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martedì 3 aprile 2018

Capitalismo di Stato sovietico?


Storia di un’idea

Capitalismo di Stato sovietico?

di W. Jerome e A. Buick
(con postilla di R. Mondolfo)


La differenza fra il sistema sovietico e il sistema sociale dell’Europa occidentale e del Nord America sembra così marcata da giustificare una etichetta distintiva; e l’etichetta che è stata adottata per un sistema di proprietà statale dei principali mezzi di produzione è «socialismo». L’ampio accordo, tuttavia, non nasconde divergenze radicali di svariate gradazioni d’opinioni, che rifiutano di applicare la denominazione «socialismo» al sistema sovietico. Ma fra gli stessi dissenzienti non c’è accordo riguardo alla definizione che dovrebbe applicarsi. Il fine di questo saggio è considerare la storia di quella definizione che descrive l’Unione Sovietica come una società capitalista di Stato. Questa teoria è stata sostenuta da tre diversi gruppi ben distinti ideologicamente: 1) i marxisti ortodossi; 2) i «comunisti dei consigli»; 3) i leninisti dissidenti.

I Marxisti ortodossi

Riuscirà probabilmente una sorpresa per la maggior parte dei lettori apprendere che è la scuola di lingua inglese del marxismo tradizionale, derivante dalla Federazione socialdemocratica di Hyndman, e rappresentata dal piccolo Partito Socialista di Gran Bretagna (SPGB) e dagli ancor minori partiti fratelli dei paesi di lingua inglese (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda, Stati Uniti) quella che ha, senza esitazione, affermato che la rivoluzione bolscevica ha portato ad una società capitalista di Stato. Il SPGB si oppose alla guerra del 1914-18, e perciò approvò decisamente l’azione anti-imperialista dei bolscevichi russi, pur condannando la tattica leninista (che riteneva opportunista) sollecitante i lavoratori inglesi a sostenere il Partito laburista. Il SPGB riteneva che il partito bolscevico fosse formato da socialisti intenzionati ad introdurre un sistema di proprietà sociale. Tuttavia il SPGB predisse che questo tentativo sarebbe fallito per la mancanza di un requisito fondamentale per il socialismo, cioè l’esistenza di un’industria moderna e di un proletariato con mentalità socialista. Lenin stesso ammetteva che la proprietà sociale era fuori questione in Russia finché il capitalismo non avesse portato ad un alto sviluppo della produzione sociale. Egli si riferiva all’attività del settore nazionalizzato dell’economia (che era solo un piccolo settore a quel tempo) come ad una forma di capitalismo di Stato. Il SPGB citò Lenin su questo punto, ma ciò non bastava a definire il sistema sociale della Russia sovietica come capitalismo di Stato. La maggior parte della società russa, come Lenin ammetteva, consisteva in un classico sistema di rapporti capitalistici, ben noto in occidente, che coesisteva con una produzione contadina semifeudale e perfino con attività prefeudali di pastorizia e caccia. Poiché il SPGB credeva che lo sviluppo del capitalismo fosse una premessa necessaria al socialismo, esso non condannò Lenin e i bolscevichi. Tuttavia insistette nell’affermare che la Unione Sovietica non era una società socialista, e, inoltre, nel sostenere che il «dominio di una minoranza — sia pure minoranza marxista — non è socialismo». Fu solo nel periodo 1929-30 che cominciò ad applicare il termine capitalismo di Stato alla URSS, quando Stalin collettivizzò l’agricoltura e organizzò una produzione pianificata di merci sotto il controllo dello Stato. In Germania, diversamente dalla Gran Bretagna, i socialisti marxisti avevano un largo seguito e favorevoli prospettive per giungere a posizioni di governo. Dal 1918 il SPD era dunque partito di governo, e l’atteggiamento del suoi dirigenti di fronte al governo bolscevico era determinato più da considerazioni politiche immediate che da una analisi teorica. Perfino Karl Kautsky, la guida ideologica della socialdemocrazia tedesca (sebbene membro dell’opposizione formata dal Partito Socialista Indipendente nel 1918), non tentò alcuna particolare analisi economica della società sovietica. Tuttavia in vari suoi scritti di critica ai bolscevichi si riferì all’Unione Sovietica come a una società di capitalismo di Stato. In Terrorismo e comunismo egli dice: «il capitalismo industriale, lungi dall’essere un sistema privato, è diventato ora un capitalismo di Stato» «Oggi (…) ambedue, stato e burocrazia capitalista, sono fusi in un unico sistema». Tuttavia questo concetto non venne elaborato più a lungo; evidentemente Kautsky considerava la Russia matura solo per l’abolizione dei rapporti feudali della terra, ma non per l’abolizione del capitalismo. Entrambi, Kautsky ed i bolscevichi, credevano che la proprietà statale dei mezzi di produzione e un sistema di retribuzione mediante salario fossero compatibili col socialismo. Essi concordavano altresì nel ritenere che sebbene una società senza salariati e senza Stato possa essere possibile nel futuro, gli sforzi immediati dovessero essere diretti a fini meno ambiziosi. Kautsky e i bolscevichi non erano invece d’accordo sui mezzi adatti ad ottenere questo obiettivo minore. Molte critiche kautskiane al regime instaurato dai bolscevichi erano fondate sul fatto che la loro azione repressiva negava la democrazia politica, e senza democrazia politica la classe lavoratrice non poteva controllare la macchina economica a cui era soggetta, per cui era lasciata nella stessa posizione in cui si trovava in qualsiasi paese capitalista. Di fatto, i lavoratori russi erano in una situazione peggiore di quella del lavoratori di quei paesi dove prevaleva qualche forma di democrazia politica. Più tardi Kautsky parlò di Lenin «che usava il potere statale per la creazione del suo capitalismo di Stato». Egli spiegava che la Russia potrebbe diventare socialista «solo quando il popolo espropri gli espropriatori». «Un cambiamento nelle relazioni formali di proprietà non basta per stabilire il socialismo, perché occorre anche il controllo democratico dello Stato da parte del lavoratori. Mancando questo, i lavoratori si trovano, rispetto al problema del controllo del mezzi di produzione, nella stessa situazione che ha di fronte a sé il lavoratore nei paesi capitalisti». Per Kautsky il controllo democratico del mezzi di produzione attraverso il potere politico era la differenza essenziale fra socialismo e capitalismo di Stato. In scritti ulteriori erano usati da lui altri termini, ma la sua critica rimase sostanzialmente la stessa. Un altro eminente teorico, l’austriaco Otto Bauer, in linea con la tradizione critica marxista nei confronti della rivoluzione bolscevica, affermava che la mancanza di forti e vitali istituzioni democratiche in Russia, così come la sua arretratezza economica, impedivano il raggiungimento del socialismo. Ma a differenza di Kautsky, Bauer prevedeva una graduale maturazione e democratizzazione del regime sovietico. Egli riteneva che il programma di industrializzazione dei bolscevichi avrebbe condotto a una «razionalizzazione economica». Questa a sua volta avrebbe portato alla conseguenza che Bauer credeva derivante dallo sviluppo economico: la democrazia politica. Così egli si aspettava che il regime sovietico divenisse più democratico: «dal dittatoriale capitalismo di Stato sorgerà un ordinamento socialista della società». In certo senso il capitalismo di Stato russo stava costruendo il socialismo. Bauer credeva che la transizione dal capitalismo di Stato al socialismo non avrebbe richiesto una rivoluzione politica, e quindi si opponeva al veemente incitamento di Kautsky per una nuova rivoluzione russa contro i bolscevichi. Al pari di Kautsky, Bauer non usò sempre gli stessi termini nell’analisi dell’URSS come forma di capitalismo. Occasionalmente egli usò il termine «socialismo dispotico». I socialdemocratici tedeschi ed austriaci si opponevano ai bolscevichi a causa delle caratteristiche dittatoriali del loro potere. Quando definivano il regime sovietico «quale capitalismo di Stato», era più per motivi politici che economici. A differenza del SPGB e degli altri partiti socialisti, i socialdemocratici tedeschi non pensavano che il sistema della retribuzione mediante salario, la moneta e lo Stato fossero incompatibili col socialismo. Per i socialdemocratici tedeschi, socialismo significava il controllo democratico delle forze produttive di una società altamente industrializzata. Inoltre la rivalutazione del significato del sistema socio-economico sovietico negli anni ‘30 accentuava la distinzione fra il capitalismo tradizionale e la società sovietica. Nel 1940 l’eminente teorico socialdemocratico Rudolf Hilferding pubblicò una critica della teoria del capitalismo di Stato dell’URSS, nel periodico di lingua russa di New York, Socialist Courier. Hilferding indicava come segno distintivo del capitalismo un’economia di mercato, nella quale i prezzi sono il risultato di un minimo di concorrenza fra i diversi proprietari dei mezzi di produzione. Questa concorrenza «in ultima analisi dà origine alla legge del valore», e determina che cosa e quanto è prodotto. «Un’economia di Stato, tuttavia, elimina precisamente l’autonomia della legge economica... Non è più il prezzo, ma una commissione statale pianificatrice che determina la produzione». Hilferding definiva l’Unione Sovietica come una nuova organizzazione economica né capitalista, né socialista, come una economia di Stato totalitario. L’economia nazista tedesca e quella fascista italiana eran specie meno sviluppate di questo genere.

venerdì 13 agosto 2010

Il bisogno di socialismo

La storia del XX secolo è stata caratterizzata da rivoluzioni, controrivoluzioni, colpi, crolli di regime e guerre di genocidio. Il capitalismo sembra aver eliminato tutti i possibili rivali, benché ancora non risponda ai bisogni fondamentali della gente.

È vero che la privazione materiale – almeno in questa parte del mondo – è minore rispetto a quando il Partito Socialista della Gran Bretagna venne formato nel 1904. Ma è anche vero che da allora c’è stato uno sviluppo tremendo delle forze di produzione – i mezzi tecnici di produzione sufficienti per tutti – cosicché, malgrado l’incremento della popolazione mondiale che vi è stato nel frattempo, non vi è oggi uomo, donna o bambino in qualsiasi parte del mondo che dovrebbe fare a meno di cibo decente, vestiario, protezione o qualsiasi altra amenità della vita. Il fatto che la maggior parte della popolazione mondiale non abbia abbastanza per vivere decentemente serve da accusa potente al presente ordine sociale, il capitalismo.

Contraddizione fondamentale

Il motivo per essere contro il capitalismo e a favore del socialismo è sempre stato semplice. Con la divisione del lavoro risultante dall’uso di macchine e tecnologie sempre più sofisticate, l’umanità già coopera per produrre ciò che è necessario per sostenere la vita e l’attività sociale, ma quello che viene prodotto non appartiene a quelli che lo producono – la classe lavoratrice, coloro i quali sono obbligati a vendere le loro energie mentali e fisiche per vivere e che costituiscono la travolgente maggioranza della società – ma a una minuscola minoranza di persone privilegiate che, per circostanze storiche, possiede e controlla i mezzi di produzione della ricchezza.

Di conseguenza ciò che è prodotto appartiene a questa minoranza e quindi non è a disposizione dei membri della società per essere preso e usato per soddisfare i loro bisogni. I prodotti sono resi a loro disponibili solamente contro pagamento, ma quello che noi della classe lavoratrice possiamo permetterci è limitato dalla misura del nostro assegno salariale o stipendiale, il quale è sempre minore del nuovo valore incorporato in quello che produciamo. La differenza è il profitto – la fonte delle entrate privilegiate della minoranza possedente e lo scopo principale della produzione. Così, non solo il libero accesso a ciò che è prodotto è negato a quelli che, collettivamente, lo producono, ma quello che deve essere prodotto è dettato non da ciò che la gente vuole e necessita, ma da ciò che è maggiormente proficuo.

Questa contraddizione tra la produzione cooperativa/collettiva e l’appropriazione privata della produzione, risultante dai mezzi di produzione che sono monopolizzati da una minoranza, è la causa originaria dei problemi affrontati dalla classe lavoratrice maggioritaria in tutti i campi della vita.

Promettere di risolvere questi problemi, per es. l’alloggiamento, il trasporto, l’ambiente, la disponibilità di cibo, è la materia dei politici, ma i partiti e i politici che votiamo non li risolvono mai. Non perché sono disonesti o non abbastanza determinati o egoisti, ma perché non possono. I problemi che promettono di risolvere sono causati dal capitalismo e perciò non possono mai essere risolti finché al capitalismo è permesso di continuare.

Il capitalismo non può operare per tutti

Il capitalismo, essendo un sistema di profitto basato sul possedimento di classe dei mezzi di produzione, non può mai essere organizzato per operare nell’interesse di tutti. Esso mette sempre i profitti al primo posto. È la sua natura, la quale non può essere cambiata da nessun governo o da nessun altra forma di attività nel contesto del possedimento di classe e della produzione per profitto.

Questo è il motivo per cui il riformismo, che è un tentativo di fare operare il capitalismo nell’interesse di tutti, è in definitiva inutile. Al massimo può solamente piallare un po’ alcune delle parti più scabrose, almeno per alcune persone e per un periodo, ma non può mai risolvere i problemi dei lavoratori salariati o stipendiati.

Questa è la situazione; ciò che la classe lavoratrice, come classe che soffre di più per i problemi causati dal capitalismo, dovrebbe essere impegnata a fare è porre fine alle contraddizioni tra cooperazione nella produzione e appropriazione privata dei prodotti. Ciò può essere fatto solamente portando il possedimento in linea con la realtà produttiva, determinando una situazione dove ciò che è prodotto collettivamente è anche posseduto collettivamente; il che è possibile solamente quando i mezzi per produrre ricchezza sono diventati la proprietà comune di tutti i membri della società.

La soluzione socialista

Questo – la proprietà comune e il controllo democratico dei mezzi di produzione da parte e nell’interesse della società nel complesso – è il socialismo ed è l’unico scopo politico per cui vale la pena adoperarsi. Esso soltanto può fornire la struttura nella quale la produzione può essere “riorientata” non per realizzare profitti a favore di una classe possedente, ma per fornire ciò che la gente vuole e necessita. Sulle basi della proprietà comune e del controllo democratico, abbastanza cibo, vestiario, alloggio, trasporto, energia e altre necessità della vita potrebbero, dovrebbero e sarebbero prodotte per assicurare che nessuno, in nessuna parte del mondo, sia senza ciò di cui ha bisogno. La privazione materiale e le preoccupazioni riguardanti il soddisfacimento dei bisogni materiali – attorno alle quali gira oggi la maggior parte delle vite della gente – non esisterebbero più.

Ma il socialismo non riguarda solo il soddisfacimento dei bisogni materiali della gente. Quello nel socialismo sarà solo routine, una cosa data per scontato. Riguarderà anche il permettere a noi esseri umani di comportarci come gli animali sociali che, biologicamente, siamo. Noi non siamo solamente dipendenti l’uno dall’altro materialmente – dalla cooperazione per produrre ciò di cui abbiamo bisogno – ma anche psicologicamente e culturalmente. Ci siamo evoluti attraverso la cooperazione e abbiamo bisogno di cooperare e sentirci parte di una comunità come altri esseri umani, ma il capitalismo ci nega questo, perché si basa sulla competizione anziché sulla cooperazione. Vi è competizione non solo tra la classe possedente e la maggioranza esclusa – la cosiddetta lotta di classe – ma anche tra i membri della classe possedente per fare profitti – il che, su scala mondiale, porta a guerre e a preparativi per la guerra, per le fonti di materie prime, le rotte commerciali, i mercati e gli sbocchi di investimento – e tra i membri della maggioranza esclusa per i lavori e gli alloggi, alimentando nazionalismo, razzismo e xenofobia.

Il socialismo, mettendo fine alla divisione della società in classi antagoniste, e assicurando che vengano soddisfatti tutti a bisogni materiali di ogni essere umano, fermerà la corsa sfrenata al successo cui siamo costretti a partecipare sotto il capitalismo e creerà una vera comunità e un vero senso di comunità. La gente non sarà più alienata dalla sua natura sociale e dagli altri esseri umani.

In che modo arrivare al socialismo?

Quelli che costituirono il Partito Socialista in Gran Bretagna ebbero un’idea chiara di come il socialismo dovrebbe succedere: attraverso la classe di maggioranza lavoratrice che giunge a capire che essa è una classe sfruttata alla quale il capitalismo non ha niente da offrire, e con l’organizzazione sul campo politico, inseguendo senza compromessi l’unico scopo di strappare il controllo del potere politico alla classe capitalista in modo da usarlo per mettere fine al monopolio esistente della minoranza capitalista sui mezzi di produzione della ricchezza. Questa espropriazione politica e quindi economica veniva vista come un atto consapevole, democratico e politico.

Essa veniva vista come un atto rivoluzionario, non nel senso di rivolta e spargimento di sangue, ma nel senso di un passaggio decisivo, di una rottura, con la rapida conversione dei mezzi di produzione dal monopolio classista di una minoranza alla proprietà comune di tutta la gente. In altre parole, una rivoluzione sociale vista come un rapido e improvviso cambiamento nelle basi della società attuato con i mezzi politici.

A quel tempo c’erano altri che si facevano chiamare socialisti, che proponevano un altro approccio: la graduale trasformazione del capitalismo in socialismo attraverso una serie di riforme sociali che avrebbero dovuto migliorare le condizioni della classe lavoratrice con l’integrazione dei loro salari derivante da benefici statali e che avrebbero dovuto convertire le industrie individuali, una dopo l’altra, in servizi pubblici producendo ciò di cui la gente aveva bisogno non per profitto. Questo andava sotto vari nomi: gradualismo, fabianismo, revisionismo (quando proposto da ex-rivoluzionari marxisti), riformismo.

Il gradualismo fallisce

Questa strategia nega la necessità di una maggioranza socialista consapevole come condizione preliminare per istituire il socialismo. Secondo i suoi proponenti, tutto ciò che era necessario era una maggioranza parlamentare acquisita sulla base di voti per un programma di riforme da essere realizzate nel capitalismo. È stata una strategia sperimentata, in Gran Bretagna, nel 1945 quando il Partito Laburista ebbe una vittoria elettorale schiacciante che gli diede un’enorme maggioranza parlamentare.

Ma non funzionò. Il Partito Laburista, avendo preso la responsabilità di governare il capitalismo, si rese conto, come durante i governi di minoranza in Inghilterra nel 1924 e 1929-1931, che il capitalismo doveva essere governato seconde le proprie regole: cioè la priorità doveva essere data alla produzione di profitto non a miglioramenti sociali per i lavoratori; di fatto, anche i salari dovevano essere contenuti. I governi laburisti di Wilson e Callaghan negli anni 1960 e 1970 non andarono meglio nel riformare il capitalismo nell’interesse di quelli che dipendevano da un salario o uno stipendio per vivere. Inoltre, quei governi finirono con l’amministrare il capitalismo secondo le sue regole, cioè nell’interesse della produzione per il profitto e contro gli interessi degli stipendi e dei salari guadagnati dalla maggioranza. Così fecero tutti i governi simili in altre parti del mondo.

L’esperienza del XX secolo ha mostrato che i gradualisti sbagliano. Tali partiti, invece di cambiare gradualmente il capitalismo, sono stati loro stessi cambiati dal capitalismo. Oggi, addirittura non pretendono di andare verso il socialismo, ma solamente di essere in grado di amministrare il capitalismo in una maniera più efficiente.

I membri del Partito Socialista in Gran Bretagna non erano gli unici critici del riformismo gradualista. I primi membri inizialmente si vedevano come parte della corrente del movimento socialdemocratico che si opponeva al revisionismo e all’opportunismo che si stavano diffondendo all’interno del movimento socialista. Tuttavia, la maggior parte degli altri oppositori del gradualismo prima della prima guerra mondiale, inclusa Rosa Luxemburg, autrice di un opuscolo con il titolo “Riforma o Rivoluzione?”, non videro il pericolo di cercare il sostegno di non-socialisti e la possibilità di diventare loro prigionieri, cioè di un partito socialista che sostenesse le riforme. Dopo il vergognoso crollo del movimento socialdemocratico internazionale quando la guerra irruppe, molti degli altri antigradualisti tornarono al bolscevismo di Lenin per una strategia alternativa.

Anche l’azione minoritaria ha fallito

Laddove i gradualisti sono sempre rimasti a favore di metodi democratici e di azione maggioritaria anche se da parte di non-socialisti, Lenin sosteneva che sotto il capitalismo solo una minoranza sarebbe stata in grado di raggiungere la consapevolezza socialista e che perciò questa minoranza aveva il dovere di organizzarsi come un partito di avanguardia per afferrare il potere per conto della maggioranza.

In altre parole, la strategia alternativa leninista non era un’azione politica socialista conscia e maggioritaria del tipo che sosteneva il Partito Socialista in Gran Bretagna, ma un’azione minoritaria: il socialismo doveva essere introdotto da una dittatura esercitata da una minoranza di socialisti. Così è come fu presentata la presa del potere dei bolscevichi nel corso della rivoluzione russa del 1917. Questa non poteva mai essere una via per raggiungere il socialismo, poiché il socialismo può solo esistere su una base democratica con partecipazione maggioritaria nelle decisioni che vengono prese. E, infatti, il socialismo non è stato raggiunto. Invece che portare al socialismo, la dittatura bolscevica in Russia ha portato a un capitalismo di stato in cui i “socialisti” di avanguardia sono diventati una nuova classe dominante che ha poi esercitato una brutale dittatura sui lavoratori della Russia.

Il XX secolo ha confermato che né la dittatura di minoranza né il riformismo parlamentare possono essere una via al socialismo. La cosa peggiore è stata che la dittatura russa ha rivendicato di essere socialista, con il risultato che milioni di lavoratori in tutto il mondo sono stati scoraggiati dall’idea stessa del socialismo. A dire la verità, il socialismo sta ancora soffrendo per questa sgradita eredità, con la diffusa idea che “il socialismo sia stato sperimentato (in Russia) e sia fallito”.

In realtà il socialismo non è stato sperimentato. Ciò che è stato sperimentato sono due strategie – il riformismo gradualista e la dittatura di minoranza leninista. Entrambe sono fallite. Ciò che non è stato provato è la strategia proposta dai membri fondatori del Partito Socialista della Gran Bretagna nel 1904: un’azione politica consapevole, maggioritaria, rivoluzionaria.

Così come il socialismo rimane urgente oggi come lo era nel 1904, lo è anche quella strategia. “Niente socialismo senza socialisti” rimane un’idea valida oggi come lo era allora. E “il formare socialisti”, come un passo verso l’emergere di un desiderio maggioritario per il socialismo, rimane il compito di quelli che vogliono vedere un mondo socialista di proprietà comune, controllo democratico, produzione per soddisfare i bisogni della gente e libera distribuzione secondo il principio “da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni”.

(Traduzione da Socialist Standard, gennaio 2005)

sabato 17 luglio 2010

Il capitalismo di Stato

Il quotidiano italiano "liberalsocialista" Avanti! ha pubblicato qualche anno fa un articolo su Bruno Rizzi (1901-1977) descrivendolo come "un socialista eretico". Non vorremmo dire che fu un socialista nel proprio senso della parola, ma diede un importante contributo alla discussione sulla natura dell'U.R.S.S., introducendo il concetto di una classe che possiede i mezzi di produzione collettivamente, come una classe, senza che i suoi membri individuali possiedano i titoli della proprietà legale a loro nome come nel capitalismo tradizionale.

Riproduciamo qui il capitolo III del suo libro del 1939, Il Collettivismo Burocratico, dove espone i suoi argomenti a riguardo. Noi piuttosto chiameremmo la passata U.R.S.S. "capitalismo di Stato" e senza dubbio la predizione di Rizzi che il mondo intero stesse rapidamente aprendosi verso il suo "collettivismo burocratico" risulta essere selvaggiamente errata. Tuttavia, come abbiamo detto, egli diede un importante contributo a una comprensione della passata U.R.S.S. come una società di classe, con una proprietà collettiva e una classe sfruttata lontanamente rimossa da qualsiasi cosa vagamente somigliante al socialismo - che deve essere una società democratica senza classi e senza stati.

LA PROPRIETÀ DI CLASSE

(Capitolo 3, Il Collettivismo Burocratico. Bruno Rizzi, 1939)

Dato che Trotzky conferisce un valore incommensurabile al fatto che la contraddizione non è passata dal dominio della ripartizione a quello della produzione, vien fatto di pensare che egli concepisca la produzione sovietica come di marca socialista. Ci sembra che questa volta ci sia ancora un'illusione ottica che non è dalla nostra parte.

Per il solo fatto che la proprietà è nazionalizzata e l'economia pianificata, si pensa che la produzione sia di una qualità sufficientemente socialista onde assicurarci il permanere dello “Stato Operaio”. In realtà tutto il sistema di produzione resta collettivo come nella organizzazione delle grandi imprese capitaliste, mentre la proprietà passa dalla forma privata a quella collettiva. Ne viene quindi che se le caratteristiche economiche sono le sole determinanti della natura dello Stato, per quanto riguarda l'U.R.S.S., noi siamo ridotti alle nazionalizzazioni ed ai piani statali.

Resta da vedere che cosa rappresenti effettivamente la nazionalizzazione della proprietà nell'U.R.S.S. e qui anche noi, senza avere la pretesa di essere marxisti ortodossi, ci permettiamo di esaminare il disotto dei fatti. Certamente essa è stata la prima misura rivoluzionaria decretata dalla classe operaia al potere nel fine della costruzione socialista, ma questa si è arrestata con la degenerazione staliniana ed è logico indagare che cosa sia socialmente diventata quella nazionalizzazione che doveva concludere in una socializzazione della proprietà. In un modo semplicista ci si dice che la proprietà è “nazionalizzata”. È ben poco per dei marxisti scientifici. Chi la dirige? Non certamente il proletariato, ma bensì la burocrazia sovietica. Tutti sono d'accordo su questo punto nel campo di Agramante, e Trotzky aggiunge che la ripartizione dei prodotti viene fatta in modo per cui la burocrazia si taglia la parte del leone. Noi ci domandiamo quale sorta di proprietà “nazionalizzata” sia questa, diretta in modo esclusivo da una classe che s'impossessa poi dei prodotti in modo altrettanto sfacciato di quello usato dalla vecchia borghesia. Negli effetti esiste in Russia una classe sfruttatrice che tiene in mano i mezzi di produzione e si contiene esattamente come una proprietaria di questi. Il suo possesso non è frazionato tra i suoi componenti ma, quest’ultimi, in blocco, come classe, sono i reali possessori di tutta la proprietà “nazionalizzata”.

Sembra che la proprietà dopo esser stata di tutti, quasi inesistente per gli uomini dell'epoca selvaggia ed esser passata poi alle comunità per trasformarsi quindi in proprietà privata, riassuma ora una forma collettiva nella veste di proprietà di classe.

La classe sfruttatrice in Russia è diventata proprietaria ed ha concretizzata la sua essenza giuridico-sociale. Per sfuggire all'assalto dei lavoratori essa li incanta con la “nazionalizzazione” della proprietà, come se ciò rappresentasse negli effetti una proprietà di tutti. Ciononostante essa ha paura e non può sviluppare il suo lavoro in un ambiente democratico; è, almeno momentaneamente, condannata a costruire uno Stato poliziesco.

Le forme di proprietà devono mettersi al passo col sistema di produzione e se la classe sfruttata non è all'altezza del suo compito storico, dal dissolvimento della classe dominante ne esce una nuova classe, chiamiamola storicamente parassitaria, che nello Stato poliziesco forse manifesta la condanna della Storia.

La contraddizione tra il modo di produzione e la forma della proprietà, proprie della società capitalista, viene quindi ad essere risolta nell'U.R.S.S. anche senza il raggiungimento del Socialismo e l'elevarsi del proletariato a classe dominante. Lo sfruttamento resta e passa soltanto dal dominio dell'uomo a quello della classe sulla classe. Lo sfruttamento umano sotto la spinta dell'ineluttabile sviluppo economico ha assunta una nuova forma. La proprietà da privata è diventata collettiva, ma di classe; in modo diverso noi non sapremmo definire questa proprietà “nazionale” che non è di tutti, questa proprietà che non è, né borghese, né proletaria, che non è privata, ma che non è neanche socialista.

Trotzky non riesce a concepire la nuova classe sfruttatrice in Russia, non riesce a concepire la progressiva polverizzazione della borghesia nel mondo, non intravede la determinazione sempre più rimarchevole della proprietà di classe non solo in Russia, ma anche nei paesi totalitari. Concepisce il mondo “come società borghese in disfacimento (pourissant)“.

Ben poca cosa per un marxista che pretende all'analisi scientifica. Da Mussolini a Labriola, da Tardieu a Wallace, tutta la letteratura di questo quarto di secolo non è che un'accusa ed un sarcasmo indirizzato alla vecchia società borghese. Il de profundis è stato cantato al capitalismo in tutte le lingue. A noi sembra che il compito dei marxisti “scientifici”, depositari della dialettica della lotta di classe, non sia quello di svignarsela con una definizione banale, ma consiste precisamente nel vedere qual è il movimento di classi che si avvera in questa epoca della fine del capitalismo, e di fissare, oltre le nuove forme di proprietà, i nuovi rapporti sociali. Vediamo così che il celebre “plus-valore” non è scomparso neanche in questo Stato-rebus che è l'Unione Sovietica, sulla qual cosa sono tutti d'accordo. Le discordanze sopravvengono quando si tratta d'individuare dove va a finire. Va forse alla borghesia inesistente? No. Va forse agli operai? Neppure poiché allora si avvererebbe il fatto che il Socialismo è in costruzione in un solo paese e precisamente in quello della “grande menzogna”. Dobbiamo forse pensare che il plus-valore va allo ”Stato Operaio”?

Per le ragioni sopraddette sarebbe il trionfo dello stalinismo di cui Trotzky è il primo nemico e se qualcuno volesse pretendere che il plus-valore è scomparso nel paese dei Soviet, bisognerebbe dedurne che anche la forza-lavoro non è più comperata ed allora il Socialismo sarebbe un fatto contro ogni evidenza.

In realtà non vi è che una risposta possibile ed ammissibile: il plus-valore passa alla nuova classe sfruttatrice: la burocrazia in blocco.

Quando si ammette che la società è in via di decomposizione, già significa che essa sta perdendo le sue caratteristiche economiche; ciò precisa che le caratteristiche peculiari della classe dominante scompaiono e la Società diviene un’altra. Il fenomeno compiuto, nel cosiddetto Stato Sovietico, si trova in via di formazione ovunque nel mondo. Quella proprietà di classe che in Russia è un fatto acquisito non risulta certamente registrata presso alcun notaio o in nessun catasto, ma la nuova classe sfruttatrice sovietica non ha bisogno di queste bagattelle, essa ha la forza dello Stato nelle mani e ciò vale ben più che le vecchie registrazioni giuridiche della borghesia. Essa salvaguardia la sua proprietà con le mitragliatrici del suo apparecchio d'oppressione onnipotente e non con documenti notarili.

Se per il fascismo, con i suoi concetti di collaborazione di classe e di Stato al di sopra delle classi, è sostenibile la tesi della proprietà nazionalizzata noi non comprendiamo come dei marxisti, anche se scientifici, se la possono cavare su questo punto. Per Marx e Lenin lo Stato è l'organo di oppressione della classe dominante; fin che esiste lo Stato permangono le classi; e la proprietà sotto l'egida dello Stato è negli effetti gestita dalla classe dominante a mezzo del suo apparecchio di dominio. Marxisticamente parlando, il concetto di proprietà nazionalizzata non ha senso, è antiscientifico e antimarxista. Per Marx la proprietà privata doveva divenire socialista e come tale l'intendeva, almeno in forma potenziale, anche nel periodo della dittatura proletaria. Seguendo la teoria marxista, dietro lo Stato c'è sempre la classe e se non fu preveduta la possibilità di una forma immediata di proprietà (la proprietà di classe), ciò dipende quasi certamente dal calcolo errato di una rapida scomparsa delle classi dopo che il proletariato avrebbe preso il potere. In realtà, anche durante la dittatura del proletariato, la proprietà assume il carattere di classe, appartiene ed è gestita dai burocrati, solo potenzialmente manifesta il suo carattere socialista. Che se poi la proprietà viene nazionalizzata in un regime non proletario, perde anche il suo carattere potenziale di proprietà socialista per restare unicamente proprietà di classe.

Nel caso dell'U.R.S.S., Stato ove la borghesia ha un peso sociale trascurabile, se l'organizzazione statale permane, ciò significa che almeno due classi devono essere ancora in vita ed efficienti. Se il buon senso si rifiuta di ritenere i lavoratori sovietici proprietari dei mezzi di produzione è logico pensare che la proprietà di questi appartenga effettivamente alla burocrazia. Altroché “commesso”; si tratta di un proprietario ben definito.

Molto probabilmente il fatto che non sia stata prevista una forma transitoria di proprietà tra quella privata e quella socialista sta alla base non solo della discordia nel campo di Agramante, ma anche della confusione politica ancora regnante nel mondo ove si valuta per Socialismo o Capitalismo l'operato di Stalin, Mussolini o Hitler mentre in realtà si tratta di Collettivismo Burocratico.

Nel campo di Agramante si fanno degli sforzi terribili per parare a queste logiche deduzioni.

Il luogotenente Naville chiedendosi di quale differenza si tratti tra la proprietà privata e la proprietà collettiva se solo una burocrazia può approfittarne di questa, risponde non esservi che una differenza di grado tra la proprietà privata capitalista e la gigantesca proprietà ”privata” della burocrazia.

Mirabolante trovata. La proprietà di svariati milioni di cittadini concepiti nel loro complesso sociale resterebbe ancora privata. Ma ci sa dire allora questo marxista scientifico che cosa intende per proprietà collettiva? E perché allora non resterebbe privata anche la proprietà di una società socialista, se è soltanto questione di grado? Forse che questo Solone scambia la Società Umana con una Società per azioni?

Le Società Umane vanno considerate in sintesi e non in somme. La proprietà privata è e resta tale finché con lo statizzarsi continuo non cambia le sue caratteristiche.

La legge dialettica di Hegel della trasformazione della quantità in qualità vale anche per la proprietà. La prima cristallizzazione della proprietà collettiva si identifica con la proprietà di classe anche se sotto l'egida del proletariato. Che i marxisti non l'abbiano previsto e non lo vedano, è un altro affare.

Se per Naville resta privata la proprietà delle statizzazioni fasciste, anche se questo processo sta per sommergere tutto il capitalismo, non vediamo per quale ragione non si debba considerare come privata anche la proprietà delle nazionalizzazioni sovietiche, dove il processo è completamente acquisito e la burocrazia ne è la grande beneficiaria. Seguendo il suo ragionamento questa deduzione è logica anche se errata. In realtà la nazionalizzazione dei mezzi di produzione nell'U.R.S.S. ha creato una forma di proprietà collettiva, ma di classe che risolve l'antagonismo capitalista della produzione collettiva e dell'appropriazione privata. Noi non usiamo due pesi e due misure nell'esame dei fatti sociali ed affermiamo che anche il profondo travaglio economico degli Stati Totalitari con le nazionalizzazioni ed i piani economici porta alla risoluzione dello stesso antagonismo con la conseguenza sociale dell'apparizione della proprietà di classe, del dominio della burocrazia, del polverizzamento della borghesia e della trasformazione dei proletari in sudditi di Stato.

Riferendosi alla burocrazia in genere, Naville continua: ”Che essa abbia o no dei titoli di proprietà, ed essa non ne ha, la burocrazia non può disporre (ripartire) liberamente, né di un capitale accumulato, né del plus-valore prodotto. Non si tratta per essa che di una proprietà capitalista privata, anche su scala di monopoli statali”.

A noi pare che la verità abbia proprio un senso contrario. La burocrazia sovietica in specie dispone dei capitali accumulati e ripartisce il plus-valore. Trotzky arriva a dire: “Ciò che non era se non una deformazione burocratica si appresta ora a divorare lo Stato Operaio senza lasciar nulla e a formare sulle rovine della proprietà nazionalizzata una nuova classe possidente”. Ed aggiungiamo noi: chi dirige l'economia? Chi appresta i piani quinquennali? Chi fissa i prezzi di vendita? Chi decreta le opere pubbliche, gli impianti industriali ecc. se non la burocrazia sovietica? E se la proprietà non fosse a disposizione di questa, per chi dunque è a disposizione e chi è incaricato della ripartizione del plus-valore? Forse la sepolta borghesia zarista, l’imperialismo mondiale od il proletariato russo? Naville non ci dà spiegazioni e continua: “Si tratta allora di una nuova forma di proprietà, dei rapporti stabiliti storicamente sulla base dell'appropriazione collettiva, ma a beneficio di una classe particolare, la burocrazia? In questo caso, bisognerebbe ammettere che la burocrazia gioisce del sistema come una classe capitalista, poiché si approprierebbe il plus-valore come un'impresa capitalista.”

Si, perbacco, proprio si tratta di questo, ma bisogna ammettere che la burocrazia gioisce del sistema della Società divisa in classi, non già come classe capitalista, ma burocratica e che si appropria del plus-valore non già come una impresa capitalista, ma come una classe sfruttatrice.

Al contrario, alla domanda che il Naville timidamente si pone egli risponde in questo modo: “La storia dimostra che il fenomeno della produzione e della appropriazione del plus-valore non è proprio limitato al capitalismo liberale o al monopolio privato. La rendita fondiaria e il plus-valore che esistevano all’epoca del feudalesimo hanno preso il loro senso con l'economia mercantile e poi con lo sviluppo industriale. Essi continuano ad esistere nell'U.R.S.S. malgrado i dinieghi di Stalin, Boukharin e della loro scuola. Solo essi sono nazionalizzati; e la differenza esenziale è qui. Se si vuole chiarire la natura della società sovietica attuale, bisogna evitare gli errori anche da questa parte.”

Messo al muro e nell'ineluttabile necessità di ammettere che il plus-valore “prende tutto il suo senso” anche nel Collettivismo Burocratico, il discepolo di Trotzky gira poco scientificamente l'ostacolo e sottolinea la posizione ambigua, antimarxista e reazionaria, per cui rendita fondiaria e plus-valore verrebbero nazionalizzate nella società sovietica. Vi riscontra anche una differenza essenziale.

Gli risponderemo con le parole del suo maestro che nella Rivoluzione Tradita così si esprimeva: “Non è contestabile che i marxisti, a cominciare da Marx stesso abbiano impiegato relativamente allo Stato Operaio i termini di proprietà “statale”, “nazionale” o “socialista” come dei sinonimi. A delle grandi scale storiche, questo modo di parlare non presentava degli inconvenienti. Ma esso diviene la sorgente di errori grossolani e di inganni allorché si tratta delle prime tappe non ancora assicurate dell'evoluzione della nuova società isolata ed in ritardo dal punto di vista economico sui paesi capitalisti.”

La proprietà privata, per divenire sociale, deve ineluttabilmente passare per la statizzazione, cosi come il bruco, per divenire farfalla deve passare per la crisalide. Ma la crisalide non è una farfalla. Delle miriadi di crisalidi periscono prima di trasformarsi in farfalle. La proprietà dello Stato non diviene quella del “popolo intero” che nella misura della scomparsa dei privilegi e delle distinzioni sociali, fase in cui lo Stato, per conseguenza, perde la sua ragione di essere. Detto altrimenti: la proprietà dello Stato diviene socialista via via che cessa di essere proprietà di Stato. Ma al contrario: più lo Stato sovietico si eleva al di sopra del popolo, più duramente egli si oppone come dilapidatore guardiano della proprietà e più chiaramente egli testimonia contro il carattere socialista della proprietà statizzata.

Non sembra quindi che in seguito ad una cosiddetta nazionalizzazione della proprietà, la rendita fondiaria ed il plus-valore risultino effettivamente nazionalizzati ossia di tutto il popolo. Differenze essenziali non ne esistono se non quella per cui non e più la borghesia la classe sfruttatrice e che incassa il plus-valore, ma è la burocrazia che si è aggiudicata questo onore.

Naville gioca sull'identità tra la proprietà nazionalizzata e proprietà socialista il che non ci sembra, né troppo scientifico, né troppo marxista. Era scusabile un tale errore ai tempi di Marx, ma non più ai discepoli ora che le previsioni del maestro, anche se non chiare, prendono sostanza sociale.

Se si vuol appurare “la natura della società sovietica attuale” bisogna proprio evitare degli errori anche da questa parte e sviscerare che cosa realmente rappresenta socialmente parlando, la proprietà nazionalizzata. D'accordo che questo lavoro deve essere fatto in modo scientifico, marxista se così meglio aggrada ai cavalieri d'Agramante. Noi non pretendiamo di averlo compiuto, ma solamente abbozzato.

Seguendo questa strada, anche l'avvento dello Stato Totalitario nel mondo risulterà un poco più chiaro a coloro che fin qui ci hanno dimostrata una totale incomprensione nei confronti del Fascismo ancora bollato quale salvatore e continuatore del capitalismo.

In questi regimi una nuova classe dirigente in formazione dichiara che il capitale è al servizio dello Stato. Fa seguire i fatti, fissa già in gran parte i prezzi delle merci ed i salari dei lavoratori, organizza su di un piano prestabilito l'economia nazionale.

Evidentemente la proprietà dei mezzi di produzione non è cosi semplice ad individuarsi come quella dei mezzi di consumo. Questi ultimi sono di uso personale, ma gli altri sono più fissi delle montagne. Non c'è alcun proprietario, né alcuna classe, né alcun Stato che se li possa collocare sulle spalle e trascinarli dove meglio gli piace. Niente da meravigliarsi quindi se si avverano momenti in cui è difficile determinarne la proprietà.

Per conto nostro, nell'U.R.S.S. i proprietari sono coloro che tengono la forza nelle mani: i burocrati. Sono coloro che dirigono l'economia così com’era normale tra i borghesi. Sono coloro che si appropriano dei profitti come è regolare presso tutte le classi sfruttatrici. Sono coloro che fissano i salari ed i prezzi di vendita delle merci: i burocrati ancora una volta.

Gli operai non hanno che fare con la direzione sociale, tanto meno con gli incassi del plus-valore e tanto peggio per quanto riguarda la difesa di questa strana proprietà “nazionalizzata”. Gli operai russi sono ancora degli sfruttati ed i burocrati sono i loro sfruttatori.

La proprietà nazionalizzata dalla Rivoluzione di Ottobre appartiene ora come un “tutto” alla classe che la dirige, la sfrutta e la salvaguardia: essa è proprietà di classe.

Col sistema di produzione collettivo integratosi durante l’evoluzione capitalista, la proprietà privata non poteva sfuggire alla collettivizzazione. La realtà è che la proprietà collettiva non si trova sotto la protezione della classe proletaria, ma bensì sotto quella di una nuova classe che nell’U.R.S.S. rappresenta un fatto sociale ormai compiuto, mentre negli Stati Totalitari è in via di formazione.