoratori e i contadini formulando parole d’ordine populiste che riflettessero il livello di comprensione che “le masse” erano considerate in grado di raggiungere. Ciò poteva avere un senso come strategia per rovesciare un regime retrogrado e autocratico quale lo zarismo. Come accadde, il regime zarista collassò per conto suo sotto la pressione della Prima Guerra Mondiale, ma la forma organizzativa di Lenin contribuì non poco alla presa del potere politico da parte dei bolscevichi dopo il crollo dello zarismo. Tale successo spinse Lenin a proclamare che quello bolscevico era l’unico modo in cui i rivoluzionari si dovevano organizzare, anche nei paesi capitalisti sviluppati là dove esisteva una stabile democrazia politica.
Così nel 1968 i membri dell’IS cambiarono nome sui loro documenti ufficiali da “lavoratori laburisti” a “lavoratori socialisti” e, più importante, abbandonarono la loro precedente struttura organizzativa dove la linea politica era decisa da una congresso di delegati di sezione che votavano mozioni proposte dalle sezioni e dove i membri del comitato esecutivo erano eletti individualmente. Tutto questo fu messo da parte e venne introdotto il sistema della “lista bloccata” che aveva usato il partito bolscevico e che era stato ereditato dal PCUS in Russia (sì, anche in questo il leninismo condusse allo stalinismo...). Con tale sistema la dirigenza (l’“ufficio politico”,il  “comitato centrale” o come vogliamo chiamarla) viene eletta in blocco al congresso di partito. I delegati non votano per i singoli candidati, ma per la lista (o “blocco”) che contiene tanti nomi quanti sono i posti vacanti. In teoria ci potrebbero essere più liste, ma in pratica non ce ne sono (e non ce ne sono mai state). Nell’SWP (come nell’URSS) ce n’era una sola, quella proposta dalla dirigenza uscente. Piuttosto che proporre una lista rivale, gli oppositori della dirigenza preferivano abbandonare il partito e formare un altro gruppo organizzato nello stesso modo (questo spiega la proliferazione di gruppi trotzkisti...). Si può vedere facilmente come sia una ricetta per la nascita di una dirigenza che si auto-replica. Cosa che infatti è puntualmente accaduta, come nota Birchall:
“Gli eventi recenti hanno mostrato i limiti del sistema della ‘lista bloccata’. È diventata un metodo con cui il Comitato Centrale può riproporsi per la rielezione all’infinito, cooptando singole persone designate quando serve.”
Ma anche nell’SWP vi è un’altra conseguenza:
“Inoltre è emersa pure l’idea della carriera: compagni, in generale ex-studenti, diventano funzionari a tempo pieno e, se hanno successo, entrano nell’apparato e divengono membri del Comitato Centrale. Così abbiamo un Comitato Centrale quasi interamente composto da persone che hanno speso la gran parte della loro carriera politica come funzionari a tempo pieno e hanno quindi una limitatissima esperienza lavorativa e sindacale.”Il sistema delle liste bloccate era applicato persino per eleggere i delegati di sezione al congresso di partito:
“Negli anni ’80, quando esistevano direttivi di sezione vigorosi, tali direttivi stabilivano le liste dei delegati al congresso di partito. Se ovviamente in teoria era possibile per i membri proporre liste alternative, questo era malvisto e, in pratica, era alquanto raro far porre all’ordine del giorno del congresso di sezione il punto in cui si raccoglievano le candidature per divenire delegati al congresso di partito. In pratica andava bene quello che faceva il direttivo: era ciò che accadeva normalmente.” Così l’SWP finì per essere un’organizzazione verticista gestita da un gruppetto di dirigenti che si auto-replicava.
Forse sorprende che Birchall non concluda che questo fosse il risultato inevitabile del sistema delle “liste bloccate”, un punto chiave nel concetto di partito leninista di avanguardia. Egli pensa ancora a un partito di rivoluzionari di professione organizzato in modo leninista. Non ce l’ha con la teoria, ma con come è stata applicata nell’SWP: burocraticamente invece che democraticamente. Però per lui “democrazia” non significa una procedura decisionale, ma soltanto un mezzo per informare la dirigenza in modo tale che possa formulare la politica migliore da perseguire e le parole d’ordine più adeguate da proporre ai lavoratori affinché le seguano:
“...una dirigenza rivoluzionaria necessita di sapere cosa accade nella classe lavoratrice. Non lo può fare leggendo il ‘Financial Times’; deve ascoltare i compagni radicati nella varie sezioni della classe che possono riportare quello che succede nella base. Come diceva Cliff: ‘...devono imparare dai loro compagni lavoratori quanto più possibile e persino in misura maggiore di quanto devono insegnare loro. Ripetendomi: il compito è dirigere e per dirigere dovete comprendere in pieno quelli che state dirigendo’.” Questa non è democrazia in nessun senso compiuto. Si sta ancora dicendo che la classe dei salariati e degli stipendiati è incapace di liberarsi da sé e che quindi necessita di un’avanguardia che si è autonominata. Si rifiuta ancora l’idea che il socialismo, in quanto società completamente democratica, possa esser stabilito solo democraticamente, sia nel senso di esser quello che vuole la maggioranza, sia nel senso di utilizzare metodi democratici. Per arrivare al socialismo la classe dei salariati e degli stipendiati necessita certamente di organizzarsi per conquistare il potere politico, per esempio in un partito politico, ma in un partito democratico, e non di seguire un partito di avanguardia o altri possibili capi.
Però c’è una cosa che Birchall sembra aver capito dopo più di cinquant’anni vissuti da trozkista-leninista:
“La cosa importante in questo momento è la battaglia delle idee, come disse William Morris: ‘il nostro compito particolare sarebbe quello di creare dei Socialisti’.” È una citazione dallo “Statement of Principles of the Hammersmith Socialist Society” stilato nel 1890. Ed è ciò che andiamo dicendo noi del “Socialist Party of Great Britain” da più di cento anni.

ADAM BUICK

tratto da “Socialist Standard”  pp. 16 e 17 , n. 1326, vol. 111, febbraio 2015. Tradotto in italiano il 12 aprile 2015.

NOTE
[1] http://grimanddim.org/political-writings/2014-so-sad/


K. Marx o V. I. Lenin? Il primo nel 1864 scrisse che “l'emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi”, mentre il secondo nel 1903, con l’opuscolo “Che fare?”, inventò il partito bolscevico di avanguardia: costituito da sedicenti “rivoluzionari di professione” (in genere studenti o intellettuali stipendiati con le quote dei lavoratori) sarà il germe di tutta la futura nomenklatura sovietica, rapace, repressiva e autoritaria. Il marxismo-leninismo non esiste: è una contraddizione in termini!

domenica 23 gennaio 2011

Il capitalismo e altri giochi da bambini

Il film, prodotto dal Movimento Socialista Mondiale nel 2005, cerca di spiegare in modo razionale e non ideologico il modo in cui viviamo oggi e suggerisce una possibile alternativa. Sottotitoli in italiano a cura di Gian Maria Freddi (traduzione) e Claudio M. (inserimento).












domenica 12 settembre 2010

La leggenda di Lenin

Paul Mattick 1935

Fonte: Archivio Kurasje

Scritto: da Paul Mattick, pubblicato in International Council Correspondence Vol. 2, n. 1, dicembre 1935 e ristampato nel Western Socialist Vol. 13 n. 3, gennaio 1946. Nel 1978 fu incluso in “Anti-Bolshevik Communism” di Paul Mattick edito da Merlin Press, Londra, 1978 ISBN: 0 850 36 222 7/9. La versione elettronica di questo testo fu prodotta da Kavosh Kavoshgar per Kurasje.
Tradotto da: Francesco Sartor con la collaborazione di Gian Maria Freddi, 2010

Più gialla e più coriacea diventa la pelle mummificata di Lenin, e più alto diventa il numero determinato statisticamente di visitatori al mausoleo di Lenin, meno la gente si preoccupa del vero Lenin e della sua significatività storica. Sempre più monumenti vengono eretti alla sua memoria, sempre più pellicole vengono fuori nelle quali lui è la figura centrale, sempre più libri scritti su di lui, e i pasticceri russi modellano dolci in forme che rassomigliano alla sua figura. E ancora lo sbiadirsi delle facce dei Lenin di cioccolata è associato alla poca chiarezza e all’improbabilità delle storie che vengono raccontate su di lui. Sebbene l’Istituto Lenin di Mosca potrebbe pubblicare la raccolta dei suoi lavori, questi non hanno più nessun significato in confronto alle leggende fantastiche che si sono formate attorno al suo nome. Appena la gente incominciò a preoccuparsi dei bottoni del colletto di Lenin, cessarono anche di preoccuparsi delle sue idee. Ognuno quindi si modella il proprio Lenin, e se non alla sua stessa immagine, in ogni caso secondo i propri desideri. Quanto la leggenda di Napoleone sta alla Francia e la leggenda di Federico alla Germania, tanto la leggenda di Lenin sta alla nuova Russia. Così come la gente una volta si rifiutava assolutamente di credere alla morte di Napoleone, e così come la gente sperò nella risurrezione di Federico, così in Russia ancor oggi ci sono contadini secondo i quali il nuovo “piccolo padre Zar” non è morto ma continua a indulgere il suo insaziabile appetito richiedendo a loro addirittura nuovi tributi. Altri accendono lumini eterni sotto la foto di Lenin: per loro lui è un santo, un redentore al quale si prega per un aiuto. Milioni di occhi fissano milioni di queste foto, e vedono in Lenin l’equivalente russo di Mosé, San Giorgio, Ulisse, Ercole, Dio o il Diavolo. Il culto di Lenin è diventato una nuova religione davanti la quale anche l’ateismo comunista felicemente si genuflette: rende la vita più facile in ogni aspetto. Lenin appare a loro come il padre dell’Unione Sovietica, l’uomo che rese possibile la vittoria della rivoluzione, il grande leader senza il quale loro stessi non esisterebbero. Ma non solo in Russia e non solo nella leggenda popolare, ma anche a una larga parte dell’intellighenzia marxista in tutto il mondo, la rivoluzione russa è diventata un evento mondiale addirittura così strettamente unito al genio di Lenin che si ha l’impressione che senza di lui la rivoluzione e quindi la storia mondiale avrebbe probabilmente potuto prendere un corso essenzialmente diverso. Una genuina e obiettiva analisi della rivoluzione russa, tuttavia, rivelerà immediatamente l’insostenibilità di tale idea.

“L’affermazione che la storia è fatta dai grandi uomini è da un punto di vista teorico completamente infondata.” Queste sono le parole con le quali Lenin stesso dà il via alla leggenda che insiste nel fare di lui l’unico responsabile del “successo” o del “crimine” della rivoluzione russa. Egli considerava la guerra mondiale determinante in merito alla diretta causa del suo scoppio e per il tempo del suo verificarsi. Sì; senza la guerra, dice, “la rivoluzione sarebbe stata probabilmente posticipata di decenni”. L’idea che lo scoppio e il corso della rivoluzione russa dipese in grandissima misura da Lenin necessariamente implica una completa identificazione della rivoluzione con la presa del controllo del potere da parte dei bolscevichi. Trotsky ha rimarcato l’effetto che l’intero credito per il successo della rivolta di Ottobre appartiene a Lenin; contro l’opposizione di tutti i suoi amici di partito, la risoluzione per l’insurrezione fu portata avanti da lui solo. Ma la presa del potere da parte dei bolscevichi non diede alla rivoluzione lo spirito di Lenin; al contrario, Lenin aveva talmente adattato se stesso alle necessità rivoluzionarie che praticamente egli eseguì completamente il compito della classe che lui apparentemente combatteva. Di sicuro spesso si afferma che con la presa del potere statale da parte dei bolscevichi la rivoluzione originariamente democratico-borghese fu senz’altro convertita in una socialista-proletaria. Ma è davvero possibile per chiunque credere seriamente che un singolo atto politico sia capace di rimpiazzare un intero sviluppo storico; che sei mesi – da febbraio a ottobre – siano sufficienti per formare i presupposti economici di una rivoluzione socialista in un paese che stava soltanto cercando di liberarsi dai suoi vincoli feudali e assolutisti, con lo scopo di dare più libero gioco alle forze del capitalismo moderno?

Fino alla rivoluzione, e in stragrande misura anche oggi, il ruolo decisivo nello sviluppo economico e sociale della Russia fu giocato dalla questione agraria. Su 174 milioni di abitanti prima della guerra, solo 24 milioni vivevano nelle città. Per ogni migliaia di lavoratori retribuiti, 719 erano occupati nell’agricoltura. Malgrado la loro enorme importanza economica, la maggioranza dei contadini conducevano ancora vite miserabili. La causa della loro situazione deplorabile era l’insufficienza di terra. Lo Stato, la nobiltà e i grandi proprietari terrieri assicuravano a loro stessi con brutalità asiatica un irragionevole sfruttamento della popolazione.

Dall’abolizione della servitù della gleba (1861) la scarsità di terra per le masse contadine era stata costantemente la questione attorno alla quale tutto il resto girava nella politica interna russa. Formò l’oggetto principale di tutti i tentativi di riforma, che vide in questo la forza motrice dell’imminente rivoluzione, la quale dovette essere sviata. La politica finanziaria del regime zarista, con le sue nuove imposte di tassazione indiretta, peggiorarono le condizioni dei contadini ancor di più. Le spese per l’esercito, la flotta, l’apparato statale arrivarono a proporzioni gigantesche; la porzione più grande del budget statale andò a propositi improduttivi, i quali rovinarono totalmente la fondazione economica dell’agricoltura.

“Libertà e terra” era la necessaria richiesta rivoluzionaria dei contadini. Sotto questa parola d’ordine si verificarono una serie di rivolte contadine che presto, nel periodo che va dal 1902 al 1906, assunsero una portata significativa. In combinazione con i movimenti di sciopero di massa dei lavoratori che prendevano luogo allo stesso momento, esse produssero un tale violento scompiglio nel cuore dello Zarismo che quel periodo potrebbe invero essere denotato come una “prova generale” per la rivoluzione del 1917. La maniera in cui lo Zarismo reagì a queste ribellioni è illustrata nel modo migliore dall’espressione del vice governatore della provincia di Tambov Bogdanovich: “Pochi arrestati, i più sono stai passati per le armi”. E uno degli ufficiali che aveva preso parte alla soppressione dell’insurrezione scrisse: “Tutto attorno a noi, spargimenti di sangue; ogni cosa in fiamme; abbiamo sparato, abbattuto, pugnalato.” Fu in questo mare di sangue e fiamme che nacque la rivoluzione del 1917.

Nonostante le sconfitte, la pressione dei contadini crebbe di più e più minacciosa. Portò alle riforme di Stolipin, che comunque, erano solo gesti vuoti, pieni di promesse che in realtà non aggiunsero alla questione agraria un singolo passo avanti. Ma una volta dato il mignolo, si vorrà presto prendere l’intero braccio. L’ulteriore peggioramento della situazione dei contadini durante la guerra, la sconfitta dell’esercito zarista al fronte, le crescenti rivolte nelle città, la caotica politica zarista, nella quale ogni ragione fu gettata a mare, il dilemma generale per tutte le classi della società, portò alla rivoluzione di febbraio, che prima di tutto fece emergere la situazione violenta della questione agraria; la quale era stata una questione calda per mezzo secolo. Il suo carattere politico, tuttavia, non era stato inculcato a questa rivoluzione dal movimento contadino; questo movimento semplicemente gli diede il suo grande potere. Nel primo annuncio del Comitato Esecutivo Centrale del Consiglio (soviet) dei lavoratori e dei soldati di San Pietroburgo la questione agraria non fu neppure menzionata. Ma i contadini presto imposero la loro presenza all’attenzione del nuovo governo. Stanchi di aspettare il governo per agire in merito alla questione agraria, in aprile e maggio del 1917 le masse contadine deluse incominciarono ad appropriarsi della terra da sole. I soldati al fronte, timorosi di non aver modo di prendere il loro pezzo nella nuova distribuzione, abbandonarono le trincee e si precipitarono nei loro villaggi. Portandosi le armi dietro, comunque, e così non dando altra scelta al nuovo governo di reprimerli. Tutti i suoi appelli al sentimento di nazionalità e sacralità degli interessi russi non erano di alcuna utilità contro l’urgenza delle masse di ottenere alla fine i loro bisogni economici. E questi bisogni comprendevano la pace e la terra. Fu detto a quel tempo che i contadini che venivano implorati di rimanere al fronte, altrimenti i tedeschi avrebbero occupato Mosca, erano alquanto indecisi e risposero agli emissari di governo: “E che cos’è quello per noi? Che diamine, noi veniamo dal Governo di Tamboff”.

Lenin e i bolscevichi non inventarono lo slogan vincente “Terra ai contadini”; piuttosto, essi accettarono che la vera rivoluzione contadina proseguiva indipendentemente da loro. Usando a loro favore il vacillante atteggiamento del regime di Kerensky, che sperava ancora di essere in grado di accomodare la questione agraria per mezzo di una discussione pacifica, i bolscevichi vinsero il favore dei contadini e furono così in grado di scacciare il governo di Kerensky e di assumere loro stessi il controllo del potere. Ma questo fu possibile per loro solo come agenti del volere contadino, sanzionando la loro appropriazione della terra, e fu solo attraverso il loro supporto che i bolscevichi furono in grado di mantenersi al potere.

Lo slogan “terra ai contadini” non ha nulla a che vedere con i principi comunisti. La frammentazione di un grande possedimento in un vasto numero di piccole imprese agricole indipendenti era una misura direttamente opposta al socialismo, e che poteva essere giustificata solo in virtù di una necessità tattica. I successivi cambiamenti nella politica contadina di Lenin e dei bolscevichi furono vani nell’apportare qualche cambiamento nelle necessarie conseguenze della sua politica opportunistica originale. Malgrado tutta la collettivizzazione, che fino ad ora è largamente limitata a lati tecnici del processo produttivo, l’agricoltura russa è ancor oggi in pratica determinata da interessi e motivi di economia privata. E questo implica l’impossibilità, anche in campo industriale, di approdare a non più di un’economia a capitalismo di Stato. Anche se questo capitalismo di Stato punta a trasformare completamente la popolazione agricola in salariati agricoli sfruttabili, questo obiettivo non è assolutamente possibile da ottenere in vista dei nuovi scontri rivoluzionari legati a tale avventura. La presente collettivizzazione non può essere considerata il compimento del socialismo. Questo diventa chiaro quando si tiene in considerazione il fatto che osservatori della scena russa come Maurice Hindus ritengono possibile che “anche se i Soviet dovessero collassare, l’agricoltura russa rimarrebbe collettivista, con il controllo forse più nelle mani dei contadini che del governo”. Comunque, anche se la politica agricola bolscevica dovesse portare al risultato desiderato, la situazione dei lavoratori rimarrebbe comunque inalterata. E neppure tale compimento sarebbe considerato una transizione al socialismo reale, in quanto questi elementi della popolazione ora privilegiati dal capitalismo di Stato difenderebbero i loro privilegi contro tutti i cambiamenti esattamente come i proprietari privati fecero prima al tempo della rivoluzione del 1917.

I lavoratori delle industrie formavano ancora una piccola minoranza della popolazione, ed erano coerentemente incapaci di imprimere alla rivoluzione russa un carattere conforme ai propri bisogni. Gli elementi borghesi che similmente combattevano lo zarismo retrocedettero davanti alla natura dei loro stessi compiti. Non potevano accedere alla soluzione rivoluzionaria della questione agraria, in quanto a un’espropriazione generale della terra avrebbe fatto seguito troppo facilmente l’espropriazione dell’industria. Né i contadini né i lavoratori li seguirono, e il destino della borghesia era deciso dalla temporanea alleanza tra questi ultimi gruppi. Non fu la borghesia ma i lavoratori a portare la rivoluzione borghese alla sua conclusione; il posto del capitalismo fu preso dall’apparato statale bolscevico sotto lo slogan leninista: “se capitalismo in ogni caso, allora facciamolo”. Di sicuro i lavoratori nelle città avevano rovesciato il capitalismo, ma solo allo scopo ora di convertire l’apparato del partito bolscevico nei loro nuovi padroni. Nelle città industriali la lotta dei lavoratori continuò sotto richieste socialiste, in modo apparentemente indipendente dalla rivoluzione contadina in corso allo stesso tempo ma in un senso decisivo determinato da quest’ultima. Le richieste rivoluzionarie originali dei lavoratori erano oggettivamente impossibili da portare a compimento. Dobbiamo riconoscerlo, i lavoratori erano in grado, con l’aiuto dei contadini, di vincere il potere statale per il loro partito, ma questo nuovo Stato presto assunse una posizione direttamente opposta a quella degli interessi dei lavoratori. Un’opposizione che persino oggi ha assunto forme che effettivamente permettono di parlare di uno “zarismo rosso”: soppressione degli scioperi, deportazioni, esecuzioni di massa, e quindi anche la nascita di nuove organizzazioni illegali che conducono una rivolta comunista contro il presente finto socialismo. L’attuale discorso riguardo a un’estensione della democrazia in Russia, al pensiero di introdurre una sorta di parlamentarismo, alla risoluzione dell’ultimo congresso dei soviet in merito allo smantellamento della dittatura, tutto questo è meramente una manovra tattica progettata per compensare l’ultimo atto di violenza da parte del governo contro l’opposizione. Queste promesse non sono da prendere seriamente, ma sono un risultato della pratica leninista, la quale era sempre ben calcolata per funzionare in due direzioni allo stesso tempo nell’interesse della sua stessa stabilità e sicurezza. Lo zigzagare della politica leninista deriva dalla necessità di conformarsi costantemente all’avvicendamento delle forza di classe in Russia in tale maniera che il governo possa sempre rimanere padrone della situazione. E così oggi si accetta ciò che si era respinto il giorno prima, o viceversa; un non principio è stato elevato a principio, e il partito leninista si concentra solo su una cosa, cioè, l’esercizio del potere di Stato ad ogni costo.

Qui, tuttavia, noi siamo interessati solo nel chiarire che la rivoluzione russa non fu dipendente da Lenin o dai bolscevichi, ma che l’elemento decisivo fu la rivolta contadina. E, su questo argomento, Zinoviev, ancora al potere a quel tempo e dalla parte di Lenin, aveva affermato durante l’undicesimo Congresso del Partito Bolscevico (marzo-aprile 1921): “Non fu l’avanguardia proletaria dalla nostra parte, ma il passaggio dalla nostra parte dell’esercito, perché noi chiedevamo la pace, che fu il fatto decisivo della nostra vittoria. L’esercito, comunque era formato da contadini. Se noi non avessimo avuto il supporto dei milioni di contadini soldati, la nostra vittoria sulla borghesia sarebbe stata fuori questione”. Il grande interesse dei contadini sulla questione della terra da un lato, e il minimo interesse da parte del governo dall’altro, permise ai bolscevichi di condurre una lotta vittoriosa per il governo. I contadini erano abbastanza disponibili a lasciare il Cremlino ai bolscevichi, solo a patto che questi non interferissero con la loro lotta contro i grandi proprietari terrieri.

Ma anche nelle città, Lenin non fu il fattore decisivo nel conflitto tra capitale e lavoro. Al contrario, egli fu impotentemente trascinato dalla scia dei lavoratori, i quali nelle loro richieste e misure effettive andarono ben oltre i bolscevichi. Non fu Lenin che condusse la rivoluzione, ma la rivoluzione condusse Lenin. Però non prima della rivolta d’Ottobre Lenin restrinse le sue originarie e risolute richieste al controllo della produzione, e desiderava fermarsi con la socializzazione delle banche e dei trasporti; senza un’abolizione generale della proprietà privata, i lavoratori non diedero attenzione ulteriore ai suoi punti di vista e esporpriarono tutte le imprese. È interessante ricordare che il primo decreto del governo bolscevico fu diretto contro le espropriazioni selvagge e non autorizzate delle fabbriche per mezzo dei consigli dei lavoratori. Ma questi consigli (soviet) erano a quel tempo più forti dell’apparato di partito e obbligarono Lenin a emanare il decreto per la nazionalizzazione di tutte le imprese industriali. Fu solo sotto la pressione esercitata dai lavoratori che i bolscevichi acconsentirono a questo cambio nei loro piani. Gradualmente, attraverso l’estensione del potere statale, l’influenza dei consigli s’indebolì, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui i consigli non servono altro che a scopi decorativi.

Durante i primi anni della rivoluzione, sino all’introduzione della Nuova Politica Economica (New Economic Policy, NEP) (1921), ci fu di sicuro qualche sperimentazione in Russia in senso comunista. Questo, però, non è da accreditare a Lenin, ma a quelle forze che lo resero un camaleonte politico che una volta assumeva un colore reazionario e un’altra un colore rivoluzionario. Inizialmente nuove rivolte contadine contro i bolscevichi portarono Lenin a una politica più radicale, un’enfasi più forte agli interessi degli operai e dei contadini poveri che si erano ritrovati a mani vuote dopo la prima distribuzione della terra. Ma poi questa politica si dimostra un fallimento, in quanto i contadini poveri, i cui interessi sono quindi privilegiati, si rifiutano di appoggiare i bolscevichi e Lenin “rivolge il suo sguardo ancora verso i contadini medi”. In tal caso Lenin non ha scrupoli nel rafforzare da capo gli elementi di capitale privato, e gli alleati di prima, che sono ora cresciuti in modo indesiderato, vengono abbattuti con i cannoni, com’è avvenuto a Kronstadt.

Il potere, e niente di meno che il potere: è a questo che l’intera saggezza politica di Lenin in fine si riduce. Il fatto che i modi con i quali si ottiene, i mezzi che portano al potere, determinano a loro volta la maniera in cui tale potere è applicato, era una materia che gli interessava poco. Il socialismo, per lui, era in ultima istanza semplicemente una sorta di capitalismo di Stato, seguendo il “modello del servizio postale tedesco”. E questo capitalismo di Stato colse sulla sua strada, perché in realtà non c’era null’altro da prendere. Fu semplicemente una questione di chi sarebbe stato il beneficiario del capitalismo di Stato, e qui Lenin non diede la precedenza a nessuno. E pertanto George Bernard Shaw, tornando dalla Russia, fu alquanto corretto quando, in una lezione davanti alla Società Fabiana a Londra, affermò che “il comunismo russo non è niente più che la messa in pratica del programma fabiano che noi abbiamo predicato negli ultimi quarant’anni”.

Ancora nessuno, tuttavia, ha avuto il sospetto che i fabiani costituiscano una forza rivoluzionaria mondiale. E Lenin è di sicuro prima di tutto acclamato come un rivoluzionario mondiale, nonostante il fatto che il presente governo russo con il quale il suo “patrimonio” è amministrato diffonde smentite enfatiche quando la stampa pubblica articoli di brindisi russi alla rivoluzione mondiale. La leggenda della significatività mondiale rivoluzionaria di Lenin riceve il suo nutrimento dalla sua coerente posizione internazionale durante la guerra. Fu alquanto impossibile per Lenin a quel tempo concepire che una rivoluzione russa non avrebbe avuto ulteriori ripercussioni e sarebbe stata abbandonata a se stessa. C’erano due ragioni per questo punto di vista: primo, perché tale pensiero era in contraddizione con la situazione oggettiva risultante dalla guerra mondiale; e secondo, egli sosteneva che l’attacco delle nazioni imperialiste contro i bolscevichi avrebbe rotto la schiena della rivoluzione russa se il proletariato dell’Europa occidentale non fosse venuto in suo soccorso. La chiamata di Lenin per la rivoluzione mondiale era primariamente una chiamata in supporto e per il mantenimento del potere bolscevico. La prova che non fu molto più che questo è fornita dalla sua incoerenza in questa questione: in aggiunta alle sue richieste per la rivoluzione mondiale, allo stesso tempo venne fuori con il “diritto di autodeterminazione di tutti i popoli oppressi”, per la loro liberazione nazionale. Anche questa partita doppia proviene allo stesso modo dal bisogno giacobino dei bolscevichi di mantenere il potere. Con entrambi gli slogan le forze di intervento dei paesi capitalisti negli affari russi erano indebolite, in quanto la loro attenzione veniva deviata sui loro stessi territori e colonie. Ciò permise ai bolscevichi di respirare. Al fine di renderla più lunga possibile, Lenin istituì la sua Internazionale. Essa stabilì per se stessa un doppio compito: da una parte, subordinare i lavoratori dell’Europa occidentale e dell’America alla volontà di Mosca; dall’altra, rafforzare l’influenza di Mosca sulle genti dell’Asia orientale. Il lavoro sul campo internazionale era modellato sul seguito del corso della rivoluzione russa. L’obiettivo era quello di combinare gli interessi dei lavoratori e dei contadini su scala mondiale e di controllarli attraverso i bolscevichi, per mezzo dell’Internazionale Comunista. In questo modo almeno il potere statale bolscevico in Russia riceveva supporto; e nel caso in cui la rivoluzione mondiale dovesse diffondersi veramente, il potere sul mondo sarebbe a portata di mano. Anche se il primo progetto aveva avuto successo, allo stesso tempo il secondo non era stato ultimato. La rivoluzione mondiale non fu in grado di progredire come un’imitazione allargata di quella russa, e le limitazioni nazionali della vittoria in Russia necessariamente fecero dei bolscevichi una forza contro-rivoluzionaria sul piano internazionale. Perciò anche la richiesta della “rivoluzione mondiale” fu convertita nella “teoria di costruire il socialismo in un solo paese”. E questa non è una perversione di una posizione leninista – come Trotsky, per esempio, asserisce oggi – ma la conseguenza diretta di una pseudo politica di rivoluzione mondiale perseguita da Lenin stesso.

Era chiaro a quel tempo, addirittura a molti bolscevichi, che la restrizione della rivoluzione alla Russia avrebbe fatto della rivoluzione russa stessa un fattore per il quale la rivoluzione mondiale sarebbe stata impedita. Così, per esempio, Eugene Varga scrisse nel suo libro “Problemi economici della dittatura del proletariato”, pubblicato dell’Internazionale Comunista (1921): “Esiste il pericolo che la Russia possa essere eliminata come forza motrice della rivoluzione internazionale…Ci sono comunisti in Russia che si sono stancati di aspettare la rivoluzione europea e sperano di trarre il meglio dal loro isolamento nazionale… Con una Russia che considererebbe la rivoluzione sociale degli altri paesi come una materia con la quale non avrebbe niente a che vedere, i paesi capitalisti sarebbero in ogni caso in grado di vivere pacificamente con rapporti di buon vicinato. Sono lontano dal credere che il soffocamento della rivoluzione russa sarebbe in grado di fermare il progresso della rivoluzione mondiale. Ma quel progresso sarebbe rallentato”. E con l’inasprirsi delle crisi interne in Russia intorno al quel periodo, non ci volle molto tempo prima che tutti i comunisti, incluso Varga stesso, maturassero la sensazione di cui Varga qui si lamenta. Infatti, ancora prima, addirittura nel 1920, Lenin e Trotsky si presero la briga di arginare le forze rivoluzionarie d’Europa. La pace in tutto il mondo era necessaria al fine di assicurare la costruzione del capitalismo di Stato in Russia sotto gli auspici dei bolscevichi. Era sconsigliabile avere questa pace disturbata dalla guerra o da nuove rivoluzioni, in entrambi i casi un paese come la Russia sarebbe stato tirato in ballo di sicuro. Perciò, Lenin impose, con divisioni e intrighi, un corso neoriformista al movimento dei lavoratori dell’Europa Occidentale, un corso che portò alla sua totale dissoluzione. Fu con parole argute che Trotsky, con l’approvazione di Lenin, accese la sollevazione nella Germania Centrale (1921): “Noi dobbiamo dire chiaro e tondo ai lavoratori tedeschi che consideriamo questa filosofia dell’offensiva come il più grande pericolo e nella sua applicazione pratica come il più grande crimine politico”. E in altre situazioni rivoluzionarie nel 1923, Trotsky dichiarò al corrispondente del Manchester Guardian, ancora con l’approvazione di Lenin: “Noi siamo certamente interessati alla vittoria della classe dei lavoratori, ma non è per niente nel nostro interesse che scoppi la rivoluzione in Europa, la quale è dissanguata ed esausta, e che il proletariato riceva dalle mani della borghesia nient’altro che rovine. Noi siamo interessati nel mantenimento della pace.” E dieci anni dopo, quando Hitler salì al potere, l’Internazionale Comunista non mosse un dito per prevenirlo. Trotsky non è solo in errore, ma rivela una perdita di memoria risultante senza dubbio dalla perdita della sua uniforme, quando oggi caratterizza il fallimento di Stalin nell’aiutare la Germania comunista come un tradimento dei principi del leninismo. Questo tradimento fu costantemente praticato da Lenin, e da Trotsky stesso. Ma in accordo con un detto di Trotsky, la cosa importante è certamente non cosa viene fatto, ma chi lo fa.

Stalin è, in realtà, il discepolo migliore di Lenin, per quanto riguarda il suo atteggiamento nei riguardi del fascismo tedesco. I bolscevichi non si sono neanche certamente fermati dall’entrare in alleanza con la Turchia e dal fornire supporto politico ed economico al governo di quel paese anche quando le misure più aspre erano state prese contro i comunisti – misure che frequentemente eclissarono persino le azioni di Hitler.

In visione del fatto che l’Internazionale Comunista nella misura in cui essa stessa continua a funzionare è meramente un’agenzia del settore turistico russo, in vista del collasso in tutti i paesi dei movimenti comunisti controllati da Mosca, la leggenda di Lenin il rivoluzionario mondiale è senza dubbio talmente indebolita che si potrebbe contare sulla sua scomparsa nel futuro prossimo. E di sicuro anche oggi i ruffiani dell’Internazionale Comunista non operano più con l’idea della rivoluzione mondiale, ma parlano della “Patria dei lavoratori”, dalla quale attingono il loro entusiasmo finché non sono forzati a viverci come lavoratori. Quelli che continuano ad acclamare Lenin come il rivoluzionario mondiale par excellence in realtà si entusiasmano per nulla più che i sogni politici di potere mondiale di Lenin, sogni che scemano nel nulla alla luce del giorno.

La contraddizione esistente tra la significatività storica reale di Lenin e quella che è generalmente ascritta a lui è più grande e allo stesso tempo più inscrutabile di quella di qualsiasi altro personaggio agente nella storia moderna. Abbiamo mostrato che non può essere considerato il responsabile del successo della rivoluzione russa, e anche che la sua teoria e pratica non può, come si fa spesso, essere apprezzata come d’importanza rivoluzionaria mondiale. Né, malgrado tutte le affermazioni contrarie, Lenin può essere considerato come uno che ha esteso o integrato il Marxismo. Nel lavoro di Thomas B. Brameld intitolato “Un approccio filosofico al comunismo”, recentemente pubblicato dall’Università di Chicago, il comunismo è ancora definito come “una sintesi delle dottrine di Marx, Engels e Lenin.” Non è solo in questo libro, ma anche in generale, e in particolare nella stampa del partito comunista, che Lenin è piazzato in tale relazione con Marx ed Engels. Stalin ha denotato il leninismo come il “marxismo nel periodo dell’imperialismo”. Tale posizione, tuttavia, ricava la sua unica giustificazione da un’infondata sopravalutazione di Lenin. Lenin non ha aggiunto al marxismo un singolo elemento che può essere giudicato come nuovo e indipendente. La prospettiva filosofica di Lenin è il materialismo dialettico come sviluppato da Marx, Engels e Plekhanov. È a questo che si riferisce in connessione con tutti i problemi importanti: è il suo criterio in ogni cosa e la sua corte d’appello finale. Nel suo principale lavoro filosofico, “Materialismo ed Empirocriticismo”, Lenin semplicemente ripete Engels tracciando le opposizioni dei diversi punti di vista filosofici intaccando la grande contraddizione: Materialismo vs Idealismo. Mentre per la prima posizione, la Natura è primaria e la Mente secondaria; per l’altra è vero esattamente l’opposto. Questa formulazione precedentemente nota è documentata da Lenin con materiale aggiuntivo proveniente dai vari campi di conoscenza. E così non si può pensare a un arricchimento essenziale della dialettica marxiana da parte di Lenin. Nel campo della filosofia, parlare di una scuola leninista è impossibile.

sabato 11 settembre 2010

Il contenuto economico del Socialismo. Marx vs Lenin

Il seguente articolo fa un’accurata descrizione di quello che Marx pensava. Se noi, dopo 150 anni, dovremmo pensare esattamente la stessa cosa su alcuni punti, è un’altra questione. Per esempio, non penso che abbiamo ancora bisogno di pensare in termini di un lungo “periodo politico di transizione” tra la cattura del potere politico da parte della classe lavoratrice di mentalità socialista e l’istituzione della “prima fase” della società socialista/comunista; né che abbiamo bisogno di pensare di dover usare i “buoni lavoro” in questa prima fase. Entrambi sono stati resi non necessari dal tremendo sviluppo delle forze di produzione dai tempi di Marx; il che significa che il socialismo/comunismo può essere istituito molto rapidamente dopo la cattura del potere politico e che possiamo far ricorso abbastanza velocemente al pieno libero accesso secondo i bisogni autodeterminati.

Il contenuto economico del Socialismo. Marx vs Lenin

mercoledì 4 agosto 2010

La delusione antimperialista

Nel corso del XX secolo il socialismo, nel suo significato, venne trasformato da una dottrina e indirizzo associati all'emancipazione della classe operaia in una dottrina e indirizzo associati al nascente potere delle élite nazionaliste e antimperialiste delle zone economicamente meno sviluppate del mondo.

Il punto di partenza fu rappresentato dalla presa del potere in Russia nel 1917 da parte di una élite, la quale aveva ereditato la sua ideologia dal movimento operaio, ma che in pratica usò lo stato per far sviluppare economicamente la Russia e trasformarla in un potere che sfidò il dominio mondiale dell'America, della Gran Bretagna e della Francia. Come tale, essa fornì un modello che attrasse le élite modernizzanti in altri paesi che soffrivano di un’arretratezza economica e della dominazione degli stati capitalisti industrialmente avanzati dell'Occidente.

Il guaio fu che questa élite continuò a usare il linguaggio e la terminologia del movimento operaio, con la quale essa un tempo era stata associata. In questo modo, descrissero la loro conquista del potere come una "rivoluzione dei lavoratori" e il loro regime come uno "stato dei lavoratori", la prima espressione del movimento operaio internazionale, che i lavoratori ovunque avevano il dovere di sostenere, e l'accumulazione del capitale, che loro effettuarono sotto gli auspici dello stato, non come capitalismo di stato, quale fu, ma come "socialismo".

Marx, il quale osservò che quando si studia la storia non bisognerebbe analizzare i movimenti sociali e politici da ciò che loro dicono di se stessi, ma dai loro concreti risultati, sarebbe stato il primo a comprendere (se non ad apprezzare) come il socialismo, anzi le sue proprie teorie, fosse diventato lo stendardo sotto il quale fu combattuta una lotta completamente differente.

La rivoluzione inglese degli anni quaranta del XVII sec. fu condotta sotto un'ideologia derivata dal Vecchio Testamento, quella francese degli anni novanta del XVIII sec. sotto un'ideologia derivata dai tempi dei Romani. La rivoluzione russa, che fu l'equivalente di quelle rivoluzioni antifeudali, fu condotta sotto un'ideologia derivata dal movimento operaio, ma essa non rappresentò il tentativo di realizzare il socialismo più di quanto la rivoluzione inglese lo fu di realizzare la Nuova Gerusalemme e quella francese la Repubblica romana.

Sebbene fu Mao a sostituire lo slogan "Proletari di tutti i paesi, unitevi" con quello "Popoli oppressi di tutto il mondo, unitevi", le radici di questo cambiamento di prospettiva risalgono a Lenin.

La "fase suprema" di Lenin

Nel suo esilio in Svizzera, nel mezzo della prima guerra mondiale, Lenin scrisse un pamphlet dal titolo L'imperialismo, fase suprema del capitalismo. In esso, egli sostenne che, attraverso un processo che si era completato a cavallo del secolo, il capitalismo aveva modificato il suo carattere. Il capitale industriale e quello bancario si erano fusi dando luogo al capitale finanziario e il capitalismo concorrenziale cedette al capitalismo monopolistico, il quale, attraverso trust, cartelli e altri accordi monopolistici, dominava la produzione. Dovendosi confrontare in casa propria con profitti calanti, questi monopoli si trovarono costretti dalle condizioni economiche a esportare capitali investendoli nelle zone economicamente arretrate del mondo, dove potevano essere realizzati profitti più elevati. Quindi, continuò Lenin, iniziò la lotta tra i più avanzati paesi industrializzati per assicurarsi le colonie dove tali "sovraprofitti" potevano essere realizzati.

Lenin esagerò sia il grado di concentrazione monopolistica a cui era giunto il capitalismo, sia la differenza tra il tasso di profitto realizzato in patria comparato con quello delle aree economicamente arretrate del mondo. Ma furono le implicazioni politiche della sua teoria che dovettero dimostrarsi più nocive per il movimento operaio.

Quando, dopo il 1917, Lenin divenne il capo del regime bolscevico in Russia, questa teoria fu diffusa per sostenere che i paesi imperialisti stavano sfruttando le popolazioni delle aree arretrate che loro controllavano e che anche una parte della classe operaia di questi paesi beneficiava dei sovraprofitti realizzati con lo sfruttamento imperialista, sotto forma di riforme sociali e salari più alti.

Tutto ciò era insensato nei termini dell'economia marxiana, la quale non misura il livello di sfruttamento dall'essere i salari più alti o più bassi, ma dal riferimento alla quantità di plusvalore prodotto in relazione al salario pagato. Utilizzando questa misura, i lavoratori dei paesi avanzati erano più sfruttati di quelli delle colonie, a dispetto dei loro salari più alti, poiché producevano più profitto per lavoratore.

La teoria diffusa da Lenin fece della lotta nel mondo non una lotta tra la classe internazionale dei lavoratori e quella dei capitalisti, ma tra stati imperialisti e antimperialisti. La lotta di classe internazionale predicata dal socialismo fu sostituita da una dottrina che predicava una lotta tra stati.

La stessa rivoluzione russa si svolse in un contesto antimperialista. Ciò che tutta l'analisi di Marx sottolineava era che il movimento operaio avrebbe prima trionfato nelle aree economicamente avanzate del mondo, non in aree economiche relativamente arretrate come la Russia. Lenin motivò questa contraddizione sostenendo che Marx aveva descritto la situazione che si presentava nella fase preimperialista del capitalismo, mentre, nella fase imperialista che si era affermata dopo la sua morte, lo stato capitalista era diventato così forte che la rottura non avrebbe potuto aver luogo in un paese capitalisticamente avanzato, ma nel più debole stato imperialista. La Russia zarista rappresentava l'anello più debole nella catena dei paesi imperialisti e questo spiegava perché proprio lì ebbe luogo la prima "rivoluzione dei lavoratori".

Ciò equivaleva a dire che la rivoluzione russa era la prima rivoluzione antimperialista, e in un certo senso essa lo fu. La Russia fu il primo paese a sfuggire alla dominazione dei paesi capitalisti occidentali e a seguire un modello di sviluppo economico che si serviva dello stato per il processo di accumulazione interno invece di contare sull'esportazione di capitale da altri paesi.

Nei primi tempi del regime bolscevico, quando la Russia dovette affrontare la guerra civile e l'intervento esterno delle potenze capitaliste occidentali, Lenin comprese che questa era una carta che egli avrebbe potuto giocare per cercare di salvare il suo regime. Giocare la carta antimperialista significava appellarsi alle "tribolanti masse" dell'Asia, non per realizzare il socialismo, ma le loro proprie rivoluzioni antimperialiste. I paesi "super-sfruttati" dovevano essere incoraggiati a cercare l'indipendenza, poiché questo avrebbe indebolito gli stati imperialisti che stavano facendo pressione sulla Russia bolscevica.

Questa strategia fu presentata al movimento operaio occidentale come una maniera per provocare una rivoluzione socialista nei loro paesi. Private dei loro sovraprofitti, le classi dominanti dei paesi imperialisti non sarebbero state più capaci di corrompere i lavoratori con riforme sociali e salari elevati e perciò questi avrebbero abbandonato il riformismo per abbracciare la rivoluzione.

Dopo la morte di Lenin nel 1924, questa strategia di costruzione di un "fronte antimperialista" contro l'Occidente fu continuata dai successori. Poiché essa insegnava che l'intero popolo di un paese colonizzato ha un comune interesse nell'ottenere l'indipendenza, p.e. un proprio stato, essa attrasse ideologi e politici nazionalisti di questi paesi.

Loro si rivolsero a tutti gli abitanti del paese e cercarono di condurli a una lotta comune per ottenere l'indipendenza. Come risultato, in questi paesi il "socialismo" venne associato con un nazionalismo militante piuttosto che con l'internazionalismo proletario, quale esso originariamente era stato. La lotta politica in questo caso non venne vista come una lotta tra la classe operaia e quella dei capitalisti, ma come una lotta di tutti gli elementi patriottici - operai, contadini e capitalisti insieme - contro una manciata di elementi non patriottici traditori, i quali si sarebbero venduti agli imperialisti stranieri.

Mentre in Europa, nel Nord America e in parti dell'America latina, il socialismo fu un movimento per l'emancipazione della classe operaia, rappresentato da varie e differenti correnti, in Asia e in seguito in Africa e nel resto dell'America latina indicò un movimento nazionalista antimperialista. Il marxismo, in senso proprio, non è mai realmente esistito in molti di questi paesi. Ciò che passò per marxismo fu in realtà il leninismo, il quale si rivolgeva a intellettuali rivoluzionari modernizzatori piuttosto che ai lavoratori. È stato solo verso la fine di questo secolo che gruppi di lavoratori in questi paesi hanno compreso che il leninismo e la sua ideologia antimperialista non ha nulla a che fare col socialismo. Ma il danno è stato comunque fatto. Per milioni di lavoratori in queste aree del mondo socialismo significa ancora nazionalismo e capitalismo di stato, che molti di loro considerano ancora come qualcosa di positivo piuttosto che una barriera alla cooperazione della classe operaia oltre le frontiere, la quale è una condizione essenziale per il socialismo.

Attraverso l'influenza che lo stato capitalista russo ebbe su una parte del movimento operaio dei paesi occidentali, questo è anche il significato che venne ad avere per molti militanti della classe operaia di questi stessi paesi. I dirigenti russi usarono i partiti comunisti degli altri paesi come strumenti ausiliari della loro politica estera, la quale era basata sugli interessi strategici della Russia come di una promettente potenza capitalistica (di stato). Ciò che era considerato "progressista" era ciò che coincideva con gli interessi della politica estera della Russia.

Durante gli anni cinquanta, la Russia si mosse verso una politica di accettazione dello status quo in accordo con l'Occidente, conosciuta come "coesistenza pacifica". I leninisti cinesi, che erano giunti al potere con Mao nel 1949, espressero differenti interessi di stato e cercarono, così, di diventare i campioni dell'"antimperialismo" al posto della Russia.

Le spaccature che si produssero nel movimento comunista mondiale non furono così provocate, come superficialmente potrebbe sembrare, dalle differenze circa le tattiche che il movimento operaio avrebbe dovuto perseguire, ma su quale cosiddetta politica estera socialista - della Russia o della Cina - si sarebbe dovuto sostenere. Questa non fu affatto una disputa che riguardava gli interessi della classe operaia, ma una disputa tra stati, nella quale i lavoratori erano chiamati a scegliere di quale politica estera desideravano essere le pedine.

La teoria leninista dell'imperialismo racchiudeva i semi di un tale ignominioso risultato sin dall'inizio, poiché essa indicò come più importante a livello mondiale non la lotta di classe ma quella tra stati, tra cosiddetti stati antimperialisti e progressisti e stati cosiddetti imperialisti e reazionari.* Ciò rappresentò una deviazione pericolosa dalla lotta di classe e condusse i lavoratori a sostenere l'uccisione nelle guerre di altri lavoratori nell'interesse dell'uno o dell'altro stato e della sua classe dirigente.

*Ciò ha condotto la sinistra, in questo secolo, a farsi paladina sino all'inverosimile di paesi con sistemi sociali e a volte tradizioni culturali ultrarretrati.

(Traduzione da Socialist Standard, agosto 1998, a cura di Giuseppe Sottile di Count Down)

giovedì 22 luglio 2010

Socialismo, Comunismo, Leninismo, Keynesismo

In primo luogo la distinzione tra socialismo e comunismo è un concetto assente in Marx per una ragione molto semplice, tale distinzione è un’invenzione di Lenin. Ma non del Lenin prerivoluzione di ottobre. Tale distinzione infatti è assente nell’articolo dell’“Enciclopedia” su Marx scritto da Lenin alla vigilia della prima guerra mondiale (1914) dove parla solamente di socialismo. Lenin fa questa distinzione tra socialismo e comunismo nel testo “I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione” (1917), affermando che “il socialismo si deve inevitabilmente sviluppare… gradualmente in comunismo”. Egli si riferisce alla nota del manifesto (fine della seconda sezione), identificando il “socialismo” con la “prima fase del comunismo” di Marx (K. Marx, Critica al Programma di Gotha, 1875). L’idea del socialismo come transizione tra capitalismo e comunismo non si basa su testi di Marx (P. Chattopadhyay, Economic Content of Socialism in Lenin, is it the same as in Marx? 1991).
Chiarito questo punto il MSM ci tiene a precisare che Marx non ha dubbi sul fatto che in una società comunista o socialista “il capitale monetario sarà completamente eliminato e insieme con esso saranno eliminati i travestimenti che esso assume nelle operazioni (economiche).” (K. Marx, Il Capitale, vol. II capitolo 2).

La storia chiaramente mostra che il partito bolscevico rovesciò la borghesia russa (utilizzando la questione agraria e il malcontento dei soldati-marinai) diventando una forza dittatoriale. Tale dittatura non fu del proletariato (ovvero della classe dei lavoratori) ma sofferta dal proletariato (imposta ai lavoratori). Il partito formato da un’avanguardia di rivoluzionari di professione non è l’unico “difetto” del leninismo, ma un tratto delineante della sua indole borghese, come direbbe Rosa Luxembrug, “giacobina”. Tale concetto non arriva dalla filosofia marxista, la quale è dalla parte dei lavoratori, ma dalla filosofia borghese Černyševskiana. Lenin sostituisce un’oligarchia dominante con un'altra. Per il lavoratore russo nulla era cambiato dal punto di vista dell’assoggettazione al capitale. La cosa che cambiò veramente fu che con la scusa del socialismo, i lavoratori persero ogni sorta di potere contrattuale: “ogni interferenza diretta dei sindacati nella direzione delle fabbriche dev’essere considerata decisamente dannosa e non permissibile” (V. I. Lenin, Role and Functions of the Trade Unions Under The New Economic Policy, Decision Of The C.C., R.C.P.(B.), 1922) e ancor peggio ogni sorta di diritto umano.

Maestro degli slogan Lenin usò la spontaneità dei consigli (soviet) di cui diffidava per conservare il potere politico. Lenin inoltre adottò a pieno la visione errata della Seconda Internazionale secondo cui il socialismo è una sorta di capitalismo di Stato. Marx aveva parlato di “accentramento di credito nelle mani dello Stato per mezzo di una banca nazionale” (nazionalizzazione), ma questo non era il socialismo ma il passaggio dalla proprietà borghese alla proprietà “degli individui associati” (Manifesto del partito comunista, K. Marx e F. Engels, 1848). Lenin confondeva la proprietà borghese con la proprietà privata in generale. Ciò derivava dal fatto che dal punto di vista economico, quando si atteneva a Marx, Lenin non riusciva a concepire nulla più di quanto era stato già scritto. Lenin creò quindi un sistema centralizzato e burocratico dal quale Stalin ne uscì come una sua naturale creatura.

Per non parlare del fatto che Lenin si oppose aspramente ai marxisti che coerentemente ritenevano che un paese arretrato come quello russo non poteva saltare la fase capitalistica, riconoscendo poi con la NEP l’errore… “Noi…pensavamo di stabilire – direttamente comandato dallo stato proletario – lo stato di produzione e distribuzione dei prodotti su linee comuniste in un piccolo paese di contadini. La vita ha mostrato il nostro errore” (per la fonte vedi P. Chattopadhyay, Economic Content of Socialism in Lenin, is it the same as in Marx? 1991). Non considerando che quando interpellato sul merito da Vera Ivanovna Zassulich, Marx si era mostrato molto cauto, affermando che “l’inevitabilità storica di questo processo è quindi esplicitamente limitato ai paesi dell’Europa Occidentale […] L’analisi nel “Capitale” non contiene una sola prova – né a favore né contro la vitalità della comunità di villaggio. Ma lo studio speciale che ho condotto sull’argomento e per il quale ho fatto uso di materiale originale, mi ha dato la convinzione che questa comunità di villaggio è alla base della rinascita della società Russa.” (K. Marx, Lettera di Karl Marx a Vera Ivanovna Zassulich, 1881).
Per quanto riguarda il valore, quando i mezzi di produzione e di distribuzione della ricchezza diventano proprietà comune dei produttori socializzati la legge del valore perde di senso, “tutta l’economia o è regolata dalla legge del valore o non è regolata dalla legge del valore. Non è possibile dire con Stalin, per esempio, che la legge del valore regola la sfera del consumo ma non la sfera della produzione; la legge o regola l’intera economia o non ne regola neppure una parte” (P. Mattick, Marx e Keynes, i limiti dell’economia mista, 1972). Inoltre, in accordo con Marx, il MSM ritiene che il modo di distribuzione dipende dal modo di produzione.

Il MSM ribadisce che come il keynesismo non favorisce il passaggio dal capitalismo al socialismo dal punto di vista economico non lo favorisce neanche dal punto di vista sociale.
Il keynesismo mette gli interessi dell’economia borghese in generale davanti agli interessi dei singoli capitalisti. Lo Stato (borghese) è lo strumento attraverso il quale tale mediazione, economia generale-singolo capitalista, avviene. Il keynesismo è applicato dalla classe capitalista fin quando è in grado di assicurare la realizzazione di profitto.
Anche se Keynes ha elaborato la sua teoria per il capitalismo maturo (paesi economicamente sviluppati) tale teoria ha effetti anche sui precapitalismi e/o capitalismi sottosviluppati.
Nel capitalismo maturo lo Stato, mediante la tassazione, le imprese statali e il prestito, finanzia, con il debito pubblico, le opere pubbliche a spese del capitale privato. Tale interevento statale è atto a diminuire temporaneamente la disoccupazione e aumentare temporaneamente il consumo (domanda effettiva) rilanciando, nel migliore dei casi, temporaneamente l’economia. Il capitale privato in primis perde, finanziando il debito, ma in secundis, se l’economia si riattiva adeguatamente vince su due fronti, in quanto creditore e in quanto produttore. Ovviamente il keynesismo non si è rivelato, dal punto di vista capitalista, infallibile e per questo ha subito critiche e trasformazioni.
Comunque in linea di principio nei paesi sviluppati un intervento keynesiano vincente allontana temporaneamente i lavoratori di tali paesi dalla necessità di organizzarsi in classe al fine di lottare contro il capitale in crisi.
“Insistendo sul fatto che solo il volume e non la direzione della produzione si doveva sottoporre alla pianificazione statale, Keynes faceva intendere di non aver interesse a modificare gli esistenti rapporti di classe ma di voler solo rimuovere le tendenze pericolose nei periodi di crisi” (P. Mattick, Marx e Keynes, i limiti dell’economia mista, 1972).
Keynes non si occupa direttamente dei paesi economicamente sottosviluppati, egli ritiene che “la collettività sarà propensa a consumare la massima parte della produzione, cosicché basterà un volume molto modesto di investimento per assicurare un’occupazione piena” (J.M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, 1936).
La disoccupazione nei paesi sottosviluppati non è però dovuta all’abbondanza di capitale ma alla sua scarsità quindi la teoria keynesiana non è pedissequamente applicabile. Gli investimenti di cui Keynes parla non sono una sua invenzione economica, ma sono frutto della tendenza naturale del capitalismo a investire capitale per ottenere più capitale.
Il capitale privato investito nei paesi sottosviluppati è generalmente estero e generalmente sottrae le risorse naturali da tali paesi. Anche le sovvenzioni, chiamati aiuti economici, che vanno nella costruzione di infrastrutture di questi paesi aiutano principalmente il capitale privato che si serve di tali infrastrutture.
A questo punto lo sviluppo di capitale nei paesi poveri viene ottenuto attraverso l’aumento della produzione che grazie all’intervento dello Stato (keynesianamente), il quale aumenta l’inflazione monetaria, tiene basso il consumo locale di tali prodotti e genera profitto nei paesi ricchi.
Questo amplia il divario tra i pochi ricchi e le masse di poveri che in questi paesi sottosviluppati è ancora più accentuato.
Se nei paesi sviluppati il keynesismo, finché funziona, imborghesisce i lavoratori, nei paesi sottosviluppati non crea le basi per un miglioramento delle masse povere le quali non hanno alcun potere contrattuale quindi alcuna possibilità di lottare convincentemente contro il capitale, nel loro caso classe dominante locale e capitale estero.
La ragione per la quale si ha il divario tra i movimenti dei lavoratori degli anni passati e quelli odierni non è il keynesismo ma la riduzione del potere contrattuale determinata dalla globalizzazione del mercato del lavoro.

Mattick, come il MSM, va oltre la critica dell’avanguardismo leninista, egli critica la mancanza dei seguenti concetti marxisti:

  1. “L’emancipazione della classe lavoratrice deve essere il lavoro della classe lavoratrice stessa”.
  2. La dittatura del proletariato non è la dittatura del Partito, com’era inteso da Lenin.
  3. Il socialismo è una società in cui i mezzi di produzione sono della società nel complesso (e non dello Stato/Partito), dove non ci sono classi sociali, quindi niente lavoro salariato, denaro e divisione del lavoro. Il socialismo non è quindi una fase (capitalismo di Stato) di passaggio dal capitalismo al comunismo.
  4. Democraticità del movimento dei lavoratori, che non è quindi gerarchico-centralizzato come quello bolscevico dove il leader è indiscusso e infallibile.
  5. Contro il culto della personalità, per un approccio scientifico e non dogmatico.
Di buono in Lenin c’è davvero poco e se si legge attentamente Mattick o gli scritti del Socialist Party of Great Britain (SPGB), si può notare chiaramente il riconoscimento soprattutto della sua battaglia contro il revisionismo della Seconda Internazionale.
Il MSM ha avuto origine dal SPGB, il quale esiste dal 1904 e deriva direttamente dal Social Democratic Federation (SDF) (1884), che annovera tra i suoi membri William Morris, Edward Aveling e Eleanor Marx.
La politica del MSM non è quella di “cancellare tutto”, ma sicuramente non quella di farsi corrompere dal giacobinismo piccolo borghese. Il MSM è dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati che ogni giorno sono alla mercé del capitale. Il MSM ha una struttura democratica dove non esistono leader.

domenica 18 luglio 2010

Che cos'è la proprietà comune

Il fondamento di qualsiasi società è il modo in cui i suoi membri sono organizzati per la produzione e la distribuzione della ricchezza. Se solo un gruppo della società controlla l’uso dei mezzi di produzione, vi è una società di classe. Un altro modo di esprimere la stessa idea è che i membri di questo gruppo o classe possiedono i mezzi di produzione, dal momento che poter controllare l’uso di qualcosa è come possederlo, con o senza dei titoli di proprietà legali.

Ne consegue che una società senza classi è una società in cui l’uso dei mezzi di produzione viene controllato da tutti i membri della società su una base equa, e non solamente da un solo gruppo con l’esclusione di tutti gli altri. James Burnham esprime bene questa idea nel suo libro La rivoluzione manageriale:

“Una società ‘senza classi’ vuol dire che all’interno della società non c’è nessun gruppo (ad eccezione, forse, di provvisori gruppi delegati liberamente eletti dalla comunità e soggetti sempre al richiamo) che eserciti, come gruppo, qualsiasi controllo speciale sull’accesso agli strumenti di produzione; e nessun gruppo che riceva, come gruppo, trattamento preferenziale nella distribuzione.”

In una società senza classi ogni membro può contribuire, a parità di condizioni con ogni altro membro, a decidere come i mezzi di produzione devono essere usati. Ogni membro della società è socialmente uguale e sta esattamente nella stessa relazione di ogni altro membro riguardo ai mezzi di produzione. Similmente, ogni membro della società ha accesso ai frutti della produzione su base uguale.

Non appena l’uso dei mezzi di produzione viene messo sotto il controllo democratico di tutti i membri della società, la proprietà di classe è abolita. In queste circostanze si può sempre dire che i mezzi di produzione appartengono a coloro i quali li controllano e ne approfittano, ma in questo caso si tratta dell’intera popolazione organizzata su base democratica, e si può dire perciò che i mezzi di produzione sono “comunemente posseduti” da tutti. La proprietà comune è stata definita come:

“Uno stato delle cose in cui nessuna persona viene esclusa dalla possibilità di controllare, usare e gestire i mezzi di produzione, distribuzione e consumazione. Ogni membro della società può acquisire la capacità, vale a dire l’opportunità di realizzare una varietà di scopi, per esempio, di consumare ciò che vuole, di usare i mezzi di produzione per i fini di lavoro socialmente necessari o non necessari, di amministrare la produzione e la distribuzione, di pianificare le risorse, e di prendere delle decisioni su scopi collettivi di breve termine e di lungo termine. La proprietà comune, quindi, riguarda ogni potenziale capacità dell’individuo di beneficiare della ricchezza della società e di partecipare al suo funzionamento” (Jean-Claude Bragard, Un’indagine sul concetto del comunismo di Marx).

Tuttavia, la parola “proprietà” può essere ingannevole poiché non porta alla luce completamente il fatto che il trasferimento a ogni membro della società del potere di controllare la produzione della ricchezza rende superfluo il concetto stesso di “proprietà”. Con la proprietà comune nessuno è escluso dalla possibilità di controllare o beneficiare dell’uso dei mezzi di produzione, cosicché il concetto di proprietà nel senso di possesso esclusivo non ha senso: nessuno è escluso, non c’è nessun non-proprietario.

Potremmo inventare qualche nuovo termine come “niente-proprietà” e dire che la società senza classi che prenderà il posto del capitalismo è una società di “niente-proprietà”, ma la stessa idea può essere espressa in modo diverso se la proprietà comune è intesa come un rapporto sociale e non come una forma di padronanza proprietaria. Questo rapporto sociale – uguaglianza fra gli esseri umani riguardo al controllo dell’uso dei mezzi di produzione – può ugualmente e correttamente essere descritto dai termini “società senza classi” e “controllo democratico” come da “proprietà comune” dal momento che questi tre termini sono differenti solo per il modo in cui lo descrivono da differenti punti di vista. L’uso del termine “proprietà comune” per fare riferimento al rapporto sociale basilare della società alternativa al capitalismo non significa in nessun senso perciò che la proprietà comune dei mezzi di produzione potrebbe esistere senza il controllo democratico.

Quando ci riferiamo a una società basata sulla proprietà comune, generalmente usiamo il termine “socialismo”, anche se non abbiamo niente da obiettare a quelli che usano il termine “comunismo”, dato che per noi questi termini significano esattamente la stessa cosa e sono interscambiabili.

Contro la proprietà statale

La proprietà comune non deve essere confusa con la proprietà statale, dato che un organo di coercizione, o uno stato, non può esistere nel socialismo. Una società di classe è una società con uno stato perché il controllo di un gruppo sui mezzi di produzione e l’esclusione del resto della popolazione non possono essere imposti senza coercizione, e perciò senza uno speciale organo per esercitare questa coercizione. D’altro canto, una società senza classi è una società senza stato perché tale organo di coercizione smette di essere necessario appena tutti i membri della società stanno nello stesso rapporto riguardo al controllo dell’uso dei mezzi di produzione. L’esistenza dello stato come strumento di controllo e di coercizione da parte della classe politica è del tutto incompatibile con l’esistenza del rapporto sociale della proprietà comune. La proprietà statale è una forma di padronanza proprietaria esclusiva la quale implica un rapporto sociale che è totalmente differente dal socialismo.

La proprietà comune è un rapporto sociale di uguaglianza e democrazia che rende superfluo il concetto di proprietà perché non ci sono più dei non-proprietari esclusi. La proprietà statale, invece, presuppone l’esistenza di una macchina governativa, un sistema legale, forze armate e altre caratteristiche di un organo di coercizione istituzionalizzato. I mezzi di produzione posseduti dallo stato fanno parte di un’istituzione che si oppone ai membri della società, che li costringe e li domina, sia come individui che come collettività. Sotto la proprietà statale la risposta alla domanda “chi possiede i mezzi di produzione?” non è “tutti” o “nessuno” come con la proprietà comune; la risposta è “lo stato”. In altre parole, quando uno stato possiede i mezzi di produzione, i membri della società restano non-proprietari, esclusi dal controllo. Sia legalmente che socialmente, i mezzi di produzione non appartengono a loro, ma allo stato, che si mantiene come un potere indipendente separandoli dai mezzi di produzione.

Lo stato non è un’astrazione che esiste indipendentemente dalla società e dai suoi membri; è un’istituzione sociale, e, come tale, un gruppo di esseri umani, una parte della società, organizzata in un particolare modo. Ecco perché lo stato si oppone agli interessi della maggior parte dei membri della società ed esclude la maggior parte di loro dal controllo dei mezzi di produzione. Dovunque c’è uno stato, c’è sempre un piccolo gruppo di esseri umani che stanno in rapporti differenti con esso rispetto alla maggior parte dei membri della società: non come dominati, né come esclusi, ma come dominatori e vietatori. Sotto la proprietà statale, questo gruppo controlla l’uso dei mezzi di produzione escludendo gli altri membri della società. In questo senso, questo gruppo possiede i mezzi di produzione, sia quando ciò è riconosciuto formalmente e legalmente sia quando non lo è.

Un’altra ragione per cui proprietà statale e socialismo sono incompatibili è che lo stato è una istituzione nazionale che esercita controllo politico su una limitata area geografica. Dato che il capitalismo è un sistema mondiale, la proprietà statale dei mezzi di produzione all’interno di una determinata area politica non può rappresentare l’abolizione del capitalismo, neanche in quell’area. Ciò significa l’istituzione di qualche forma di capitalismo di stato il cui modo di funzionamento è condizionato dal fatto che deve competere in un contesto di mercato mondiale contro altri capitali.

Dal momento che oggi il capitalismo è a livello mondiale, la società che sostituisca il capitalismo può solamente essere a livello mondiale. L’unico possibile socialismo oggi è il socialismo mondiale. Il socialismo, come il capitalismo, non può esistere in un solo paese. Perciò la proprietà comune nel socialismo è la proprietà comune del mondo, delle sue risorse naturali e industriali, a disposizione della società nel suo complesso. Il socialismo può solamente essere una società universale in cui tutto quello che è sopra la Terra è diventato l’eredità comune di tutta l’umanità, e in cui la divisione del mondo in stati ha ceduto il passo a un mondo senza frontiere con un’amministrazione democratica mondiale e anche democrazie locali e regionali.

(Traduzione da Socialist Standard, aprile 2005)

Movimento Socialista Mondiale non significa Craxi o Unione Sovietica

I termini Socialista, Comunista e Marxista sono oggigiorno usati troppo spesso a sproposito.

Essere Socialista, in Italia, per molte persone significa, aver fatto parte o aver votato per il PSI di Bettino Craxi, partito corrotto e travolto dallo scandalo mani pulite. Essere Comunista, sempre in Italia, significa per molti aver fatto parte o aver votato per il PCI, partito gerarchico e centralizzato filo sovietico (Lenin e Stalin), sgretolatosi nel 1989 con la caduta dell’Unione Sovietica. Essere Marxista, in Italia come nel mondo, significa, per molti essere Socialista o Comunista. Ad ogni modo la maggioranza dei lavoratori non ha un’idea chiara dell’originale significato di questi tre termini.

Ai tempi di Marx e Engels e di altri fondatori del Movimento Internazionale dei Lavoratori i termini socialista e comunista significavano la stessa cosa e venivano usati come sinonimi. È dopo che Marx (con l’aiuto economico e intellettuale di Engels) analizzò la società spiegandone il funzionamento e le sue contraddizioni che il Movimento Internazionale dei Lavoratori adottò ufficialmente l’analisi marxiana (proveniente direttamente da Marx).

In poche parole Marx ed Engels spiegavano che la società (capitalista) si basa sul profitto e che questo deriva dal lavoro non pagato ai lavoratori. I padroni della produzione di merci e di servizi quindi si arricchiscono sulle spalle dei lavoratori. Il socialismo o comunismo che Marx ed Engels avevano in mente era quindi una società non basata sul profitto, ma, una società dove il lavoro fosse socializzato, ovvero dove il frutto del lavoro andasse alla società intera e non al profitto dei padroni. Dopo la scomparsa di Marx ed Engels l’analisi marxiana fu portata avanti e sviluppata dai loro sostenitori in diverse direzioni diventando marxismo. Alcuni di questi sostenitori si allontanarono talmente dall’analisi di Marx ed Engels che ne tradirono le basi, ma continuarono a chiamarsi marxisti, socialisti o comunisti. Per questo motivo questi tre termini oggigiorno hanno perso il loro significato originale.

Il Movimento Socialista Mondiale è un movimento socialista o comunista come inteso da Marx ed Engels nel loro Manifesto del Partito Comunista del 1848.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti dei lavoratori solo per questo:

  1. Nelle lotte nazionali dei proletari (lavoratori) dei diversi paesi, i comunisti sottolineano e portano avanti gli interessi comuni di tutto il proletariato (la classe lavoratrice), indipendentemente dalla loro nazionalità.
  2. Nelle varie fasi di sviluppo che la lotta della classe lavoratrice contro la borghesia (i padroni) deve attraversare, i comunisti sempre e ovunque rappresentano gli interessi del movimento (dei lavoratori) come un'unica cosa.

Per questo motivo il Movimento Socialista Mondiale si considera marxista.
Il Movimento Socialista Mondiale… ha sempre definito il socialismo come una società democratica, senza denaro, estesa a tutto il mondo, fondata sul libero accesso di tutti alle ricchezze secondo i bisogni autodeterminati di ognuno. Ha sempre dichiarato che il socialismo può essere realizzato soltanto con mezzi democratici: quando una vasta maggioranza voterà consapevolmente per abolire il sistema sociale esistente sostituendolo con un altro, interamente nuovo, profondamente diverso.

Lavoratori e disoccupati d’Italia unitevi a quelli del resto del mondo nella lotta contro i padroni.