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martedì 19 maggio 2020

ANGELICA BALABANOFF: UN ITINERARIO VERSO IL BOLSCEVISMO E RITORNO

Anželika Isaakovna Balabanova nacque a Černigov nell’Impero Russo (ora Černihiv in Ucraina) in agosto, probabilmente attorno al 1868 [1]. La sua famiglia, di origine israelitica, era ricca, sicché lei ebbe un’infanzia privilegiata. Presto si rese conto di non sentirsi a suo agio in quel tipo di classe sociale abbiente e, con il sostegno finanziario della famiglia ma allo stesso momento contro il suo volere, si trasferì a Bruxelles per frequentare l’Université Nouvelle. Lì conobbe figure di spicco della Seconda Internazionale (o vicine ad essa), come Élisée Reclus, Émile Vandervelde e Georgi Plekhanov.
A Lipsia, dove si trasferì per un breve periodo, conobbe anche Rosa Luxemburg che divenne il suo modello per gli anni a venire. Quindi si recò a Berlino dove frequentò lezioni di economia politica e incontrò vari membri di alto livello del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD), come Clara Zetkin e August Bebel. Sentì quindi parlare di un professore di filosofia italiano, il marxista Antonio Labriola, abbastanza noto persino tra gli studenti della SPD. Così decise di trasferirsi a Roma dove frequentò le lezioni di Labriola e incontrò alcuni fondatori del Partito Socialista Italiano (PSI): Filippo Turati, Claudio Treves e la compagna di Turati, anch’ella un’ebrea russa, Anna Kuliscioff. In quel periodo prese a italianizzare il suo nome divenendo per tutti “Angelica Balabanoff”.

mercoledì 26 dicembre 2018

Rosa Luxemburg e l’opposizione marxista al leninismo

Durante la cosiddetta "rivolta di gennaio", iniziata il 6 gennaio di cento anni fa, Rosa Luxemburg viene rapita e poi assassinata, insieme a Karl Liebknecht, dai soldati dei famigerati Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del premier social-democratico Friedrich Ebert e del ministro della Difesa Gustav Noske. Il corpo di Rosa, gettato in un canale di Berlino, è recuperato solo il 31 maggio e sepolto nel cimitero centrale di Friedrichsfelde. Si sa per certo che il brutale assassinio avviene il 15 gennaio.

Da questo momento inizia un vero e proprio processo di “beatificazione” per la rivoluzionaria polacco-tedesca portato avanti dalla Sinistra mondiale delle più varie sfumature: già nel 1926 a lei, Karl Liebknecht, Leo Jogiches e Franz Mehring viene dedicato un monumento del famoso architetto Ludwig Mies van der Rohe, commissionato dal Partito Comunista Tedesco (la KPD) di stretta osservanza moscovita. Successivamente, con la fondazione della Repubblica Democratica Tedesca nel 1949 all’interno della zona di occupazione sovietica della Germania sconfitta, praticamente tutto viene intitolato alla memoria di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht: vie, piazze, scuole, biblioteche, musei, perfino monete e francobolli. Il messaggio è molto chiaro ed elementare (benché, come vedremo in seguito, completamente falso): le idee rivoluzionarie della Luxemburg sono sopravvissute alla sua morte nel programma della KPD e si sono poi finalmente concretizzate nella Germania “socialista”, resa possibile dalle baionette russe dopo il crollo del regime nazista.
Ma vi è anche un altro uso, senz’altro più scaltro e intellettualmente sofisticato, ma non per questo più autentico, dell’eredità politica luxemburghiana. Quando diviene chiaro, ad opera soprattutto dei lavori del comunista libertario Daniel Guérin (1971), che il pensiero di Rosa Luxemburg è per moltissimi aspetti irriducibile alla vulgata marxista-leninista di Mosca o di Pechino, ella viene assunta da vari gruppi socialdemocratici critici e “di sinistra” come l’emblema della cosiddetta “Terza Via”, equidistante dal “socialismo reale” sovietico o cinese e dal riformismo socialdemocratico dell’Europa Settentrionale. Campione di questa tendenza in Italia è il dirigente del PSI prima (e del PSIUP poi) Lelio Basso, figura culturalmente molto significativa nel trentennio ’50-‘70, ma alquanto inquieta e oscillante tra un socialismo democratico “radicale” e un comunismo critico “dal volto umano”, con venature anche di operaismo e di terzomondismo. E una tale apologia luxemburghiana da parte dei “riformisti di sinistra” continua ancora oggi: gli esponenti del partito della "Sinistra Europea'', nato proprio a Berlino il 10 gennaio 2004, come primo atto ufficiale si sono recati in pellegrinaggio sulla tomba di Rosa Luxemburg per rivendicare la supposta continuità tra il loro progetto politico e quello della grande rivoluzionaria polacco-tedesca.
Ma chi è davvero questa donna eccezionale che con i suoi scritti e le sue azioni sembra riscuotere un consenso generale nella Sinistra degli ultimi cento anni, mettendo apparentemente insieme lo stalinista Walter Ulbricht, il socialista “di sinistra” Lelio Basso, l’anarco-comunista Daniel Guérin e il comunista dei consigli Paul Mattick, in un modo tale che forse solo un gigante del pensiero come Marx potrebbe fare?
E, soprattutto, se non fosse stata crudelmente massacrata a soli 47 anni, cosa avrebbe pensato del “socialismo reale” edificato dai comunisti ufficiali, o, più in generale, della ideologia dogmatica e totalitaria del cosiddetto “marxismo-leninismo”?
Nelle poche pagine che seguono cercheremo di dare una risposta sincera e senza preconcetti a questi interrogativi arrivando alla conclusione, probabilmente per molti un po’ provocatoria, che è forse proprio il “World Socialist Movement” (WSM), pur con tutte le differenze e i distinguo del caso, a essere il raggruppamento politico di oggi più autenticamente “luxemburghiano”. Paradossalmente utilizzeremo per le citazioni di Lenin parte di un vecchio e misconosciuto articolo telematico (“Chi era Rosa Luxemburg?”, http://www.pmli.it/chieraluxemburg.htm) di un piccolo raggruppamento maoista italiano (il PMLI) che, proprio a causa del suo estremismo settario (agli antipodi del WSM in tutto), riesce ad essere veritiero almeno in un punto: la pluriennale opposizione tra Lenin e la Luxemburg.

martedì 3 aprile 2018

Capitalismo di Stato sovietico?


Storia di un’idea

Capitalismo di Stato sovietico?

di W. Jerome e A. Buick
(con postilla di R. Mondolfo)


La differenza fra il sistema sovietico e il sistema sociale dell’Europa occidentale e del Nord America sembra così marcata da giustificare una etichetta distintiva; e l’etichetta che è stata adottata per un sistema di proprietà statale dei principali mezzi di produzione è «socialismo». L’ampio accordo, tuttavia, non nasconde divergenze radicali di svariate gradazioni d’opinioni, che rifiutano di applicare la denominazione «socialismo» al sistema sovietico. Ma fra gli stessi dissenzienti non c’è accordo riguardo alla definizione che dovrebbe applicarsi. Il fine di questo saggio è considerare la storia di quella definizione che descrive l’Unione Sovietica come una società capitalista di Stato. Questa teoria è stata sostenuta da tre diversi gruppi ben distinti ideologicamente: 1) i marxisti ortodossi; 2) i «comunisti dei consigli»; 3) i leninisti dissidenti.

I Marxisti ortodossi

Riuscirà probabilmente una sorpresa per la maggior parte dei lettori apprendere che è la scuola di lingua inglese del marxismo tradizionale, derivante dalla Federazione socialdemocratica di Hyndman, e rappresentata dal piccolo Partito Socialista di Gran Bretagna (SPGB) e dagli ancor minori partiti fratelli dei paesi di lingua inglese (Canada, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda, Stati Uniti) quella che ha, senza esitazione, affermato che la rivoluzione bolscevica ha portato ad una società capitalista di Stato. Il SPGB si oppose alla guerra del 1914-18, e perciò approvò decisamente l’azione anti-imperialista dei bolscevichi russi, pur condannando la tattica leninista (che riteneva opportunista) sollecitante i lavoratori inglesi a sostenere il Partito laburista. Il SPGB riteneva che il partito bolscevico fosse formato da socialisti intenzionati ad introdurre un sistema di proprietà sociale. Tuttavia il SPGB predisse che questo tentativo sarebbe fallito per la mancanza di un requisito fondamentale per il socialismo, cioè l’esistenza di un’industria moderna e di un proletariato con mentalità socialista. Lenin stesso ammetteva che la proprietà sociale era fuori questione in Russia finché il capitalismo non avesse portato ad un alto sviluppo della produzione sociale. Egli si riferiva all’attività del settore nazionalizzato dell’economia (che era solo un piccolo settore a quel tempo) come ad una forma di capitalismo di Stato. Il SPGB citò Lenin su questo punto, ma ciò non bastava a definire il sistema sociale della Russia sovietica come capitalismo di Stato. La maggior parte della società russa, come Lenin ammetteva, consisteva in un classico sistema di rapporti capitalistici, ben noto in occidente, che coesisteva con una produzione contadina semifeudale e perfino con attività prefeudali di pastorizia e caccia. Poiché il SPGB credeva che lo sviluppo del capitalismo fosse una premessa necessaria al socialismo, esso non condannò Lenin e i bolscevichi. Tuttavia insistette nell’affermare che la Unione Sovietica non era una società socialista, e, inoltre, nel sostenere che il «dominio di una minoranza — sia pure minoranza marxista — non è socialismo». Fu solo nel periodo 1929-30 che cominciò ad applicare il termine capitalismo di Stato alla URSS, quando Stalin collettivizzò l’agricoltura e organizzò una produzione pianificata di merci sotto il controllo dello Stato. In Germania, diversamente dalla Gran Bretagna, i socialisti marxisti avevano un largo seguito e favorevoli prospettive per giungere a posizioni di governo. Dal 1918 il SPD era dunque partito di governo, e l’atteggiamento del suoi dirigenti di fronte al governo bolscevico era determinato più da considerazioni politiche immediate che da una analisi teorica. Perfino Karl Kautsky, la guida ideologica della socialdemocrazia tedesca (sebbene membro dell’opposizione formata dal Partito Socialista Indipendente nel 1918), non tentò alcuna particolare analisi economica della società sovietica. Tuttavia in vari suoi scritti di critica ai bolscevichi si riferì all’Unione Sovietica come a una società di capitalismo di Stato. In Terrorismo e comunismo egli dice: «il capitalismo industriale, lungi dall’essere un sistema privato, è diventato ora un capitalismo di Stato» «Oggi (…) ambedue, stato e burocrazia capitalista, sono fusi in un unico sistema». Tuttavia questo concetto non venne elaborato più a lungo; evidentemente Kautsky considerava la Russia matura solo per l’abolizione dei rapporti feudali della terra, ma non per l’abolizione del capitalismo. Entrambi, Kautsky ed i bolscevichi, credevano che la proprietà statale dei mezzi di produzione e un sistema di retribuzione mediante salario fossero compatibili col socialismo. Essi concordavano altresì nel ritenere che sebbene una società senza salariati e senza Stato possa essere possibile nel futuro, gli sforzi immediati dovessero essere diretti a fini meno ambiziosi. Kautsky e i bolscevichi non erano invece d’accordo sui mezzi adatti ad ottenere questo obiettivo minore. Molte critiche kautskiane al regime instaurato dai bolscevichi erano fondate sul fatto che la loro azione repressiva negava la democrazia politica, e senza democrazia politica la classe lavoratrice non poteva controllare la macchina economica a cui era soggetta, per cui era lasciata nella stessa posizione in cui si trovava in qualsiasi paese capitalista. Di fatto, i lavoratori russi erano in una situazione peggiore di quella del lavoratori di quei paesi dove prevaleva qualche forma di democrazia politica. Più tardi Kautsky parlò di Lenin «che usava il potere statale per la creazione del suo capitalismo di Stato». Egli spiegava che la Russia potrebbe diventare socialista «solo quando il popolo espropri gli espropriatori». «Un cambiamento nelle relazioni formali di proprietà non basta per stabilire il socialismo, perché occorre anche il controllo democratico dello Stato da parte del lavoratori. Mancando questo, i lavoratori si trovano, rispetto al problema del controllo del mezzi di produzione, nella stessa situazione che ha di fronte a sé il lavoratore nei paesi capitalisti». Per Kautsky il controllo democratico del mezzi di produzione attraverso il potere politico era la differenza essenziale fra socialismo e capitalismo di Stato. In scritti ulteriori erano usati da lui altri termini, ma la sua critica rimase sostanzialmente la stessa. Un altro eminente teorico, l’austriaco Otto Bauer, in linea con la tradizione critica marxista nei confronti della rivoluzione bolscevica, affermava che la mancanza di forti e vitali istituzioni democratiche in Russia, così come la sua arretratezza economica, impedivano il raggiungimento del socialismo. Ma a differenza di Kautsky, Bauer prevedeva una graduale maturazione e democratizzazione del regime sovietico. Egli riteneva che il programma di industrializzazione dei bolscevichi avrebbe condotto a una «razionalizzazione economica». Questa a sua volta avrebbe portato alla conseguenza che Bauer credeva derivante dallo sviluppo economico: la democrazia politica. Così egli si aspettava che il regime sovietico divenisse più democratico: «dal dittatoriale capitalismo di Stato sorgerà un ordinamento socialista della società». In certo senso il capitalismo di Stato russo stava costruendo il socialismo. Bauer credeva che la transizione dal capitalismo di Stato al socialismo non avrebbe richiesto una rivoluzione politica, e quindi si opponeva al veemente incitamento di Kautsky per una nuova rivoluzione russa contro i bolscevichi. Al pari di Kautsky, Bauer non usò sempre gli stessi termini nell’analisi dell’URSS come forma di capitalismo. Occasionalmente egli usò il termine «socialismo dispotico». I socialdemocratici tedeschi ed austriaci si opponevano ai bolscevichi a causa delle caratteristiche dittatoriali del loro potere. Quando definivano il regime sovietico «quale capitalismo di Stato», era più per motivi politici che economici. A differenza del SPGB e degli altri partiti socialisti, i socialdemocratici tedeschi non pensavano che il sistema della retribuzione mediante salario, la moneta e lo Stato fossero incompatibili col socialismo. Per i socialdemocratici tedeschi, socialismo significava il controllo democratico delle forze produttive di una società altamente industrializzata. Inoltre la rivalutazione del significato del sistema socio-economico sovietico negli anni ‘30 accentuava la distinzione fra il capitalismo tradizionale e la società sovietica. Nel 1940 l’eminente teorico socialdemocratico Rudolf Hilferding pubblicò una critica della teoria del capitalismo di Stato dell’URSS, nel periodico di lingua russa di New York, Socialist Courier. Hilferding indicava come segno distintivo del capitalismo un’economia di mercato, nella quale i prezzi sono il risultato di un minimo di concorrenza fra i diversi proprietari dei mezzi di produzione. Questa concorrenza «in ultima analisi dà origine alla legge del valore», e determina che cosa e quanto è prodotto. «Un’economia di Stato, tuttavia, elimina precisamente l’autonomia della legge economica... Non è più il prezzo, ma una commissione statale pianificatrice che determina la produzione». Hilferding definiva l’Unione Sovietica come una nuova organizzazione economica né capitalista, né socialista, come una economia di Stato totalitario. L’economia nazista tedesca e quella fascista italiana eran specie meno sviluppate di questo genere.

giovedì 7 dicembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Conclusioni)

Conclusioni

Questo breve saggio non ha l'ambizione di essere un resoconto storico completo. Lo scopo principale di questo testo è quello di riportare alla luce in un contesto di sinistra socialista, marxista, intransigente, la critica al leninismo successiva i fatti di "Ottobre". L'aspetto cronologico è fondamentalmente, in questo caso, perché fare gli opinionisti col senno di poi su posizioni e idee generatesi durante l'accadimento dei fatti, è scorretto da ogni punto di vista. Negli articoli esposti è chiaro che dopo un periodo di incertezza avendo notizie molto approssimative sugli accadimenti russi, il socialisti unitari, così come i socialisti del SPGB, assunsero una posizione molto critica nei confronti della dittatura bolscevica; mentre i massimalisti italiani accettarono a pieno il leninismo e si divisero principalmente sull’uso del parlamento, prima, e sulla modalità di collaborazione con i riformisti poi. Ovviamente le nostre idee si basano sia sul riscontro della dottrina marxista quanto sugli sviluppi e i risultati di sconvolgimenti sociali quali anche quelli determinati dal bolscevismo in Russia. 
È immediato notare una certa similarità nelle critiche dei socialisti unitari italiani e degli impossibilisti inglesi. L’immaturità delle condizioni economiche, il potere nelle mani di una minoranza e l’utilizzo inappropriato del termine dittatura del proletariato, per giustificare la dittatura di una minoranza, infine l’uso del terrore. In Treves, almeno negli articoli riportati, che ricordiamo sono subito successivi la rivoluzione, più che in Mondolfo e Turati, c’è una sorta di giustificazione delle azioni di Lenin e soltanto un ammonimento della sua applicabilità solo alla situazione russa. Nei tre socialisti unitari, troviamo molti elementi di critica comuni a quelli presenti nel SPGB. La mitizzazione del Soviet, e della sua democraticità, la mancanza di condizioni economiche per poter parlare di instaurazione del socialismo, e ripiegamento sul capitalismo. Turati, Treves, Modigliani e gli altri socialisti unitari, furono presto al centro della polemica tra i bolscevichi e i massimalisti italiani, in merito ai 21 punti per l’ammissione del PSI nella Terza Internazionale e la condizione necessaria di estromissione di tali riformisti dal partito. La loro critica venne quindi vista come quella di social-traditori alla Kautsky del resto.
Come già accennato nel preambolo, nonostante le similarità delle critiche da parte dei socialisti unitari e di quelli inglesi del SPGB, paragonare uno a uno il PSI al SPGB in termini di seguito nelle masse non sarebbe storicamente corretto. Per attenersi a quel periodo il PSI aveva ottenuto 883.409 voti (17,62%) nel 1913; e 1.834.792 voti (32,28%) nel 1919, aveva una grande presenza nei sindacati confederali, soprattutto la frazione unitaria; mentre il SPGB non raccoglierà voti nelle elezioni generali fino al 1945; in più il SPGB (probabilmente sui 150-200 membri all’epoca) era un partito fisiologicamente più piccolo del PSI, che aveva 200.000 iscritti nel 1920. D’altro canto si potrebbe dire che non scendere a compromessi si paga in popolarità.
Questa analisi non vuol fare nemmeno un’associazione tra gli impossibiliti inglesi, ai quali il nostro Movimento Socialista Mondiale si rifà, e i riformisti italiani. I socialisti unitari (ossia i riformisti, italiani) erano oramai dell’idea di cambiare gradualmente il capitalismo mediante l’uso delle riforme e grazie al suffragio universale, nel quale riversavano una fiducia, se non una fede, sproporzionate. La posizione del SPGB era (ed è) chiara in merito: se la maggioranza dei lavoratori non concepisce la produzione sociale (e quindi non è organizzata per essa) non potrà attuare la rivoluzione del sistema socio-economico per mezzo della presa del potere politico. Tale rivoluzione socio-economica attuata da parte della maggioranza dei lavoratori organizzati e addestrati alla produzione sociale sarà democratica. Quindi niente evoluzionismo. Questo ci differenzia dai riformisti-revisionisti, come anche niente salti, niente minoranze o leader illuminati, e questo ci differenzia dai rivoluzionari-centralisti.           
Storicamente, in sostanza, i risultati, e il peso, dei "minimalisti", e degli impossibiliti, furono così marginali, che si tende a dimenticare quello che di buono, talvolta "profetico", la loro analisi a caldo conteneva, e contiene. Per gli anni a venire la bolscevizzazione del Partito Comunista prima, e di quello Socialista poi, egemonizzò il pensiero della maggioranza della classe lavoratrice di sinistra. Questo portò in classico stile bolscevico a cancellare ogni critica, che venisse dalla "destra" e dalla “sinistra” marxista. Il nazional-comunista Palmiro Togliatti fu la personificazione, in Italia, di questa censura, e distorsione, con la sua esaltazione di un certo Gramsci e la distruzione di voci come quelle di Turati, Treves, Rodolfo Mondolfo, ma anche socialisti come Lelio Basso, Angelica Balabanoff, e leninisti come Bordiga, Onorato Damen, Ottorino Perrone, e Pietro Tresso, quest’ultimo addirittura fisicamente eliminato dagli stalinisti.
Quando l’Unione Sovietica non poté più essere difesa neanche dal punto di vista ideologico più bieco, allora si incominciò ad addossare tutte le colpe a Stalin, che nonostante fosse stato un dittatore sanguinario, fu tra la maggioranza degli incerti in merito all’insurrezione d’Ottobre, spinta principalmente da Lenin.
Per la sinistra comunista italiana, il discorso della deviazione della rivoluzione russa fu un po’ più intricato, in quanto ammetteva e ammette sì la rivoluzione politica in Russia, ma ad un certo punto non quella economica. E fu anche, come visto, altrove, forte oppositrice della bolscevizzazione del Partito Comunista d’Italia.      
Infine, nonostante il lunghissimo strascico devastante dell’influenza del leninismo sul socialismo marxista, bisogna dare del credito a Lenin come marxista. Lenin era di sicuro un “blanquista”, ovvero credeva che una minoranza, regolata da una rigida disciplina, potesse rivoluzionare il sistema sociale, che secondo lui doveva passare per il Capitalismo di Stato, ma come si è visto in queste ampie citazioni, fu molto più realista di altri leninisti, o dovremmo dire “blanquisti” per coerenza. Purtroppo, l’identificazione del marxismo col leninismo, che io continuerei a chiamare “blanquismo”, non fece che dar credito agli anarchici bakunisti, della Prima Internazionale, che criticavano in Marx l’eccessivo autoritarismo centralista. Il marxismo è ben altro che autoritarismo, ma spiegalo un po’, dopo che il leninismo è diventato l’emblema del marxismo.   
Cosa impariamo dalla rivoluzione di ‘Ottobre’ quindi? Che la rivoluzione del sistema economico-sociale non fa salti, si deve basare sul massimo sviluppo delle forze produttive capitaliste. Che non può che essere globale e instaurata dalla maggioranza della classe lavoratrice cosciente. Che per quest’ultimo motivo la classe lavoratrice deve vincere l’egemonia culturale della classe dominante e prendere coscienza. La rivoluzione non è né violenza anarchica né un graduale processo di riforme del capitalismo.
Solo oggi incominciamo ad intravedere il pieno potenziale del sistema capitalista applicato a livello globale, con la Cina, l’India, il Medio Oriente in forte sviluppo. Allo stesso momento, vi sono parti nel mondo ancora ai primi passi verso questo processo. Il capitalismo del XXI secolo non ha ancora risolto le sue contraddizioni, nonostante quanto sostengano le svariate creative formulazioni degli economisti asserviti alla classe capitalista. Le contraddizioni del capitalismo sono sempre più evidenti: ricerca del massimo profitto a scapito dell’uomo e dell’ambiente, guerre di interesse commerciale e strategico, terrore, disoccupazione, immigrazione di massa, propaganda di regime, sistema di educazione conformato al pensiero piccolo borghese, povertà, e disparità economica.
Secondo il Movimento Socialista Mondiale la via di uscita c’è, ed è un processo sulle spalle di tutti noi lavoratori, organizzati al di fuori del sistema capitalista, in modo davvero democratico, quindi senza capi o condottieri.


Lavoratori di tutto il mondo unitevi! Da perdere avete solo le vostre catene!  

domenica 3 dicembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Parte II)

Reazioni del “Socialist Standard”

Nell’articolo pubblicato a gennaio del 1918, si fa menzione alla presa del potere da parte dei Bolscevichi, ma c’è molta cautela nel commentare notizie parziali e poco attendibili. Si menziona come positivo l’armistizio firmato dai bolscevichi. In agosto, sempre del 1918, quando le informazione sono ormai chiare c’è la presa di posizione del SPGB con “The Revolution in Russia: Where it Fails”. Si fa menzione di due pamphlet “Guerra o Rivoluzione” di Trockij pubblicato dal “Socialist Labour Party” a Glasgow, scritto prima della rivoluzione e uno di Litvinov. In primis l’articolo dello Standard espone in termini negativi Trockij il quale nonostante si dica marxista, si stupisce della decisione dell’Internazionale Socialista di votare i crediti di guerra,
Da ogni marxista serio questo era da aspettarselo. Il partito socialista sta fermamente e solidamente sulla linea della guerra di classe … Negli anni passati il S.P.G.B. da solo in questo paese, e gruppi marxisti in altri paesi, hanno sottolineato che le sezioni di Inghilterra, Francia, Germania, Italia, Austria ecc. …, le quali formano la maggioranza dell’Internazionale, hanno o abbandonato, o non hanno mai accettato di schierarsi in favore della guerra di classe, e non erano quindi Socialiste nel vero senso della parola”
Il secondo pamphlet di M. Litvinov scritto a marzo del 1918, non aggiunge nulla alla nostra conoscenza degli affari russi, prosegue l’articolo dello “Standard”, che quindi va avanti descrivendo la situazione in Russia:
“Perfino la Russia d’oggi è in larga misura un paese agricolo, alcune fonti dicono che l’80 per cento della popolazione sia occupata nell’agricoltura; il loro sistema, ad ogni modo, ha certi aspetti peculiari che necessiterebbero un tomo voluminoso per descriverli.
Nel complesso la popolazione agricola è divisa in gruppi di villaggio, o comunità, basate primariamente su quel che viene chiamata ‘mir’. Ad ogni contadino è assegnato un certo ammontare di terra, a seconda del numero di componenti della sua famiglia. La sua proprietà viene cambiata periodicamente così da prevenire che qualcuno possa tenere per se la terra migliore. Se la popolazione aumenta oltre i limiti della terra controllata dalla ‘mir’, si forma un gruppo, e si sposta su una nuova terra, nel modo descritto molto bene da Julius Faucher nel suo arguto saggio ‘Il sistema agrario russo’. Siccome questo gruppo è collegato alla vecchia ‘mir’, le comunicazioni e le relazioni tra loro sono mantenute, e la proliferazione potrebbe vedere una serie di villaggi espandersi oltre una certa area, e avere una connessione più o meno lassa l’uno con l’altro. La terra, però, non è posseduta dal gruppo di villaggio. In ultima istanza è posseduta dallo Czar nella sua qualità di Padre del Popolo; ad ogni modo, grandi possedimenti sono concessi ai nobili per i loro servizi militari e altri servigi resi alla corona. 
Questa proprietà, per quanto peculiare possa diventare, è concessa da tutte le ‘mir’ previo pagamento di una quota per la terra, solitamente denominata tassa. Questa tassa viene pagata al nobile quando egli ha il possedimento, e allo Czar quando questo è il padrone diretto.”     

giovedì 30 novembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Parte I)


Introduzione

Abbiamo in precedenza, anche se alquanto superficialmente, trattato della reazione degli intransigenti rivoluzionari di sinistra ovvero gli scissionisti comunisti di Livorno (21 gennaio 1921), con l'articolo di Gramsci "La Rivoluzione Contro il Capitale" pubblicato su “L'Avanti” il 24 novembre 1917, e la reazione di Bordiga su “L’Avanguardia” nel dicembre del 1917. Aggiungiamo qui alcuni dei loro commenti in merito agli attacchi critici dei socialisti unitari, ma non riporteremo nella loro completezza le analisi dei due marxisti sulle quali e sui quali molto è già stato scritto. Per completezza si dovrebbe anche analizzare la reazione di Giacinto Menotti Serrati, direttore de “L'Avanti” al tempo della rivoluzione d'ottobre, e leader di fatto della corrente a quel tempo maggioritaria all'interno del PSI, ovvero quella massimalista, rivoluzionaria, parlamentare. E della reazione un po’ tardiva degli anarchici italiani, come quella del vecchio Errico Malatesta, e dei suoi discepoli Luigi Fabbri e Armando Borghi. Tuttavia, queste meriterebbero una trattazione separata. Basti ricordare che Serrati si espresse sempre in favore di Lenin fino alla questione dalle 21 condizioni di ammissione alla Terza Internazionale che portarono alla scissione di Livorno nel 1921; mentre gli anarchici videro nel centralismo leninista una conferma della critica bakuniana al supposto “autoritarismo marxista”.  

 

Critica Sociale sul leninismo

Già il 6 novembre un dispaccio della Stefani annuncia il tentativo dei massimalisti russi di impadronirsi del potere in Russia, presa del potere che viene confermata l’8. Con l’articolo di Ing. dell’11 si incominciano ad avere le prime notizie sulla rivoluzione di Ottobre. Il gruppo parlamentare, notoriamente riformista, si esprime dapprima positivamente nei confronti della presa del potere di Lenin, come confermato dall’intervento alla Camera di Modigliani nel dicembre. Il corrispondente Ing. con i suoi ultimi articoli per “L’Avanti” sempre in dicembre delinea una presunta convergenza dei bolscevichi con i socialrivoluzionari e i menscevichi internazionalisti, la quale viene smentita dalla agenzia Stefani con un dispaccio del 22 gennaio, dichiarando lo scioglimento dell’Assemblea Costituente. Nonostante con una certa cautela, le prime aperte critiche al bolscevismo appaiono tra le file dei socialisti unitari. 

sabato 25 novembre 2017

Cento anni dalla rivoluzione della minoranza bolscevica in Russia: le critiche dei socialisti italiani e inglesi (Preambolo)

In occasione del centenario del colpo di stato bolscevico in Russia (7 novembre 1917 secondo il calendario gregoriano vigente in occidente, 25 ottobre per il calendario giuliano), abbiamo preparato un breve saggio sulla reazione dei socialisti unitari, detti anche “minimalisti”, o “riformisti”, del Partito Socialista Italiano (PSI) e la paragoneremo principalmente con la reazione dei socialisti inglesi del “nostro” Partito Socialista della Gran Bretagna (SPGB). Questo sarà diviso in quattro parti. Il preambolo che affronterà molto superficialmente il periodo che va dalla Rivoluzione di Febbraio a quella di Ottobre; un secondo che tratterà la reazione dei socialisti italiani, e in particolare quella degli unitari, la terza parte sulla reazione del SPGB, e infine le conclusioni.

È doveroso sottolineare però due cose. Paragonare il PSI al SPGB ovviamente è storicamente errato e non è l’intento di questo scritto. Il PSI era già agli inizi del ‘900 un partito con un grande seguito nelle masse, e ancor di più, come si vedrà, nel periodo post-rivoluzionario. Il SPGB nasceva dalla scissione doverosa del 1904, contro ogni tipo di riformismo e centralismo, scissione che lo aveva però ridimensionato dal punto di vista del seguito, e ciò nonostante rimaneva fedele al socialismo marxista.

In secondo luogo è importante notare l’omogeneità dell’intransigenza del SPGB, al contrario del PSI non era lacerato tra il gradualismo dei riformisti, l’attendismo dei massimalisti e il dogmatismo programmatico degli intransigenti di sinistra. Ciò nonostante la critica dei riformisti italiani, pur non condividendo noi l’imborghesimento della loro lotta politica, fu una delle più lungimiranti sui fatti di Russia ed è per questo che vale la pena riportarla.                 

Preambolo

La Rivoluzione di Febbraio viene annunciata da “L’Avanti” tramite l’agenzia Stefani, il 16 marzo del 1917 secondo il calendario gregoriano. La discussione verte principalmente sull’impegno russo nell’Intesa, e trova i liberali interventisti euforici dell’idea che questa possa dare nuovo vigore allo sforzo russo sul fronte orientale. Mentre il gruppo parlamentare socialista, nella fattispecie Filippo Turati e Giuseppe Modigliani, è scettico che la deposizione dello zar possa avere questo significato. Turati in un discorso al consiglio comunale di Milano, il 25 aprile, ribadisce la formula zimmerwaldiana della pace senza annessioni né indennità. Sempre in aprile viene pubblicata su “L’Avanti” la dichiarazione del governo provvisorio russo di rinuncia ad ogni ambizione espansionistica. Si riunisce a Milano la Direzione del Partito Socialista, il gruppo parlamentare e il consiglio direttivo della Confederazione del Lavoro, dove il Partito ribadisce la sua posizione pacifista. Da questa riunione scaturisce il documento Ai socialisti di tutti i paesi; al quale si oppone però Amadeo Bordiga con Nulla da rettificare uscito su “L’Avanti” il 23 maggio, dove sottolinea la tendenza intesista di questo documento. Gli risponde Serrati, direttore de “L’Avanti” sdrammatizzando la frase non felice attaccata da Bordiga, ribadendo la linea internazionalista del PSI. Verso la fine di aprile appare il primo articolo di Antonio Gramsci sulla Rivoluzione di Febbraio, Note sulla rivoluzione russa; qui curiosamente Gramsci precisa che “i rivoluzionari russi non sono giacobini, non hanno già sostituito alla dittatura di uno solo la dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far trionfare il programma.” Ovvero quello che avverrà poi in ottobre. Appariva su “L’Avanti” già il 30 marzo un articolo di Genosse Sacerdote su Lenin, spiegando che questi è per la pace e contro il governo provvisorio in favore di un’Assemblea Costituente. Già a fine aprile si leggono articoli inneggianti l’autorevolezza di Lenin e la figura di Lenin rivoluzionario intransigente cresce nell’immaginario degli operai. Nonostante Vasilij Ivanovič Suchomlin (Junior) il corrispondente russo de “L’Avanti”, esalti invece la figura del socialrivoluzionario Černov. Junior aveva forti riserve su Lenin in quanto secondo lui eccessivamente dogmatico. Una volta partito per la Russia Junior, in giugno, la corrispondenza passò alla Balabanoff e ad Ing. questi erano più favorevoli nei confronti dei bolscevichi.
Quindi vi sono i fatti di luglio, ovvero la sollevazione dei soldati e operai di Pietrogrado contro il governo che si concluse con la repressione governativa che vide nei bolscevichi i principali fomentatori dichiarando il loro partito fuorilegge. Serrati nel suo La crisi della rivoluzione pubblicato il 22 luglio su “L’Avanti”, denuncia che il “malcontento popolarenon è sedato… permangono le cause che lo avevano originato… guerra … approvvigionamenti … La rivoluzione, fatta dal proletariato, sta per essere sfruttata dalla borghesia…”, e in un altro articolo intitolato Lenin Serrati esalta la figura di Lenin come il leader del movimento operaio socialista russo. Sfatando un po’ il mito del leninismo divenuto popolare solo post-Ottobre, “Critica Sociale” (si veda Primavera di rivoluzione, Verso albe nuove) dei socialisti unitari, già in occasione della rivoluzione di febbraio denuncia l’arretratezza russa ed è critica della posizione di Lenin a Zimmerwald e Kienthal. Turati e Claudio Treves sono molto chiari a riguardo della pace separata soprattutto per il timore che questa pace rafforzi la Germania a svantaggio dell’Italia. Questa posizione filo-patriottica dei riformisti si acuirà con la disfatta di Caporetto e verrà attaccata dagli intransigenti. Intanto Gramsci aggiusta il tiro in luglio, con I massimalisti russi, apparso su “Il Grido del popolo” e “L’Avanguardia”, dove esalta Lenin e i bolscevichi come i veri rivoluzionari e non evoluzionisti.

Quindi al grido di «Viva Lenin!» viene accolta la delegazione del Soviet di Pietrogrado già nell’agosto del 1917. La delegazione è composta da Goldenberg (ex-bolscevico, ora indipendente), Ehrlich (del Bund), Russanov (socialrivoluzionario) e Smirnov (menscevico). I delegati sono per la pace generale e non separata. Nasce una polemica proprio sul «Viva Lenin!» tra Turati e Serrati. Il primo sostiene che questo grido denunci “una confusione d’idee”, il secondo, invece sostiene che Lenin era “uno dei più fedeli interpreti del socialismo internazionale”. Molti socialisti non vedono di buon occhio però il sostegno che i delegati russi sembrano dare al governo Kerenskij. Questo si palesa il 13 agosto a Torino, dove il comizio dei delegati russi tradotto a braccio da Serrati per la folla, si conclude (proprio per l’esaltazione e il colorire di Serrati) con incidenti che gli costeranno l’incarcerazione e un processo. Scontri molto più seri avverranno sempre a Torino con in moti del 22 fino al 26 agosto. La Conferenza di Stato chiamata da Kerenskij che escludeva i bolscevichi viene aspramente criticata da “L’Avanti”. È chiaro come riportato da Ing. in settembre che la rivoluzione può sopravvivere non solo con la sconfitta del generale Kornilov, ma con la sconfitta del collaborazionismo di Kerenskij. Serrati nei suoi Scampoli-Lenin il 3 ottobre si chiede in tutto questo dove sia Lenin. Con la conquista della maggioranza del Soviet di Pietrogrado da parte dei bolscevichi e la nomina a presidente di Trockij su “L’Avanti” si incomincia già a leggere un mese prima della presa del potere da parte dei bolscevichi che “Lenin occuperà presto il posto di Kerensky”. Una presa del potere non troppo inaspettata in fondo.            

lunedì 15 maggio 2017

La Frazione della sinistra comunista italiana

Con questo articolo continuiamo la serie sul Giovane Bordiga illustrando la sua influenza politica determinatasi nella Frazione della sinistra comunista fino alla sua dissoluzione con la fondazione del Partito Comunista Internazionalista. Bordiga e la sinistra italiana accettarono la rivoluzione bolscevica di Ottobre come loro nuovo punto di riferimento. La loro intransigenza contro ogni tipo di corruzione della dottrina marxista, ogni tipo di collaborazione tra classi, e in alcuni casi con i sindacati, però li farà etichettare dagli stessi bolscevichi come infantili estremisti, settari e dottrinari. Comunque leninisti, i sinistri italiani saranno tra i primi a denunciare negli anni 20 la degenerazione politica del partito bolscevico, e alla fine negli anni 30, la degenerazione economica dell’Unione Sovietica. Nonostante ciò rimarranno ancorati al centralismo e alla coercizione delle masse. Questo articolo si concluderà con la citazione della risposta di Melvin Harris del nostro Partito, alla sinistra comunista, il quale taglierà corto sulla questione della degenerazione della rivoluzione russa. Questa non fu una rivoluzione Socialista, dice, ma condotta da una partito che era giacobino nella struttura e nel fine.

La sinistra comunista italiana storicamente origina dalla frazione intransigente rivoluzionaria presente all’interno del Partito Socialista Italiano (PSI). Questa frazione, come visto nel precedente scritto sul Giovane Bordiga, si opponeva a Filippo Turati e ai riformisti. Nel 1911 l’ex-operaista Costantino Lazzari aveva pubblicato “I principi e metodi del Partito Socialista Italiano” difendendo l’originale programma di partito del 1892 dalle degenerazioni riformiste. In termini semplicistici possiamo trovare in questo l’origine del concetto dell’invarianza del Programma del partito comunista, ovvero il leitmotiv, di Bordiga.  

Nell’Ottobre del 1917 il colpo di mano bolscevico alla rivoluzione russa, divise presto la frazione intransigente. Se i così detti riformisti di Turati, come Rodolfo Mondolfo, erano dell’opinione che la rivoluzione bolscevica era contro le condizioni oggettive storiche per instaurare il Socialismo, la frazione intransigente del PSI si divise tra astensionisti e massimalisti. Gli astensionisti si organizzarono nella “Frazione Comunista” fondata di fatto da Bordiga, subito prima del decisivo XVI Congresso del partito tenutosi a Bologna nell’Ottobre del 1919. La frazione era contro l’uso dello strumento elettorale in quanto spreco di preziose risorse rivoluzionarie, legittimazione dei riformisti, e fonte di corruzione degli intransigenti eletti. I massimalisti erano invece allo stesso tempo sia per la partecipazione elettorale che per la rivoluzione violenta. Alla luce dei fatti di Russia, Germania e Ungheria, durante il XVI Congresso del PSI i massimalisti riscrissero il programma originale del 1892 in uno più genuinamente rivoluzionario, il contributo di Bordiga fu però ridimensionato. Malgrado l’opposizione di Lazzari e Turati, il Partito votò per l’ingresso nella Terza Internazionale (Comintern). Il nuovo capo di fatto, anche se non segretario, divenne Giacinto Menotti Serrati, direttore dell’Avanti. Bordiga fu molto critico nei sui riguardi perché considerava la sua posizione ipocrita, ovvero sostenitrice dell’azione parlamentare e allo stesso tempo conclamatrice della rivoluzione di classe e dell’unità di partito. Unità di partito che avrebbe significato coesistere con i riformisti di Turati. Tuttavia, la politica unitaria di Serrati, diede in qualche modo, dei frutti, ovvero il 30,4% dei voti per il PSI, alle elezioni del 1919. 

domenica 7 maggio 2017

Imperialismo: dove Lenin sbagliò

Abbiamo tradotto questo recente articolo pubblicato sul Socialist Standard n. 1353 di Maggio 2017, non solo perché ne condividiamo a pieno il contenuto, ma anche perché riteniamo che sia un elemento di analisi importante per ridare credito al socialismo marxista. Considerare personaggi del passato, come del presente del resto, infallibili o allo stesso modo dei completi falliti non è mai realistico. Il Movimento Socialista Mondiale ha spesso pubblicato materiale anti-leninista, ma questo non va letto come un voler screditare l’uomo politico, il rivoluzionario o il socialista a prescindere da tutto. E’ importante però analizzare la sua opera e le sue azioni con gli strumenti forniteci dal materialismo storico. Secondo il nostro punto di vista Lenin, già dalla sua presa di posizione del 1902 nel impostare il partito socialdemocratico russo in termini gerarchici avanguardisti, è uscito dal seminato. Il suo atteggiamento denigratorio nei confronti di chi lo criticava, premiato dal suo indiscusso successo politico grazie a quello che fu davvero il suo più grande risultato, ovvero ottenere il potere politico con il colpo di stato di Ottobre, ha determinato una visione ampiamente deformata di cosa è il Socialismo e di come si può raggiungere. Questo breve articolo a seguire rimette in prospettiva l’analisi di Lenin sull’imperialismo e la questione coloniale. Questione coloniale che è anche oggi lungi dall’esser chiusa, se consideriamo, per esempio, gli strascichi nel nord Africa e nel medio oriente. E’ storia dell’altro ieri di movimenti di sinistra internazionalisti sfaldatisi sulla questione della lotte di liberazione dal colonialismo, ci riferiamo per esempio alla sinistra comunista italiana e francese all’inizio degli anni ottanta.                     


Imperialismo: dove Lenin sbagliò

Il mese scorso sono passati cento anni dalla pubblicazione dell’opuscolo di Lenin ‘Imperialismo, la fase superiore del capitalismo’. Riguardiamo qui i suoi difetti.  
Nella sua introduzione Lenin scrisse che l’opuscolo era basato sui punti di vista espressi nel libro ‘Imperialismo’ (1902) dallo scrittore inglese, non marxista, JA Hobson e quelli del socialdemocratico austriaco Rudolf Hilferding nel ‘Capitale Finanziario’ (1910). Hilferding, si basava soprattutto sull’esperienza tedesca, descrivendo come le banche, attraverso quello che oggi chiameremmo investimento bancario, erano arrivate a fondersi con il capitale industriale, raccogliendo capitale per gli industriali e non solo facendoli pagare per questo servizio ma trattenendo una quota per se stesse. Hobson, il quale era un sottoconsumista, sosteneva che ciò che aveva portato all’imperialismo, inteso come investimento e espansione territoriale all’estero, era il sovrappiù di capitale che non riusciva a trovare uno sbocco proficuo nel paese d’origine.        
Lenin combinò queste due visioni venendone fuori con una definizione di imperialismo come ‘lo stadio monopolistico del capitalismo’ dove ‘il capitale finanziario’ e allo stesso tempo ‘il capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche’ si era ‘fuso con il capitale delle unioni monopolistiche industriali’. Accettando la teoria del sovrappiù di capitale di Hobson, Lenin disse che il ‘capitalismo monopolistico’ aveva condotto alla formazione di ‘associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo tra di loro’ e la ‘ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche’.   
Questa era una descrizione passabile di alcuni aspetti del capitalismo a quei tempi, specialmente in Germania, e Lenin aveva ragione nel vedere la prima guerra mondiale come una guerra di ripartizione del mondo tra le più grandi potenze capitaliste. D’altro canto però la sua approvazione della teoria del sovrappiù di capitale di Hobson come una spiegazione per ‘esportazione di capitale’, ovvero, investimenti all’estero, lasciava dei dubbi. Una più lineare spiegazione dell’investimento di capitali all’estero sarebbe che era più proficuo investirli lì che a casa propria.       
Lenin errava anche nel vedere la fusione in stile tedesco di banche e capitale industriale come ‘la fase superiore del capitalismo’. Era un’opinione comune tra i partiti socialdemocratici a quel tempo che la competizione capitalista avrebbe condotto ai monopoli e che quello che ai socialisti toccava fare era prendere possesso di questi monopoli trasformandoli in proprietà comune e riorientare la produzione per soddisfare i bisogni della gente piuttosto che per il profitto. Karl Kautsky aveva ipotizzato che il processo di monopolizzazione poteva portare a un singolo consorzio monopolistico mondiale e a un accordo di non aggressione tra le potenze imperialiste, che egli chiamò ultra-imperialismo. Lenin aveva ragione nel dire che questo era impossibile in quanto le potenze non avrebbero mai trovato un accordo su una suddivisione permanete del mondo ma avrebbero cercato di cambiarlo a seconda di come cambiavano le loro forze. Ma Lenin non vide che questo concernesse i ‘monopoli’ nei suoi paesi ‘imperialisti’. La classe capitalista non era un blocco monolitico ma composta da sezioni diverse con interessi diversi e nessuna voleva essere tenuta in sacco da qualche monopolio. Da cui l’intervento ‘antimonopolistico’ negli Stati Uniti e la nazionalizzazione, e anche la minaccia di nazionalizzazione in Gran Bretagna.    
Fedele al suo stile polemico, Lenin attribuiva un movente a Kautsky, accusandolo di difendere un pacifico capitalismo mondiale anche se Kautsky aveva solo immaginato ‘l’ultra-imperialismo’ come una possibilità teorica. Lenin postulò un collegamento tra ‘l’opportunismo’ del quale accusava Kautsky e ‘l’imperialismo’, argomentando che il riformismo dei partiti Socialdemocratico e Laburista d’Europa era dovuto alle potenze ‘imperialiste’ che usavano una parte dei loro ‘alti profitti monopolistici’ per corrompere ‘certe sezioni di lavoratori’ nel sostenere il riformismo e lo stato nel quale questi vivevano. Dopo il colpo di stato bolscevico questo argomento fu sviluppato in una teoria bell’e fatta che lo strato più alto dei lavoratori in paesi con colonie era stato corrotto per sostenere il capitalismo per dei super-profitti derivanti dall’esplorazione coloniale e che l’indipendenza dei territori coloniali avrebbe ridimensionato questo fenomeno, con il risultato che, deprivati della loro quota di super-profitto, i lavoratori avrebbero abbandonato il riformismo e sarebbero diventati rivoluzionari.  
Questo fu un errore per un numero di ragioni. In primo luogo, va contro la teoria marxiana dei salari che sostiene che i salari sono il prezzo di quello che i lavoratori vendono e che salari più alti riflettono più alte capacità e preparazione tecnica, non qualsivoglia condizione di plusvalore come implicava Lenin (ovvero che parte dei soldi che alcuni lavoratori ricevono dai loro padroni sia una quota di plusvalore, estratto dai lavoratori delle colonie*). In secondo luogo, questo portò a sostenere la creazione di nuovi stati capitalisti per il beneficio della classe capitalista locale. In terzo luogo, presuppone che i lavoratori diventino meno riformisti se il loro livello di vita è diminuito.      
Lenin stesso menzionò un’obiezione, che attribuiva all’anti-militarista menscevico Martov, che la situazione per i socialisti sarebbe alquanto disperata ‘se fossero proprio i lavoratori meglio pagati ad essere inclini all’opportunismo’, per esempio gli ingegneri qualificati. La replica di Lenin era, tipicamente, di accusare anche Martov di difendere l’opportunismo e il riformismo.
Se i bolscevichi non avessero conservato il potere in Russia questo lavoro sarebbe rimasto un opuscolo sconosciuto e datato. Tuttavia, data la posizione di Lenin e la sua successiva semi-deificazione, fu gonfiato in un’opera seria di ricerca e teoria. Il risultato fu che le sue idee errate – specialmente in merito a dei lavoratori che condividono lo sfruttamento coloniale e che i socialisti dovrebbero sostenere l’emergere delle classi capitaliste ‘anti-imperialiste’ – divennero più ampiamente accettate di quanto sarebbero state altrimenti.      
ADAM BUICK (traduzione di Cesco)

* comunicazione personale dell’autore al traduttore

sabato 25 aprile 2015

Dove ci guidano i leader

Traduciamo questo interessante articolo dei compagni del “Socialist Party of Great Britain” rivolto criticamente a uno dei vari gruppi britannici della cosiddetta “estrema sinistra”, poiché le considerazioni dell’autore si applicano in maniera abbastanza puntuale anche a quello che accade nel nostro paese per ciò che concerne la galassia dei partitini leninisti, trozkisti, stalinisti e maoisti: da “Lotta Comunista” al “Partito Comunista dei Lavoratori”, da “FalceMartello” fino al “Partito Comunista - Sinistra Popolare” e al “Bolscevico”. Con in più l’aggravante che in certi casi al discutibile metodo di Lenin se ne è sostituito da noi uno ancora peggiore: il cosiddetto “centralismo dialettico”, dove non vi sono più né congressi né votazioni, ma tutto avviene per pura cooptazione da parte della dirigenza. Direttamente la prassi di una setta esoterica o religiosa...
 
Piuttosto noto nel Regno Unito per le sue imprese, per i suoi banchetti in strada e per il suo attivismo studentesco, il Socialist Worker Party (SWP, https://www.swp.org.uk/) britannico soffrì un paio di anni fa di un notevole arretramento che condusse a un vero e proprio esodo dei suoi militanti. Uno di questi era Ian Birchall, biografo del fondatore del gruppo Tony Cliff e già componente della dirigenza del partito. Era stato membro dell’SWP e del suo gruppo predecessore, l’International Socialism (IS), per oltre cinquant’anni. Lo scorso dicembre ha pubblicato nel suo blog alcune riflessioni [1] su cosa è andato storto nel partito.
Quando venne formato negli anni ’50 come gruppo trotzkista che riconosceva la natura capitalista della cosiddetta URSS (cosa che noi ben sapevamo da parecchio tempo...) l’IS era organizzato allo stesso modo di molti altri gruppi di sinistra del Regno Unito: i suoi membri erano tutti affiliati al Partito Laburista e si definivano “laburisti di sinistra”. Poi negli anni ’60 le cose iniziarono a cambiare: uscirono dal Partito Laburista e nel 1968 Cliff decise che era il momento di riorganizzare il gruppo secondo linee guida leniniste più rigorose. Era stato lo sciopero generale in Francia di qualche mese prima a spingerlo in questa direzione. Tipicamente, da buon trotzkista, Cliff attribuiva l’impossibilità di arrivare alla rivoluzione socialista all’assenza di un partito rivoluzionario che guidasse i lavoratori in sciopero (non che la rivoluzione socialista fosse il reale obiettivo dello sciopero, tuttavia esso era effettivamente un successo da un punto di vista sindacale). Concluse quindi che ciò che i “rivoluzionari” dovevano fare alla luce di questo evento era di organizzarsi apertamente secondo le linee guida del partito bolscevico di Lenin, che, per lui e per la leggenda trotzkista, aveva condotto a una rivoluzione socialista vittoriosa (benché questa fosse successivamente degenerata in un brutale capitalismo di stato...).
Lenin aveva esposto le sue idee su come doveva essere organizzato un partito rivoluzionario nel noto opuscolo del 1903 intitolato “Che fare?”, dove proponeva un partito di rivoluzionari professionisti a tempo pieno che dovevano cercare di guidare i lavoratori e i contadini formulando parole d’ordine populiste che riflettessero il livello di comprensione che “le masse” erano considerate in grado di raggiungere. Ciò poteva avere un senso come strategia per rovesciare un regime retrogrado e autocratico quale lo zarismo. Come accadde, il regime zarista collassò per conto suo sotto la pressione della Prima Guerra Mondiale, ma la forma organizzativa di Lenin contribuì non poco alla presa del potere politico da parte dei bolscevichi dopo il crollo dello zarismo. Tale successo spinse Lenin a proclamare che quello bolscevico era l’unico modo in cui i rivoluzionari si dovevano organizzare, anche nei paesi capitalisti sviluppati là dove esisteva una stabile democrazia politica.
Così nel 1968 i membri dell’IS cambiarono nome sui loro documenti ufficiali da “lavoratori laburisti” a “lavoratori socialisti” e, più importante, abbandonarono la loro precedente struttura organizzativa dove la linea politica era decisa da una congresso di delegati di sezione che votavano mozioni proposte dalle sezioni e dove i membri del comitato esecutivo erano eletti individualmente. Tutto questo fu messo da parte e venne introdotto il sistema della “lista bloccata” che aveva usato il partito bolscevico e che era stato ereditato dal PCUS in Russia (sì, anche in questo il leninismo condusse allo stalinismo...). Con tale sistema la dirigenza (l’“ufficio politico”,il  “comitato centrale” o come vogliamo chiamarla) viene eletta in blocco al congresso di partito. I delegati non votano per i singoli candidati, ma per la lista (o “blocco”) che contiene tanti nomi quanti sono i posti vacanti. In teoria ci potrebbero essere più liste, ma in pratica non ce ne sono (e non ce ne sono mai state). Nell’SWP (come nell’URSS) ce n’era una sola, quella proposta dalla dirigenza uscente. Piuttosto che proporre una lista rivale, gli oppositori della dirigenza preferivano abbandonare il partito e formare un altro gruppo organizzato nello stesso modo (questo spiega la proliferazione di gruppi trotzkisti...). Si può vedere facilmente come sia una ricetta per la nascita di una dirigenza che si auto-replica. Cosa che infatti è puntualmente accaduta, come nota Birchall:
“Gli eventi recenti hanno mostrato i limiti del sistema della ‘lista bloccata’. È diventata un metodo con cui il Comitato Centrale può riproporsi per la rielezione all’infinito, cooptando singole persone designate quando serve.”
Ma anche nell’SWP vi è un’altra conseguenza:
“Inoltre è emersa pure l’idea della carriera: compagni, in generale ex-studenti, diventano funzionari a tempo pieno e, se hanno successo, entrano nell’apparato e divengono membri del Comitato Centrale. Così abbiamo un Comitato Centrale quasi interamente composto da persone che hanno speso la gran parte della loro carriera politica come funzionari a tempo pieno e hanno quindi una limitatissima esperienza lavorativa e sindacale.”Il sistema delle liste bloccate era applicato persino per eleggere i delegati di sezione al congresso di partito:
“Negli anni ’80, quando esistevano direttivi di sezione vigorosi, tali direttivi stabilivano le liste dei delegati al congresso di partito. Se ovviamente in teoria era possibile per i membri proporre liste alternative, questo era malvisto e, in pratica, era alquanto raro far porre all’ordine del giorno del congresso di sezione il punto in cui si raccoglievano le candidature per divenire delegati al congresso di partito. In pratica andava bene quello che faceva il direttivo: era ciò che accadeva normalmente.” Così l’SWP finì per essere un’organizzazione verticista gestita da un gruppetto di dirigenti che si auto-replicava.
Forse sorprende che Birchall non concluda che questo fosse il risultato inevitabile del sistema delle “liste bloccate”, un punto chiave nel concetto di partito leninista di avanguardia. Egli pensa ancora a un partito di rivoluzionari di professione organizzato in modo leninista. Non ce l’ha con la teoria, ma con come è stata applicata nell’SWP: burocraticamente invece che democraticamente. Però per lui “democrazia” non significa una procedura decisionale, ma soltanto un mezzo per informare la dirigenza in modo tale che possa formulare la politica migliore da perseguire e le parole d’ordine più adeguate da proporre ai lavoratori affinché le seguano:
“...una dirigenza rivoluzionaria necessita di sapere cosa accade nella classe lavoratrice. Non lo può fare leggendo il ‘Financial Times’; deve ascoltare i compagni radicati nella varie sezioni della classe che possono riportare quello che succede nella base. Come diceva Cliff: ‘...devono imparare dai loro compagni lavoratori quanto più possibile e persino in misura maggiore di quanto devono insegnare loro. Ripetendomi: il compito è dirigere e per dirigere dovete comprendere in pieno quelli che state dirigendo’.” Questa non è democrazia in nessun senso compiuto. Si sta ancora dicendo che la classe dei salariati e degli stipendiati è incapace di liberarsi da sé e che quindi necessita di un’avanguardia che si è autonominata. Si rifiuta ancora l’idea che il socialismo, in quanto società completamente democratica, possa esser stabilito solo democraticamente, sia nel senso di esser quello che vuole la maggioranza, sia nel senso di utilizzare metodi democratici. Per arrivare al socialismo la classe dei salariati e degli stipendiati necessita certamente di organizzarsi per conquistare il potere politico, per esempio in un partito politico, ma in un partito democratico, e non di seguire un partito di avanguardia o altri possibili capi.
Però c’è una cosa che Birchall sembra aver capito dopo più di cinquant’anni vissuti da trozkista-leninista:
“La cosa importante in questo momento è la battaglia delle idee, come disse William Morris: ‘il nostro compito particolare sarebbe quello di creare dei Socialisti’.” È una citazione dallo “Statement of Principles of the Hammersmith Socialist Society” stilato nel 1890. Ed è ciò che andiamo dicendo noi del “Socialist Party of Great Britain” da più di cento anni.

ADAM BUICK

tratto da “Socialist Standard”  pp. 16 e 17 , n. 1326, vol. 111, febbraio 2015. Tradotto in italiano il 12 aprile 2015.

NOTE
[1] http://grimanddim.org/political-writings/2014-so-sad/


K. Marx o V. I. Lenin? Il primo nel 1864 scrisse che “l'emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi”, mentre il secondo nel 1903, con l’opuscolo “Che fare?”, inventò il partito bolscevico di avanguardia: costituito da sedicenti “rivoluzionari di professione” (in genere studenti o intellettuali stipendiati con le quote dei lavoratori) sarà il germe di tutta la futura nomenklatura sovietica, rapace, repressiva e autoritaria. Il marxismo-leninismo non esiste: è una contraddizione in termini!

domenica 12 settembre 2010

La leggenda di Lenin

Paul Mattick 1935

Fonte: Archivio Kurasje

Scritto: da Paul Mattick, pubblicato in International Council Correspondence Vol. 2, n. 1, dicembre 1935 e ristampato nel Western Socialist Vol. 13 n. 3, gennaio 1946. Nel 1978 fu incluso in “Anti-Bolshevik Communism” di Paul Mattick edito da Merlin Press, Londra, 1978 ISBN: 0 850 36 222 7/9. La versione elettronica di questo testo fu prodotta da Kavosh Kavoshgar per Kurasje.
Tradotto da: Francesco Sartor con la collaborazione di Gian Maria Freddi, 2010

Più gialla e più coriacea diventa la pelle mummificata di Lenin, e più alto diventa il numero determinato statisticamente di visitatori al mausoleo di Lenin, meno la gente si preoccupa del vero Lenin e della sua significatività storica. Sempre più monumenti vengono eretti alla sua memoria, sempre più pellicole vengono fuori nelle quali lui è la figura centrale, sempre più libri scritti su di lui, e i pasticceri russi modellano dolci in forme che rassomigliano alla sua figura. E ancora lo sbiadirsi delle facce dei Lenin di cioccolata è associato alla poca chiarezza e all’improbabilità delle storie che vengono raccontate su di lui. Sebbene l’Istituto Lenin di Mosca potrebbe pubblicare la raccolta dei suoi lavori, questi non hanno più nessun significato in confronto alle leggende fantastiche che si sono formate attorno al suo nome. Appena la gente incominciò a preoccuparsi dei bottoni del colletto di Lenin, cessarono anche di preoccuparsi delle sue idee. Ognuno quindi si modella il proprio Lenin, e se non alla sua stessa immagine, in ogni caso secondo i propri desideri. Quanto la leggenda di Napoleone sta alla Francia e la leggenda di Federico alla Germania, tanto la leggenda di Lenin sta alla nuova Russia. Così come la gente una volta si rifiutava assolutamente di credere alla morte di Napoleone, e così come la gente sperò nella risurrezione di Federico, così in Russia ancor oggi ci sono contadini secondo i quali il nuovo “piccolo padre Zar” non è morto ma continua a indulgere il suo insaziabile appetito richiedendo a loro addirittura nuovi tributi. Altri accendono lumini eterni sotto la foto di Lenin: per loro lui è un santo, un redentore al quale si prega per un aiuto. Milioni di occhi fissano milioni di queste foto, e vedono in Lenin l’equivalente russo di Mosé, San Giorgio, Ulisse, Ercole, Dio o il Diavolo. Il culto di Lenin è diventato una nuova religione davanti la quale anche l’ateismo comunista felicemente si genuflette: rende la vita più facile in ogni aspetto. Lenin appare a loro come il padre dell’Unione Sovietica, l’uomo che rese possibile la vittoria della rivoluzione, il grande leader senza il quale loro stessi non esisterebbero. Ma non solo in Russia e non solo nella leggenda popolare, ma anche a una larga parte dell’intellighenzia marxista in tutto il mondo, la rivoluzione russa è diventata un evento mondiale addirittura così strettamente unito al genio di Lenin che si ha l’impressione che senza di lui la rivoluzione e quindi la storia mondiale avrebbe probabilmente potuto prendere un corso essenzialmente diverso. Una genuina e obiettiva analisi della rivoluzione russa, tuttavia, rivelerà immediatamente l’insostenibilità di tale idea.

“L’affermazione che la storia è fatta dai grandi uomini è da un punto di vista teorico completamente infondata.” Queste sono le parole con le quali Lenin stesso dà il via alla leggenda che insiste nel fare di lui l’unico responsabile del “successo” o del “crimine” della rivoluzione russa. Egli considerava la guerra mondiale determinante in merito alla diretta causa del suo scoppio e per il tempo del suo verificarsi. Sì; senza la guerra, dice, “la rivoluzione sarebbe stata probabilmente posticipata di decenni”. L’idea che lo scoppio e il corso della rivoluzione russa dipese in grandissima misura da Lenin necessariamente implica una completa identificazione della rivoluzione con la presa del controllo del potere da parte dei bolscevichi. Trotsky ha rimarcato l’effetto che l’intero credito per il successo della rivolta di Ottobre appartiene a Lenin; contro l’opposizione di tutti i suoi amici di partito, la risoluzione per l’insurrezione fu portata avanti da lui solo. Ma la presa del potere da parte dei bolscevichi non diede alla rivoluzione lo spirito di Lenin; al contrario, Lenin aveva talmente adattato se stesso alle necessità rivoluzionarie che praticamente egli eseguì completamente il compito della classe che lui apparentemente combatteva. Di sicuro spesso si afferma che con la presa del potere statale da parte dei bolscevichi la rivoluzione originariamente democratico-borghese fu senz’altro convertita in una socialista-proletaria. Ma è davvero possibile per chiunque credere seriamente che un singolo atto politico sia capace di rimpiazzare un intero sviluppo storico; che sei mesi – da febbraio a ottobre – siano sufficienti per formare i presupposti economici di una rivoluzione socialista in un paese che stava soltanto cercando di liberarsi dai suoi vincoli feudali e assolutisti, con lo scopo di dare più libero gioco alle forze del capitalismo moderno?

Fino alla rivoluzione, e in stragrande misura anche oggi, il ruolo decisivo nello sviluppo economico e sociale della Russia fu giocato dalla questione agraria. Su 174 milioni di abitanti prima della guerra, solo 24 milioni vivevano nelle città. Per ogni migliaia di lavoratori retribuiti, 719 erano occupati nell’agricoltura. Malgrado la loro enorme importanza economica, la maggioranza dei contadini conducevano ancora vite miserabili. La causa della loro situazione deplorabile era l’insufficienza di terra. Lo Stato, la nobiltà e i grandi proprietari terrieri assicuravano a loro stessi con brutalità asiatica un irragionevole sfruttamento della popolazione.

Dall’abolizione della servitù della gleba (1861) la scarsità di terra per le masse contadine era stata costantemente la questione attorno alla quale tutto il resto girava nella politica interna russa. Formò l’oggetto principale di tutti i tentativi di riforma, che vide in questo la forza motrice dell’imminente rivoluzione, la quale dovette essere sviata. La politica finanziaria del regime zarista, con le sue nuove imposte di tassazione indiretta, peggiorarono le condizioni dei contadini ancor di più. Le spese per l’esercito, la flotta, l’apparato statale arrivarono a proporzioni gigantesche; la porzione più grande del budget statale andò a propositi improduttivi, i quali rovinarono totalmente la fondazione economica dell’agricoltura.

“Libertà e terra” era la necessaria richiesta rivoluzionaria dei contadini. Sotto questa parola d’ordine si verificarono una serie di rivolte contadine che presto, nel periodo che va dal 1902 al 1906, assunsero una portata significativa. In combinazione con i movimenti di sciopero di massa dei lavoratori che prendevano luogo allo stesso momento, esse produssero un tale violento scompiglio nel cuore dello Zarismo che quel periodo potrebbe invero essere denotato come una “prova generale” per la rivoluzione del 1917. La maniera in cui lo Zarismo reagì a queste ribellioni è illustrata nel modo migliore dall’espressione del vice governatore della provincia di Tambov Bogdanovich: “Pochi arrestati, i più sono stai passati per le armi”. E uno degli ufficiali che aveva preso parte alla soppressione dell’insurrezione scrisse: “Tutto attorno a noi, spargimenti di sangue; ogni cosa in fiamme; abbiamo sparato, abbattuto, pugnalato.” Fu in questo mare di sangue e fiamme che nacque la rivoluzione del 1917.

Nonostante le sconfitte, la pressione dei contadini crebbe di più e più minacciosa. Portò alle riforme di Stolipin, che comunque, erano solo gesti vuoti, pieni di promesse che in realtà non aggiunsero alla questione agraria un singolo passo avanti. Ma una volta dato il mignolo, si vorrà presto prendere l’intero braccio. L’ulteriore peggioramento della situazione dei contadini durante la guerra, la sconfitta dell’esercito zarista al fronte, le crescenti rivolte nelle città, la caotica politica zarista, nella quale ogni ragione fu gettata a mare, il dilemma generale per tutte le classi della società, portò alla rivoluzione di febbraio, che prima di tutto fece emergere la situazione violenta della questione agraria; la quale era stata una questione calda per mezzo secolo. Il suo carattere politico, tuttavia, non era stato inculcato a questa rivoluzione dal movimento contadino; questo movimento semplicemente gli diede il suo grande potere. Nel primo annuncio del Comitato Esecutivo Centrale del Consiglio (soviet) dei lavoratori e dei soldati di San Pietroburgo la questione agraria non fu neppure menzionata. Ma i contadini presto imposero la loro presenza all’attenzione del nuovo governo. Stanchi di aspettare il governo per agire in merito alla questione agraria, in aprile e maggio del 1917 le masse contadine deluse incominciarono ad appropriarsi della terra da sole. I soldati al fronte, timorosi di non aver modo di prendere il loro pezzo nella nuova distribuzione, abbandonarono le trincee e si precipitarono nei loro villaggi. Portandosi le armi dietro, comunque, e così non dando altra scelta al nuovo governo di reprimerli. Tutti i suoi appelli al sentimento di nazionalità e sacralità degli interessi russi non erano di alcuna utilità contro l’urgenza delle masse di ottenere alla fine i loro bisogni economici. E questi bisogni comprendevano la pace e la terra. Fu detto a quel tempo che i contadini che venivano implorati di rimanere al fronte, altrimenti i tedeschi avrebbero occupato Mosca, erano alquanto indecisi e risposero agli emissari di governo: “E che cos’è quello per noi? Che diamine, noi veniamo dal Governo di Tamboff”.

Lenin e i bolscevichi non inventarono lo slogan vincente “Terra ai contadini”; piuttosto, essi accettarono che la vera rivoluzione contadina proseguiva indipendentemente da loro. Usando a loro favore il vacillante atteggiamento del regime di Kerensky, che sperava ancora di essere in grado di accomodare la questione agraria per mezzo di una discussione pacifica, i bolscevichi vinsero il favore dei contadini e furono così in grado di scacciare il governo di Kerensky e di assumere loro stessi il controllo del potere. Ma questo fu possibile per loro solo come agenti del volere contadino, sanzionando la loro appropriazione della terra, e fu solo attraverso il loro supporto che i bolscevichi furono in grado di mantenersi al potere.

Lo slogan “terra ai contadini” non ha nulla a che vedere con i principi comunisti. La frammentazione di un grande possedimento in un vasto numero di piccole imprese agricole indipendenti era una misura direttamente opposta al socialismo, e che poteva essere giustificata solo in virtù di una necessità tattica. I successivi cambiamenti nella politica contadina di Lenin e dei bolscevichi furono vani nell’apportare qualche cambiamento nelle necessarie conseguenze della sua politica opportunistica originale. Malgrado tutta la collettivizzazione, che fino ad ora è largamente limitata a lati tecnici del processo produttivo, l’agricoltura russa è ancor oggi in pratica determinata da interessi e motivi di economia privata. E questo implica l’impossibilità, anche in campo industriale, di approdare a non più di un’economia a capitalismo di Stato. Anche se questo capitalismo di Stato punta a trasformare completamente la popolazione agricola in salariati agricoli sfruttabili, questo obiettivo non è assolutamente possibile da ottenere in vista dei nuovi scontri rivoluzionari legati a tale avventura. La presente collettivizzazione non può essere considerata il compimento del socialismo. Questo diventa chiaro quando si tiene in considerazione il fatto che osservatori della scena russa come Maurice Hindus ritengono possibile che “anche se i Soviet dovessero collassare, l’agricoltura russa rimarrebbe collettivista, con il controllo forse più nelle mani dei contadini che del governo”. Comunque, anche se la politica agricola bolscevica dovesse portare al risultato desiderato, la situazione dei lavoratori rimarrebbe comunque inalterata. E neppure tale compimento sarebbe considerato una transizione al socialismo reale, in quanto questi elementi della popolazione ora privilegiati dal capitalismo di Stato difenderebbero i loro privilegi contro tutti i cambiamenti esattamente come i proprietari privati fecero prima al tempo della rivoluzione del 1917.

I lavoratori delle industrie formavano ancora una piccola minoranza della popolazione, ed erano coerentemente incapaci di imprimere alla rivoluzione russa un carattere conforme ai propri bisogni. Gli elementi borghesi che similmente combattevano lo zarismo retrocedettero davanti alla natura dei loro stessi compiti. Non potevano accedere alla soluzione rivoluzionaria della questione agraria, in quanto a un’espropriazione generale della terra avrebbe fatto seguito troppo facilmente l’espropriazione dell’industria. Né i contadini né i lavoratori li seguirono, e il destino della borghesia era deciso dalla temporanea alleanza tra questi ultimi gruppi. Non fu la borghesia ma i lavoratori a portare la rivoluzione borghese alla sua conclusione; il posto del capitalismo fu preso dall’apparato statale bolscevico sotto lo slogan leninista: “se capitalismo in ogni caso, allora facciamolo”. Di sicuro i lavoratori nelle città avevano rovesciato il capitalismo, ma solo allo scopo ora di convertire l’apparato del partito bolscevico nei loro nuovi padroni. Nelle città industriali la lotta dei lavoratori continuò sotto richieste socialiste, in modo apparentemente indipendente dalla rivoluzione contadina in corso allo stesso tempo ma in un senso decisivo determinato da quest’ultima. Le richieste rivoluzionarie originali dei lavoratori erano oggettivamente impossibili da portare a compimento. Dobbiamo riconoscerlo, i lavoratori erano in grado, con l’aiuto dei contadini, di vincere il potere statale per il loro partito, ma questo nuovo Stato presto assunse una posizione direttamente opposta a quella degli interessi dei lavoratori. Un’opposizione che persino oggi ha assunto forme che effettivamente permettono di parlare di uno “zarismo rosso”: soppressione degli scioperi, deportazioni, esecuzioni di massa, e quindi anche la nascita di nuove organizzazioni illegali che conducono una rivolta comunista contro il presente finto socialismo. L’attuale discorso riguardo a un’estensione della democrazia in Russia, al pensiero di introdurre una sorta di parlamentarismo, alla risoluzione dell’ultimo congresso dei soviet in merito allo smantellamento della dittatura, tutto questo è meramente una manovra tattica progettata per compensare l’ultimo atto di violenza da parte del governo contro l’opposizione. Queste promesse non sono da prendere seriamente, ma sono un risultato della pratica leninista, la quale era sempre ben calcolata per funzionare in due direzioni allo stesso tempo nell’interesse della sua stessa stabilità e sicurezza. Lo zigzagare della politica leninista deriva dalla necessità di conformarsi costantemente all’avvicendamento delle forza di classe in Russia in tale maniera che il governo possa sempre rimanere padrone della situazione. E così oggi si accetta ciò che si era respinto il giorno prima, o viceversa; un non principio è stato elevato a principio, e il partito leninista si concentra solo su una cosa, cioè, l’esercizio del potere di Stato ad ogni costo.

Qui, tuttavia, noi siamo interessati solo nel chiarire che la rivoluzione russa non fu dipendente da Lenin o dai bolscevichi, ma che l’elemento decisivo fu la rivolta contadina. E, su questo argomento, Zinoviev, ancora al potere a quel tempo e dalla parte di Lenin, aveva affermato durante l’undicesimo Congresso del Partito Bolscevico (marzo-aprile 1921): “Non fu l’avanguardia proletaria dalla nostra parte, ma il passaggio dalla nostra parte dell’esercito, perché noi chiedevamo la pace, che fu il fatto decisivo della nostra vittoria. L’esercito, comunque era formato da contadini. Se noi non avessimo avuto il supporto dei milioni di contadini soldati, la nostra vittoria sulla borghesia sarebbe stata fuori questione”. Il grande interesse dei contadini sulla questione della terra da un lato, e il minimo interesse da parte del governo dall’altro, permise ai bolscevichi di condurre una lotta vittoriosa per il governo. I contadini erano abbastanza disponibili a lasciare il Cremlino ai bolscevichi, solo a patto che questi non interferissero con la loro lotta contro i grandi proprietari terrieri.

Ma anche nelle città, Lenin non fu il fattore decisivo nel conflitto tra capitale e lavoro. Al contrario, egli fu impotentemente trascinato dalla scia dei lavoratori, i quali nelle loro richieste e misure effettive andarono ben oltre i bolscevichi. Non fu Lenin che condusse la rivoluzione, ma la rivoluzione condusse Lenin. Però non prima della rivolta d’Ottobre Lenin restrinse le sue originarie e risolute richieste al controllo della produzione, e desiderava fermarsi con la socializzazione delle banche e dei trasporti; senza un’abolizione generale della proprietà privata, i lavoratori non diedero attenzione ulteriore ai suoi punti di vista e esporpriarono tutte le imprese. È interessante ricordare che il primo decreto del governo bolscevico fu diretto contro le espropriazioni selvagge e non autorizzate delle fabbriche per mezzo dei consigli dei lavoratori. Ma questi consigli (soviet) erano a quel tempo più forti dell’apparato di partito e obbligarono Lenin a emanare il decreto per la nazionalizzazione di tutte le imprese industriali. Fu solo sotto la pressione esercitata dai lavoratori che i bolscevichi acconsentirono a questo cambio nei loro piani. Gradualmente, attraverso l’estensione del potere statale, l’influenza dei consigli s’indebolì, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui i consigli non servono altro che a scopi decorativi.

Durante i primi anni della rivoluzione, sino all’introduzione della Nuova Politica Economica (New Economic Policy, NEP) (1921), ci fu di sicuro qualche sperimentazione in Russia in senso comunista. Questo, però, non è da accreditare a Lenin, ma a quelle forze che lo resero un camaleonte politico che una volta assumeva un colore reazionario e un’altra un colore rivoluzionario. Inizialmente nuove rivolte contadine contro i bolscevichi portarono Lenin a una politica più radicale, un’enfasi più forte agli interessi degli operai e dei contadini poveri che si erano ritrovati a mani vuote dopo la prima distribuzione della terra. Ma poi questa politica si dimostra un fallimento, in quanto i contadini poveri, i cui interessi sono quindi privilegiati, si rifiutano di appoggiare i bolscevichi e Lenin “rivolge il suo sguardo ancora verso i contadini medi”. In tal caso Lenin non ha scrupoli nel rafforzare da capo gli elementi di capitale privato, e gli alleati di prima, che sono ora cresciuti in modo indesiderato, vengono abbattuti con i cannoni, com’è avvenuto a Kronstadt.

Il potere, e niente di meno che il potere: è a questo che l’intera saggezza politica di Lenin in fine si riduce. Il fatto che i modi con i quali si ottiene, i mezzi che portano al potere, determinano a loro volta la maniera in cui tale potere è applicato, era una materia che gli interessava poco. Il socialismo, per lui, era in ultima istanza semplicemente una sorta di capitalismo di Stato, seguendo il “modello del servizio postale tedesco”. E questo capitalismo di Stato colse sulla sua strada, perché in realtà non c’era null’altro da prendere. Fu semplicemente una questione di chi sarebbe stato il beneficiario del capitalismo di Stato, e qui Lenin non diede la precedenza a nessuno. E pertanto George Bernard Shaw, tornando dalla Russia, fu alquanto corretto quando, in una lezione davanti alla Società Fabiana a Londra, affermò che “il comunismo russo non è niente più che la messa in pratica del programma fabiano che noi abbiamo predicato negli ultimi quarant’anni”.

Ancora nessuno, tuttavia, ha avuto il sospetto che i fabiani costituiscano una forza rivoluzionaria mondiale. E Lenin è di sicuro prima di tutto acclamato come un rivoluzionario mondiale, nonostante il fatto che il presente governo russo con il quale il suo “patrimonio” è amministrato diffonde smentite enfatiche quando la stampa pubblica articoli di brindisi russi alla rivoluzione mondiale. La leggenda della significatività mondiale rivoluzionaria di Lenin riceve il suo nutrimento dalla sua coerente posizione internazionale durante la guerra. Fu alquanto impossibile per Lenin a quel tempo concepire che una rivoluzione russa non avrebbe avuto ulteriori ripercussioni e sarebbe stata abbandonata a se stessa. C’erano due ragioni per questo punto di vista: primo, perché tale pensiero era in contraddizione con la situazione oggettiva risultante dalla guerra mondiale; e secondo, egli sosteneva che l’attacco delle nazioni imperialiste contro i bolscevichi avrebbe rotto la schiena della rivoluzione russa se il proletariato dell’Europa occidentale non fosse venuto in suo soccorso. La chiamata di Lenin per la rivoluzione mondiale era primariamente una chiamata in supporto e per il mantenimento del potere bolscevico. La prova che non fu molto più che questo è fornita dalla sua incoerenza in questa questione: in aggiunta alle sue richieste per la rivoluzione mondiale, allo stesso tempo venne fuori con il “diritto di autodeterminazione di tutti i popoli oppressi”, per la loro liberazione nazionale. Anche questa partita doppia proviene allo stesso modo dal bisogno giacobino dei bolscevichi di mantenere il potere. Con entrambi gli slogan le forze di intervento dei paesi capitalisti negli affari russi erano indebolite, in quanto la loro attenzione veniva deviata sui loro stessi territori e colonie. Ciò permise ai bolscevichi di respirare. Al fine di renderla più lunga possibile, Lenin istituì la sua Internazionale. Essa stabilì per se stessa un doppio compito: da una parte, subordinare i lavoratori dell’Europa occidentale e dell’America alla volontà di Mosca; dall’altra, rafforzare l’influenza di Mosca sulle genti dell’Asia orientale. Il lavoro sul campo internazionale era modellato sul seguito del corso della rivoluzione russa. L’obiettivo era quello di combinare gli interessi dei lavoratori e dei contadini su scala mondiale e di controllarli attraverso i bolscevichi, per mezzo dell’Internazionale Comunista. In questo modo almeno il potere statale bolscevico in Russia riceveva supporto; e nel caso in cui la rivoluzione mondiale dovesse diffondersi veramente, il potere sul mondo sarebbe a portata di mano. Anche se il primo progetto aveva avuto successo, allo stesso tempo il secondo non era stato ultimato. La rivoluzione mondiale non fu in grado di progredire come un’imitazione allargata di quella russa, e le limitazioni nazionali della vittoria in Russia necessariamente fecero dei bolscevichi una forza contro-rivoluzionaria sul piano internazionale. Perciò anche la richiesta della “rivoluzione mondiale” fu convertita nella “teoria di costruire il socialismo in un solo paese”. E questa non è una perversione di una posizione leninista – come Trotsky, per esempio, asserisce oggi – ma la conseguenza diretta di una pseudo politica di rivoluzione mondiale perseguita da Lenin stesso.

Era chiaro a quel tempo, addirittura a molti bolscevichi, che la restrizione della rivoluzione alla Russia avrebbe fatto della rivoluzione russa stessa un fattore per il quale la rivoluzione mondiale sarebbe stata impedita. Così, per esempio, Eugene Varga scrisse nel suo libro “Problemi economici della dittatura del proletariato”, pubblicato dell’Internazionale Comunista (1921): “Esiste il pericolo che la Russia possa essere eliminata come forza motrice della rivoluzione internazionale…Ci sono comunisti in Russia che si sono stancati di aspettare la rivoluzione europea e sperano di trarre il meglio dal loro isolamento nazionale… Con una Russia che considererebbe la rivoluzione sociale degli altri paesi come una materia con la quale non avrebbe niente a che vedere, i paesi capitalisti sarebbero in ogni caso in grado di vivere pacificamente con rapporti di buon vicinato. Sono lontano dal credere che il soffocamento della rivoluzione russa sarebbe in grado di fermare il progresso della rivoluzione mondiale. Ma quel progresso sarebbe rallentato”. E con l’inasprirsi delle crisi interne in Russia intorno al quel periodo, non ci volle molto tempo prima che tutti i comunisti, incluso Varga stesso, maturassero la sensazione di cui Varga qui si lamenta. Infatti, ancora prima, addirittura nel 1920, Lenin e Trotsky si presero la briga di arginare le forze rivoluzionarie d’Europa. La pace in tutto il mondo era necessaria al fine di assicurare la costruzione del capitalismo di Stato in Russia sotto gli auspici dei bolscevichi. Era sconsigliabile avere questa pace disturbata dalla guerra o da nuove rivoluzioni, in entrambi i casi un paese come la Russia sarebbe stato tirato in ballo di sicuro. Perciò, Lenin impose, con divisioni e intrighi, un corso neoriformista al movimento dei lavoratori dell’Europa Occidentale, un corso che portò alla sua totale dissoluzione. Fu con parole argute che Trotsky, con l’approvazione di Lenin, accese la sollevazione nella Germania Centrale (1921): “Noi dobbiamo dire chiaro e tondo ai lavoratori tedeschi che consideriamo questa filosofia dell’offensiva come il più grande pericolo e nella sua applicazione pratica come il più grande crimine politico”. E in altre situazioni rivoluzionarie nel 1923, Trotsky dichiarò al corrispondente del Manchester Guardian, ancora con l’approvazione di Lenin: “Noi siamo certamente interessati alla vittoria della classe dei lavoratori, ma non è per niente nel nostro interesse che scoppi la rivoluzione in Europa, la quale è dissanguata ed esausta, e che il proletariato riceva dalle mani della borghesia nient’altro che rovine. Noi siamo interessati nel mantenimento della pace.” E dieci anni dopo, quando Hitler salì al potere, l’Internazionale Comunista non mosse un dito per prevenirlo. Trotsky non è solo in errore, ma rivela una perdita di memoria risultante senza dubbio dalla perdita della sua uniforme, quando oggi caratterizza il fallimento di Stalin nell’aiutare la Germania comunista come un tradimento dei principi del leninismo. Questo tradimento fu costantemente praticato da Lenin, e da Trotsky stesso. Ma in accordo con un detto di Trotsky, la cosa importante è certamente non cosa viene fatto, ma chi lo fa.

Stalin è, in realtà, il discepolo migliore di Lenin, per quanto riguarda il suo atteggiamento nei riguardi del fascismo tedesco. I bolscevichi non si sono neanche certamente fermati dall’entrare in alleanza con la Turchia e dal fornire supporto politico ed economico al governo di quel paese anche quando le misure più aspre erano state prese contro i comunisti – misure che frequentemente eclissarono persino le azioni di Hitler.

In visione del fatto che l’Internazionale Comunista nella misura in cui essa stessa continua a funzionare è meramente un’agenzia del settore turistico russo, in vista del collasso in tutti i paesi dei movimenti comunisti controllati da Mosca, la leggenda di Lenin il rivoluzionario mondiale è senza dubbio talmente indebolita che si potrebbe contare sulla sua scomparsa nel futuro prossimo. E di sicuro anche oggi i ruffiani dell’Internazionale Comunista non operano più con l’idea della rivoluzione mondiale, ma parlano della “Patria dei lavoratori”, dalla quale attingono il loro entusiasmo finché non sono forzati a viverci come lavoratori. Quelli che continuano ad acclamare Lenin come il rivoluzionario mondiale par excellence in realtà si entusiasmano per nulla più che i sogni politici di potere mondiale di Lenin, sogni che scemano nel nulla alla luce del giorno.

La contraddizione esistente tra la significatività storica reale di Lenin e quella che è generalmente ascritta a lui è più grande e allo stesso tempo più inscrutabile di quella di qualsiasi altro personaggio agente nella storia moderna. Abbiamo mostrato che non può essere considerato il responsabile del successo della rivoluzione russa, e anche che la sua teoria e pratica non può, come si fa spesso, essere apprezzata come d’importanza rivoluzionaria mondiale. Né, malgrado tutte le affermazioni contrarie, Lenin può essere considerato come uno che ha esteso o integrato il Marxismo. Nel lavoro di Thomas B. Brameld intitolato “Un approccio filosofico al comunismo”, recentemente pubblicato dall’Università di Chicago, il comunismo è ancora definito come “una sintesi delle dottrine di Marx, Engels e Lenin.” Non è solo in questo libro, ma anche in generale, e in particolare nella stampa del partito comunista, che Lenin è piazzato in tale relazione con Marx ed Engels. Stalin ha denotato il leninismo come il “marxismo nel periodo dell’imperialismo”. Tale posizione, tuttavia, ricava la sua unica giustificazione da un’infondata sopravalutazione di Lenin. Lenin non ha aggiunto al marxismo un singolo elemento che può essere giudicato come nuovo e indipendente. La prospettiva filosofica di Lenin è il materialismo dialettico come sviluppato da Marx, Engels e Plekhanov. È a questo che si riferisce in connessione con tutti i problemi importanti: è il suo criterio in ogni cosa e la sua corte d’appello finale. Nel suo principale lavoro filosofico, “Materialismo ed Empirocriticismo”, Lenin semplicemente ripete Engels tracciando le opposizioni dei diversi punti di vista filosofici intaccando la grande contraddizione: Materialismo vs Idealismo. Mentre per la prima posizione, la Natura è primaria e la Mente secondaria; per l’altra è vero esattamente l’opposto. Questa formulazione precedentemente nota è documentata da Lenin con materiale aggiuntivo proveniente dai vari campi di conoscenza. E così non si può pensare a un arricchimento essenziale della dialettica marxiana da parte di Lenin. Nel campo della filosofia, parlare di una scuola leninista è impossibile.