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mercoledì 26 dicembre 2018

Rosa Luxemburg e l’opposizione marxista al leninismo

Durante la cosiddetta "rivolta di gennaio", iniziata il 6 gennaio di cento anni fa, Rosa Luxemburg viene rapita e poi assassinata, insieme a Karl Liebknecht, dai soldati dei famigerati Freikorps, i gruppi paramilitari agli ordini del governo del premier social-democratico Friedrich Ebert e del ministro della Difesa Gustav Noske. Il corpo di Rosa, gettato in un canale di Berlino, è recuperato solo il 31 maggio e sepolto nel cimitero centrale di Friedrichsfelde. Si sa per certo che il brutale assassinio avviene il 15 gennaio.

Da questo momento inizia un vero e proprio processo di “beatificazione” per la rivoluzionaria polacco-tedesca portato avanti dalla Sinistra mondiale delle più varie sfumature: già nel 1926 a lei, Karl Liebknecht, Leo Jogiches e Franz Mehring viene dedicato un monumento del famoso architetto Ludwig Mies van der Rohe, commissionato dal Partito Comunista Tedesco (la KPD) di stretta osservanza moscovita. Successivamente, con la fondazione della Repubblica Democratica Tedesca nel 1949 all’interno della zona di occupazione sovietica della Germania sconfitta, praticamente tutto viene intitolato alla memoria di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht: vie, piazze, scuole, biblioteche, musei, perfino monete e francobolli. Il messaggio è molto chiaro ed elementare (benché, come vedremo in seguito, completamente falso): le idee rivoluzionarie della Luxemburg sono sopravvissute alla sua morte nel programma della KPD e si sono poi finalmente concretizzate nella Germania “socialista”, resa possibile dalle baionette russe dopo il crollo del regime nazista.
Ma vi è anche un altro uso, senz’altro più scaltro e intellettualmente sofisticato, ma non per questo più autentico, dell’eredità politica luxemburghiana. Quando diviene chiaro, ad opera soprattutto dei lavori del comunista libertario Daniel Guérin (1971), che il pensiero di Rosa Luxemburg è per moltissimi aspetti irriducibile alla vulgata marxista-leninista di Mosca o di Pechino, ella viene assunta da vari gruppi socialdemocratici critici e “di sinistra” come l’emblema della cosiddetta “Terza Via”, equidistante dal “socialismo reale” sovietico o cinese e dal riformismo socialdemocratico dell’Europa Settentrionale. Campione di questa tendenza in Italia è il dirigente del PSI prima (e del PSIUP poi) Lelio Basso, figura culturalmente molto significativa nel trentennio ’50-‘70, ma alquanto inquieta e oscillante tra un socialismo democratico “radicale” e un comunismo critico “dal volto umano”, con venature anche di operaismo e di terzomondismo. E una tale apologia luxemburghiana da parte dei “riformisti di sinistra” continua ancora oggi: gli esponenti del partito della "Sinistra Europea'', nato proprio a Berlino il 10 gennaio 2004, come primo atto ufficiale si sono recati in pellegrinaggio sulla tomba di Rosa Luxemburg per rivendicare la supposta continuità tra il loro progetto politico e quello della grande rivoluzionaria polacco-tedesca.
Ma chi è davvero questa donna eccezionale che con i suoi scritti e le sue azioni sembra riscuotere un consenso generale nella Sinistra degli ultimi cento anni, mettendo apparentemente insieme lo stalinista Walter Ulbricht, il socialista “di sinistra” Lelio Basso, l’anarco-comunista Daniel Guérin e il comunista dei consigli Paul Mattick, in un modo tale che forse solo un gigante del pensiero come Marx potrebbe fare?
E, soprattutto, se non fosse stata crudelmente massacrata a soli 47 anni, cosa avrebbe pensato del “socialismo reale” edificato dai comunisti ufficiali, o, più in generale, della ideologia dogmatica e totalitaria del cosiddetto “marxismo-leninismo”?
Nelle poche pagine che seguono cercheremo di dare una risposta sincera e senza preconcetti a questi interrogativi arrivando alla conclusione, probabilmente per molti un po’ provocatoria, che è forse proprio il “World Socialist Movement” (WSM), pur con tutte le differenze e i distinguo del caso, a essere il raggruppamento politico di oggi più autenticamente “luxemburghiano”. Paradossalmente utilizzeremo per le citazioni di Lenin parte di un vecchio e misconosciuto articolo telematico (“Chi era Rosa Luxemburg?”, http://www.pmli.it/chieraluxemburg.htm) di un piccolo raggruppamento maoista italiano (il PMLI) che, proprio a causa del suo estremismo settario (agli antipodi del WSM in tutto), riesce ad essere veritiero almeno in un punto: la pluriennale opposizione tra Lenin e la Luxemburg.

domenica 7 maggio 2017

Imperialismo: dove Lenin sbagliò

Abbiamo tradotto questo recente articolo pubblicato sul Socialist Standard n. 1353 di Maggio 2017, non solo perché ne condividiamo a pieno il contenuto, ma anche perché riteniamo che sia un elemento di analisi importante per ridare credito al socialismo marxista. Considerare personaggi del passato, come del presente del resto, infallibili o allo stesso modo dei completi falliti non è mai realistico. Il Movimento Socialista Mondiale ha spesso pubblicato materiale anti-leninista, ma questo non va letto come un voler screditare l’uomo politico, il rivoluzionario o il socialista a prescindere da tutto. E’ importante però analizzare la sua opera e le sue azioni con gli strumenti forniteci dal materialismo storico. Secondo il nostro punto di vista Lenin, già dalla sua presa di posizione del 1902 nel impostare il partito socialdemocratico russo in termini gerarchici avanguardisti, è uscito dal seminato. Il suo atteggiamento denigratorio nei confronti di chi lo criticava, premiato dal suo indiscusso successo politico grazie a quello che fu davvero il suo più grande risultato, ovvero ottenere il potere politico con il colpo di stato di Ottobre, ha determinato una visione ampiamente deformata di cosa è il Socialismo e di come si può raggiungere. Questo breve articolo a seguire rimette in prospettiva l’analisi di Lenin sull’imperialismo e la questione coloniale. Questione coloniale che è anche oggi lungi dall’esser chiusa, se consideriamo, per esempio, gli strascichi nel nord Africa e nel medio oriente. E’ storia dell’altro ieri di movimenti di sinistra internazionalisti sfaldatisi sulla questione della lotte di liberazione dal colonialismo, ci riferiamo per esempio alla sinistra comunista italiana e francese all’inizio degli anni ottanta.                     


Imperialismo: dove Lenin sbagliò

Il mese scorso sono passati cento anni dalla pubblicazione dell’opuscolo di Lenin ‘Imperialismo, la fase superiore del capitalismo’. Riguardiamo qui i suoi difetti.  
Nella sua introduzione Lenin scrisse che l’opuscolo era basato sui punti di vista espressi nel libro ‘Imperialismo’ (1902) dallo scrittore inglese, non marxista, JA Hobson e quelli del socialdemocratico austriaco Rudolf Hilferding nel ‘Capitale Finanziario’ (1910). Hilferding, si basava soprattutto sull’esperienza tedesca, descrivendo come le banche, attraverso quello che oggi chiameremmo investimento bancario, erano arrivate a fondersi con il capitale industriale, raccogliendo capitale per gli industriali e non solo facendoli pagare per questo servizio ma trattenendo una quota per se stesse. Hobson, il quale era un sottoconsumista, sosteneva che ciò che aveva portato all’imperialismo, inteso come investimento e espansione territoriale all’estero, era il sovrappiù di capitale che non riusciva a trovare uno sbocco proficuo nel paese d’origine.        
Lenin combinò queste due visioni venendone fuori con una definizione di imperialismo come ‘lo stadio monopolistico del capitalismo’ dove ‘il capitale finanziario’ e allo stesso tempo ‘il capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche’ si era ‘fuso con il capitale delle unioni monopolistiche industriali’. Accettando la teoria del sovrappiù di capitale di Hobson, Lenin disse che il ‘capitalismo monopolistico’ aveva condotto alla formazione di ‘associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti che si ripartiscono il mondo tra di loro’ e la ‘ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche’.   
Questa era una descrizione passabile di alcuni aspetti del capitalismo a quei tempi, specialmente in Germania, e Lenin aveva ragione nel vedere la prima guerra mondiale come una guerra di ripartizione del mondo tra le più grandi potenze capitaliste. D’altro canto però la sua approvazione della teoria del sovrappiù di capitale di Hobson come una spiegazione per ‘esportazione di capitale’, ovvero, investimenti all’estero, lasciava dei dubbi. Una più lineare spiegazione dell’investimento di capitali all’estero sarebbe che era più proficuo investirli lì che a casa propria.       
Lenin errava anche nel vedere la fusione in stile tedesco di banche e capitale industriale come ‘la fase superiore del capitalismo’. Era un’opinione comune tra i partiti socialdemocratici a quel tempo che la competizione capitalista avrebbe condotto ai monopoli e che quello che ai socialisti toccava fare era prendere possesso di questi monopoli trasformandoli in proprietà comune e riorientare la produzione per soddisfare i bisogni della gente piuttosto che per il profitto. Karl Kautsky aveva ipotizzato che il processo di monopolizzazione poteva portare a un singolo consorzio monopolistico mondiale e a un accordo di non aggressione tra le potenze imperialiste, che egli chiamò ultra-imperialismo. Lenin aveva ragione nel dire che questo era impossibile in quanto le potenze non avrebbero mai trovato un accordo su una suddivisione permanete del mondo ma avrebbero cercato di cambiarlo a seconda di come cambiavano le loro forze. Ma Lenin non vide che questo concernesse i ‘monopoli’ nei suoi paesi ‘imperialisti’. La classe capitalista non era un blocco monolitico ma composta da sezioni diverse con interessi diversi e nessuna voleva essere tenuta in sacco da qualche monopolio. Da cui l’intervento ‘antimonopolistico’ negli Stati Uniti e la nazionalizzazione, e anche la minaccia di nazionalizzazione in Gran Bretagna.    
Fedele al suo stile polemico, Lenin attribuiva un movente a Kautsky, accusandolo di difendere un pacifico capitalismo mondiale anche se Kautsky aveva solo immaginato ‘l’ultra-imperialismo’ come una possibilità teorica. Lenin postulò un collegamento tra ‘l’opportunismo’ del quale accusava Kautsky e ‘l’imperialismo’, argomentando che il riformismo dei partiti Socialdemocratico e Laburista d’Europa era dovuto alle potenze ‘imperialiste’ che usavano una parte dei loro ‘alti profitti monopolistici’ per corrompere ‘certe sezioni di lavoratori’ nel sostenere il riformismo e lo stato nel quale questi vivevano. Dopo il colpo di stato bolscevico questo argomento fu sviluppato in una teoria bell’e fatta che lo strato più alto dei lavoratori in paesi con colonie era stato corrotto per sostenere il capitalismo per dei super-profitti derivanti dall’esplorazione coloniale e che l’indipendenza dei territori coloniali avrebbe ridimensionato questo fenomeno, con il risultato che, deprivati della loro quota di super-profitto, i lavoratori avrebbero abbandonato il riformismo e sarebbero diventati rivoluzionari.  
Questo fu un errore per un numero di ragioni. In primo luogo, va contro la teoria marxiana dei salari che sostiene che i salari sono il prezzo di quello che i lavoratori vendono e che salari più alti riflettono più alte capacità e preparazione tecnica, non qualsivoglia condizione di plusvalore come implicava Lenin (ovvero che parte dei soldi che alcuni lavoratori ricevono dai loro padroni sia una quota di plusvalore, estratto dai lavoratori delle colonie*). In secondo luogo, questo portò a sostenere la creazione di nuovi stati capitalisti per il beneficio della classe capitalista locale. In terzo luogo, presuppone che i lavoratori diventino meno riformisti se il loro livello di vita è diminuito.      
Lenin stesso menzionò un’obiezione, che attribuiva all’anti-militarista menscevico Martov, che la situazione per i socialisti sarebbe alquanto disperata ‘se fossero proprio i lavoratori meglio pagati ad essere inclini all’opportunismo’, per esempio gli ingegneri qualificati. La replica di Lenin era, tipicamente, di accusare anche Martov di difendere l’opportunismo e il riformismo.
Se i bolscevichi non avessero conservato il potere in Russia questo lavoro sarebbe rimasto un opuscolo sconosciuto e datato. Tuttavia, data la posizione di Lenin e la sua successiva semi-deificazione, fu gonfiato in un’opera seria di ricerca e teoria. Il risultato fu che le sue idee errate – specialmente in merito a dei lavoratori che condividono lo sfruttamento coloniale e che i socialisti dovrebbero sostenere l’emergere delle classi capitaliste ‘anti-imperialiste’ – divennero più ampiamente accettate di quanto sarebbero state altrimenti.      
ADAM BUICK (traduzione di Cesco)

* comunicazione personale dell’autore al traduttore

sabato 25 aprile 2015

Dove ci guidano i leader

Traduciamo questo interessante articolo dei compagni del “Socialist Party of Great Britain” rivolto criticamente a uno dei vari gruppi britannici della cosiddetta “estrema sinistra”, poiché le considerazioni dell’autore si applicano in maniera abbastanza puntuale anche a quello che accade nel nostro paese per ciò che concerne la galassia dei partitini leninisti, trozkisti, stalinisti e maoisti: da “Lotta Comunista” al “Partito Comunista dei Lavoratori”, da “FalceMartello” fino al “Partito Comunista - Sinistra Popolare” e al “Bolscevico”. Con in più l’aggravante che in certi casi al discutibile metodo di Lenin se ne è sostituito da noi uno ancora peggiore: il cosiddetto “centralismo dialettico”, dove non vi sono più né congressi né votazioni, ma tutto avviene per pura cooptazione da parte della dirigenza. Direttamente la prassi di una setta esoterica o religiosa...
 
Piuttosto noto nel Regno Unito per le sue imprese, per i suoi banchetti in strada e per il suo attivismo studentesco, il Socialist Worker Party (SWP, https://www.swp.org.uk/) britannico soffrì un paio di anni fa di un notevole arretramento che condusse a un vero e proprio esodo dei suoi militanti. Uno di questi era Ian Birchall, biografo del fondatore del gruppo Tony Cliff e già componente della dirigenza del partito. Era stato membro dell’SWP e del suo gruppo predecessore, l’International Socialism (IS), per oltre cinquant’anni. Lo scorso dicembre ha pubblicato nel suo blog alcune riflessioni [1] su cosa è andato storto nel partito.
Quando venne formato negli anni ’50 come gruppo trotzkista che riconosceva la natura capitalista della cosiddetta URSS (cosa che noi ben sapevamo da parecchio tempo...) l’IS era organizzato allo stesso modo di molti altri gruppi di sinistra del Regno Unito: i suoi membri erano tutti affiliati al Partito Laburista e si definivano “laburisti di sinistra”. Poi negli anni ’60 le cose iniziarono a cambiare: uscirono dal Partito Laburista e nel 1968 Cliff decise che era il momento di riorganizzare il gruppo secondo linee guida leniniste più rigorose. Era stato lo sciopero generale in Francia di qualche mese prima a spingerlo in questa direzione. Tipicamente, da buon trotzkista, Cliff attribuiva l’impossibilità di arrivare alla rivoluzione socialista all’assenza di un partito rivoluzionario che guidasse i lavoratori in sciopero (non che la rivoluzione socialista fosse il reale obiettivo dello sciopero, tuttavia esso era effettivamente un successo da un punto di vista sindacale). Concluse quindi che ciò che i “rivoluzionari” dovevano fare alla luce di questo evento era di organizzarsi apertamente secondo le linee guida del partito bolscevico di Lenin, che, per lui e per la leggenda trotzkista, aveva condotto a una rivoluzione socialista vittoriosa (benché questa fosse successivamente degenerata in un brutale capitalismo di stato...).
Lenin aveva esposto le sue idee su come doveva essere organizzato un partito rivoluzionario nel noto opuscolo del 1903 intitolato “Che fare?”, dove proponeva un partito di rivoluzionari professionisti a tempo pieno che dovevano cercare di guidare i lavoratori e i contadini formulando parole d’ordine populiste che riflettessero il livello di comprensione che “le masse” erano considerate in grado di raggiungere. Ciò poteva avere un senso come strategia per rovesciare un regime retrogrado e autocratico quale lo zarismo. Come accadde, il regime zarista collassò per conto suo sotto la pressione della Prima Guerra Mondiale, ma la forma organizzativa di Lenin contribuì non poco alla presa del potere politico da parte dei bolscevichi dopo il crollo dello zarismo. Tale successo spinse Lenin a proclamare che quello bolscevico era l’unico modo in cui i rivoluzionari si dovevano organizzare, anche nei paesi capitalisti sviluppati là dove esisteva una stabile democrazia politica.
Così nel 1968 i membri dell’IS cambiarono nome sui loro documenti ufficiali da “lavoratori laburisti” a “lavoratori socialisti” e, più importante, abbandonarono la loro precedente struttura organizzativa dove la linea politica era decisa da una congresso di delegati di sezione che votavano mozioni proposte dalle sezioni e dove i membri del comitato esecutivo erano eletti individualmente. Tutto questo fu messo da parte e venne introdotto il sistema della “lista bloccata” che aveva usato il partito bolscevico e che era stato ereditato dal PCUS in Russia (sì, anche in questo il leninismo condusse allo stalinismo...). Con tale sistema la dirigenza (l’“ufficio politico”,il  “comitato centrale” o come vogliamo chiamarla) viene eletta in blocco al congresso di partito. I delegati non votano per i singoli candidati, ma per la lista (o “blocco”) che contiene tanti nomi quanti sono i posti vacanti. In teoria ci potrebbero essere più liste, ma in pratica non ce ne sono (e non ce ne sono mai state). Nell’SWP (come nell’URSS) ce n’era una sola, quella proposta dalla dirigenza uscente. Piuttosto che proporre una lista rivale, gli oppositori della dirigenza preferivano abbandonare il partito e formare un altro gruppo organizzato nello stesso modo (questo spiega la proliferazione di gruppi trotzkisti...). Si può vedere facilmente come sia una ricetta per la nascita di una dirigenza che si auto-replica. Cosa che infatti è puntualmente accaduta, come nota Birchall:
“Gli eventi recenti hanno mostrato i limiti del sistema della ‘lista bloccata’. È diventata un metodo con cui il Comitato Centrale può riproporsi per la rielezione all’infinito, cooptando singole persone designate quando serve.”
Ma anche nell’SWP vi è un’altra conseguenza:
“Inoltre è emersa pure l’idea della carriera: compagni, in generale ex-studenti, diventano funzionari a tempo pieno e, se hanno successo, entrano nell’apparato e divengono membri del Comitato Centrale. Così abbiamo un Comitato Centrale quasi interamente composto da persone che hanno speso la gran parte della loro carriera politica come funzionari a tempo pieno e hanno quindi una limitatissima esperienza lavorativa e sindacale.”Il sistema delle liste bloccate era applicato persino per eleggere i delegati di sezione al congresso di partito:
“Negli anni ’80, quando esistevano direttivi di sezione vigorosi, tali direttivi stabilivano le liste dei delegati al congresso di partito. Se ovviamente in teoria era possibile per i membri proporre liste alternative, questo era malvisto e, in pratica, era alquanto raro far porre all’ordine del giorno del congresso di sezione il punto in cui si raccoglievano le candidature per divenire delegati al congresso di partito. In pratica andava bene quello che faceva il direttivo: era ciò che accadeva normalmente.” Così l’SWP finì per essere un’organizzazione verticista gestita da un gruppetto di dirigenti che si auto-replicava.
Forse sorprende che Birchall non concluda che questo fosse il risultato inevitabile del sistema delle “liste bloccate”, un punto chiave nel concetto di partito leninista di avanguardia. Egli pensa ancora a un partito di rivoluzionari di professione organizzato in modo leninista. Non ce l’ha con la teoria, ma con come è stata applicata nell’SWP: burocraticamente invece che democraticamente. Però per lui “democrazia” non significa una procedura decisionale, ma soltanto un mezzo per informare la dirigenza in modo tale che possa formulare la politica migliore da perseguire e le parole d’ordine più adeguate da proporre ai lavoratori affinché le seguano:
“...una dirigenza rivoluzionaria necessita di sapere cosa accade nella classe lavoratrice. Non lo può fare leggendo il ‘Financial Times’; deve ascoltare i compagni radicati nella varie sezioni della classe che possono riportare quello che succede nella base. Come diceva Cliff: ‘...devono imparare dai loro compagni lavoratori quanto più possibile e persino in misura maggiore di quanto devono insegnare loro. Ripetendomi: il compito è dirigere e per dirigere dovete comprendere in pieno quelli che state dirigendo’.” Questa non è democrazia in nessun senso compiuto. Si sta ancora dicendo che la classe dei salariati e degli stipendiati è incapace di liberarsi da sé e che quindi necessita di un’avanguardia che si è autonominata. Si rifiuta ancora l’idea che il socialismo, in quanto società completamente democratica, possa esser stabilito solo democraticamente, sia nel senso di esser quello che vuole la maggioranza, sia nel senso di utilizzare metodi democratici. Per arrivare al socialismo la classe dei salariati e degli stipendiati necessita certamente di organizzarsi per conquistare il potere politico, per esempio in un partito politico, ma in un partito democratico, e non di seguire un partito di avanguardia o altri possibili capi.
Però c’è una cosa che Birchall sembra aver capito dopo più di cinquant’anni vissuti da trozkista-leninista:
“La cosa importante in questo momento è la battaglia delle idee, come disse William Morris: ‘il nostro compito particolare sarebbe quello di creare dei Socialisti’.” È una citazione dallo “Statement of Principles of the Hammersmith Socialist Society” stilato nel 1890. Ed è ciò che andiamo dicendo noi del “Socialist Party of Great Britain” da più di cento anni.

ADAM BUICK

tratto da “Socialist Standard”  pp. 16 e 17 , n. 1326, vol. 111, febbraio 2015. Tradotto in italiano il 12 aprile 2015.

NOTE
[1] http://grimanddim.org/political-writings/2014-so-sad/


K. Marx o V. I. Lenin? Il primo nel 1864 scrisse che “l'emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi”, mentre il secondo nel 1903, con l’opuscolo “Che fare?”, inventò il partito bolscevico di avanguardia: costituito da sedicenti “rivoluzionari di professione” (in genere studenti o intellettuali stipendiati con le quote dei lavoratori) sarà il germe di tutta la futura nomenklatura sovietica, rapace, repressiva e autoritaria. Il marxismo-leninismo non esiste: è una contraddizione in termini!